UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante [ 2 ]

Vai alla homepage di Giulia Mengozzi

2 di 2

Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante [ 2 ]


Vai alla homepage: http://www.undocumenta13.undo.net



KASSEL TODAY, REVOLUTION TOMORROW
Non è un diario personale, non è un report, non è un articolo, non è un servizio informativo

||||||||||||||||||||||||||

2. | 12.6.12 |



L'ex ospedale pediatrico che ospita gli studenti partecipanti al programma Maybe Educational non è mai stato così pacifico. I corridoi, che generalmente a quest'ora si riempiono di ventenni più o meno oberati di lavoro (e talvolta più o meno ubriachi), sono ora drasticamente vuoti. Del resto, si sa, definire esclusivo un qualsivoglia evento è il miglior modo per assicurarsi una massiccia affluenza. Sicchè, credo che la stragrande maggioranza dei ragazzi, al momento, si trovi da qualche parte a tentare di ridefinire il concetto di open bar. Sono peraltro convinta che si può dire lo stesso, più genericamente, per il pubblico di addetti ai lavori che in questi giorni ha visitato le location nelle quali va articolandosi la tredicesima edizione di dOCUMENTA. Tutti al party, sostanzialmente, a brindare all'inaugurazione ufficiale che si terrà domani.

Ora, siccome io ho venticinque anni e giustamente sono vecchia e stanca, ho ben deciso di tornarmene a casa, sedermi davanti al pc e provare a metter tre parole una in fila dietro l'altra.

[Novantasei ore dopo]

E infine il sonno ebbe la meglio. Del resto la costanza non ha mai fatto parte delle mie altresì innumerevoli virtù - risate registrate, grazie.
Potrei provare a riassumere brevemente cos'è successo in quel di Kassel in questi quattro giorni, ma francamente preferisco concentrarmi su un passato estremamente prossimo, anzichè gettarmi nella titanica impresa di colmare il gap. Non che una cosa escluda l'altra: le dinamiche e i personaggi che costituiscono lo scheletro di dOCUMENTA(13) sono in fin dei conti strettamente interconnessi gli uni con gli altri. In maniera rizomatica, se mi si concede l'uso ed abuso del termine. Non tutto, in tal senso, è percepibile dalla prospettiva di uno spettatore estemporaneo che, legittimamente, dedica non più di qualche giorno alla documenta Stadt.

Insomma, dodici Giugno duemiladodici: cinque ore e mezza di sonno, cinquantadue minuti di corsa nel Karlsaue Park. Rapida fila per la doccia, doccia ancora più rapida, imprecazioni a non finire contro il clima che con un elegante eufemismo definiremo instabile ed infame - con le relative difficoltà in materia di abbigliamento. Tram numero cinque, quattro fermate. Passeggiata fino alla Turnhalle, casa base del progetto AND AND AND. Meeting improvvisato con un cospiquo gruppo di studenti: fioccano speculazioni più o meno condivisibili sulle relazioni tra arte e politica oggi, su come spesso ci si trovi a dover e voler coniugare l'essere al contempo artisti ed attivisti - e soprattutto come farlo. Sulla presenza oppressiva della polizia nel contesto dell'occupazione di una strada e se nell'occupazione medesima si possa riscontrare una determinata valenza artistica, una pratica (non certo inedita e questo noi italiani sembriamo riconoscerlo meglio di altri) di utilizzo del corpo e, perchè no, gestazione di nuove forme di linguaggio.
La provocazione che lancio, in questi casi, è sempre la stessa: posto che l'opera d'arte, se è davvero tale, è sempre un gesto politico, possiamo altresì affermare che l'operazione politica, nel contesto contemporaneo, è considerabile gesto artistico? E' applicabile, insomma, questa benedetta proprietà commutativa? Certe volte mi sorprendo a sospettare che qualche istituzione (dOCUMENTA(13) in primis?) stia cercando delle scorciatoie in questa direzione, cavalcando una necessità globalmente condivisa, esacerbata da uno stato di crisi che non stenterei a definire terminale. Nutro un'insana passione per i punti interrogativi e generalmente preferisco porre quesiti che puntare il dito. Ogni tanto mi piacerebbe sentire un abbozzo di risposta, fosse anche un laconico "ragazza, stai delirando". Anche stavolta sono ovviamente andata in bianco, ma ciò non toglie il benchè minimo valore alla conversazione. Questi momenti assembleari sono, a mio avviso, una delle piccole perle del progetto al quale sto prendendo parte.
Ad ogni modo, riflettere sullo stato di salute del capitalismo e della società contemporanea mette un sacco di fame, per cui potete ben immaginare in che direzione sia andata a parare la time schedule della giornata. Teoria & azione, aka dalla riflessione sulle pratiche di vita non capitaliste ad una grande bouffe di prodotti biologici locali acquistati direttamente dagli avveduti produttori del caso.

