UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

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Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 "Punctuality is the thief of Time"

3 Through Food...

4 KulturBhanhof

5 Tea Garden

6 Life, 1935-1985

7 Just waiting for...

8 In Search of Vanished Blood


Vai alla homepage: http://www.undocumenta13.undo.net


DESERTO VIVO
ROBIN KHAN. THE ART OF SAHRAWI COOKING

di Claudia Scavetta

dOCUMENTA (13) si svolge contemporaneamente in diverse sedi quali Kassel, Kabul, Alessandria/Cairo e Banff.
La visibilità data alla città tedesca, "motore" di tutta la rassegna, è bilanciata dal fatto che le altre sedi non rimangono isolate ma dialogano tra loro. Le storie locali di queste terre sono messe in relazione con una fitta rete di corrispondenze e interscambi che attraversa i lavori in mostra.

Il collegamento più evidente è quello che unisce Kassel a Kabul in quanto diversi lavori presentati dagli artisti a Kassel sono una rielaborazione di un loro precedente soggiorno in Kabul . Mi riferisco a Lara Favaretto, Giuseppe Penone, Francis Alys, Mario Garcia Torres ed ad altri quali Jerome Bel, William Kentridge, Tacita Dean, Walid Raad che per altro compaiono nella lista di partecipanti della seconda sede di dOCUMENTA (13).

La scelta di non privilegiare un unico luogo, ma di utilizzare spazi alternativi che attivino una rete di scambi e generino nuovi percorsi, la ritroviamo nella stessa Kassel: la dislocazione delle singole opere ed eventi nel reticolo cittadino ribadisce questa volontà.

I musei tradizionalmente intesi (come il Federicianum e la Neue Galerie) svolgono un ruolo di coordinamento dei lavori in mostra, "The Brain": questo è il termine utilizzato dalla curatrice Carolyn Christov- Bakagiev per definire la Rotonda del Federicianum.
A questi spazi, già utilizzati nelle precedenti edizioni, si aggiungono la vecchia stazione Hautbanhof e il Karlsaue Park, conferendo un carattere di dispersitività all'intera manifestazione. Un policentrismo ed una dislocazione creatori di nuove prospettive.

A mio parere è da sottolineare l'attenzione data da questa dOCUMENTA ai luoghi teatri di guerra o sottomessi a dominazione straniera. La scelta di Kabul come sede conferisce un marcato orientamento in questo senso.
Ma non solo l'Afghanistan è chiamato in causa: nel Federicianum ritroviamo la rivoluzione siriana del 2010-2011 testimoniata dal lavoro di Rabih Mroue (una serie di video girati con telefoni cellulari dai partecipanti alla rivolta); la proiezione di Khaled Houraini che documenta l'esposizione di un Picasso in una galleria palestinese con un diretto collegamento tra guerra civile spagnola e situazione arabo-palestinese; il disagio quotidiano delle popolazioni dell'Algeria nel progetto di Robih Khan di cui mi accingo a parlare.

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"Raggiungi l'albero di Penone, sempre dritto sulla destra..."

Sono queste le coordinate che si forniscono a Kassel a chiunque voglia raggiungere la “tenda sahariana”. Eh si’ anche questo è il bello di dOCUMENTA(13)…la dispersione delle opere in ogni luogo: il parco di fronte al Federicianum diventa un museo a cielo aperto dove imbattersi in decine di installazioni: non c’è una fontana ma c’è "Wawe", opera di Massimo Bartolini; non c’è un semplice albero ma un fusto bronzeo a sostegno di un enorme masso granitico (il citato lavoro di Giuseppe Penone); non una giostra ma l’installazione abitabile di Sam Durant; non una semplice tenda, ma un progetto di condivisione.

Durante la settimana dell'inaugurazione di dOCUMENTA (13), Robin Khan e la National Union of Women of Western Sahara, invitano i visitatori in una "Jaima", una tipica tenda per i rifugiati, a deliziarsi con prodotti tipici della loro cucina denunciando l'attuale situazione in cui versa il loro popolo.
La “tenda sahariana”, da noi così soprannominata è proprio questo: la creazione di una commistione di culture. L’approccio è diretto: offrire cous cous ed ottimo tè verde ai visitatori. La problematica affrontata è profonda: le donne sahariane all’interno della tenda sono prigioniere nel proprio territorio, annesso al Marocco nel 1976 dopo la dominazione spagnola.

Le popolazioni del Sud del Sahara, territorio che si affaccia sull'Atlantico, sono costrette a vivere nella condizione di "straniere in patria" in quanto è proibito loro l'accesso alle risorse fornite dalla propria terra. Gli unici sostentamenti arrivano dalla Comunità Internazionale una volta a settimana ed includono solo generi di prima necessità quali farina, pasta, riso ed olio.
Il territorio, dopo l'invasione da parte del Marocco, è stato diviso in 5 campi, ovvero affastellamenti di "Jaimas" che ospitano i rifugiati. Quella visitabile nel Parco di Kassel è una riproposizione di queste tende.

"Condividere" lo spazio della tenda con i visitatori, dapprima in Algeria ed ora a Kassel, è una modalità pacifica per comunicare la propria tragedia stagliandosi contro l'indifferenza di uno stato, quello del Marocco, che si professa moderno pur perpetuando i propri crimini. "The Art of Sahara Cooking" permette a questo popolo di narrare la propria storia al resto del mondo. Evidenziando la creatività di un insieme di individui, di una comunità, che con poche risorse palesa il diritto alla riaffermazione dell'identità perduta.

Con una metodologia quasi didascalica all’esterno della tenda su manifesti-collage viene descritto il progetto dell'artista americana Robin Khan sviluppato in collaborazione con The National Union of Women from Western Sahara. L’approdo a dOCUMENTA(13) è solo l’ultima tappa di un percorso iniziato con ARTifariti nel 2009, anno in cui l’artista ha vissuto in un campo profughi algerino a stretto contatto con queste donne.
La cartina della regione sahariana mostra la totale scomparsa di questo popolo “dalla mappa dell’umanità”, si parla di 200.000 persone senza uno stato, che sopravvivono esclusivamente grazie ad aiuti umanitari.

La prima cosa a cui paragonerei la tenda è “un’oasi”: ci si arriva quasi per caso dopo aver percorso i tre piani del museo Federicianum antistante al parco ad un ritmo frenetico, cercando di non lasciarsi sfuggire neanche un’opera, di assimilare il più possibile in una frenesia che è tacitamente imposta da dOCUMENTA(13), quindi appena arrivati la sensazione immediata è quella di un luogo di ristoro.

Un po’ per rispetto per la loro cultura e un po’ forse anche per un egoistico voler godere a pieno di ogni stimolo ed esperienza, ci ritroviamo a piedi nudi nella tenda a mangiare cibo tipico offerto dalle ragazze dei campi profughi algerini e a gustare delizioso the, il tutto accompagnato da musiche della loro terra… Incredibile come certi gesti vengano naturali … L’estraneazione è tale che trovarsi a Kassel non è più una certezza… i luoghi si connettono e si confondono...

Mentre ballo con il mio amico, compagno di avventura, l’occhio velato delle ragazze: “eh si’…una ragazza algerina non può permettersi di fare certe cose….”
Sarah mi invita a ballare con lei… cerca persino la musica più opportuna... ma nella tenda irrompono giornalisti di una tv suppongo algerina… lei abbassa lo sguardo e mi fa un cenno, un gesto silenzioso per dire: “Dopo! Ora non posso…”.
Stridente è il contrasto tra la comunione naturale e la voglia di condivisione con le regole dell’educazione loro imposta.
Dietro questa atmosfera ristoratrice si nasconde la problematica dell’integrazione. Gli abiti dai colori sgargianti non vestono ragazze comuni ma profughe algerine.

Quello che mi preme è calare questa micro-storia nell'assetto globale della rassegna il cui intento sembra essere anche quello di scrivere una storia connettendo l'arte contemporanea e gli eventi di attualità, dove la condizione di assedio apre a discussioni e interrogativi: Come affermare un concetto di arte in luoghi dove il solo prendere posizione è un reato?

In ricordo permane l’henne sulla mia mano…كلاوديا (Claudia)…disegnato da una delle ragazze.