Dopodichè, con ritmi rigorosamente rilassati, ci siamo dedicati alle attività di Storytelling & propaganda concernenti il progetto - volgarmente detti "comunicazione".
Arriva il tardo pomeriggio, ci ricordiamo improvvisamente che fuori dalla Turnhalle c'è tipo il resto del mondo e decidiamo di andare a dare un'occhiata al progetto di ricerca Scratching on Things I Could Disavow. A presentare l'opera è l'artista medesimo, Walid Raad.
Residente a New York, Walid Raad nasce, cresce e si forma in Libano: Scratching on..., alla stregua dei precedenti lavori, si focalizza sullo stato dell'arte nel mondo arabo, mettendone in luce le forti contraddizioni. Contraddizioni che sono al contempo divergenti e speculari rispetto a quelle che, ahinoi, la società occidentale ci ha abituati a fronteggiare.
L'occhio di Walid è intelligente, la forma raffinata. La lunga presentazione orale dell'intero lavoro, articolato in più parti, rende il tutto comprensibile senza per questo risultare didascalico o, ancor peggio, telefonato. Questo, però, è solo il carattere iniziale dell'esperienza: Walid ci racconta nel dettaglio le losche attività speculative della fantomatica compagnia APT. Attraverso una narrazione avvicente supportata da una mappa concettuale ben sviluppata, l'artista sembra costantemente sul punto di rivelarci cosa davvero si celi dietro la volontà della compagnia di investire su una rosa di giovani artisti selezionati in alcune importanti metropoli e perchè, tra queste, figuri anche Dubai. Non voglio disintegrare l'effetto sorpresa, ma sappiate che Walid non andrà mai a rimuovere questo grosso punto interrogativo dalla vostra fronte.
Anzi, andrà a connettersi ad un'installazione video decisamente più ermetica della mappa di cui sopra. Il tutto richiama la familiare immagine degli infiniti corridoi dei grandi musei: l'installazione confluisce all'interno di una complessa dissertazione sul progetto concernente la costruzione di un nuovo Guggenheim e un nuovo Louvre ad Abu Dabi.
In maniera lievemente nebulosa, Walid continua a sottoporci informazioni che non fanno altro che creare dubbi ed aspettative. Man mano che si procede nell'esposizione del lavoro, la situazione appare sempre più nebulosa, si carica di dati improbabili finanche ad assumere un carattere che può tranquillamente definirsi surreale, a dispetto della chiarezza del registro assunto da Walid. Lo step successivo è il plastico che miniaturizza la personale tenutasi a Beirut, nella quale (in uno spazio espositivo che lui non stenta a definire "il white cube dei white cube") sostiene che il suo lavoro fosse stato effettivamente miniaturizzato rispetto alle dimensioni effettive. Poi un archivio che testimonia la ricerca alla quale Walid si è dedicato, approfondendo le vite di alcuni artisti ormai deceduti. Walid sostiene che i nomi gli siano stati suggeriti tramite contatto telepatico da artisti del futuro e che certe interferenze, inevitabili nell'uso di questo particolare dispositivo comunicativo, abbiano creato delle incomprensioni rispetto alle identità delle artisti in questione. Walid ci racconta questa trafila di assurdità con assoluta cognizione di causa e padronanza di sé: pendiamo letteralmente dalle sue labbra, sorprendendoci, talvolta, a dimenticare che tutta questa storia suona quantomeno inverosimile. Abbandoniamo questi pannelli, grosse porzioni di muro letteralmente sradicate da un'ipotetica struttura architettonica; il loro carattere mi sembra quasi posizionarsi a metà tra un dispositivo museale ed il reperto archeologico. Circumnavighiamo i pannelli e, al di là di questi, si conclude la nostra ormai surreale visita all'interno di Stratching on... Quel che ci troviamo innanzi, stavolta, sono semplicemente cornici: contengono lettere stampate, ingrandimenti di piantine, monocromi, porzioni di cataloghi. Ricorrono determinati colori, sui quali Walid si concentra, andando a far conflagrare l'intera esperienza in un'accorata digressione su come la storia (facendo direttamente riferimento alla guerra del Libano) possa cambiare la natura dei colori medesimi, ivi intesi, ovviamente quali rappresentati del più ampio concetto di cultura.

Il lavoro di Walid Raad prende le mosse da fatti del tutto verosimili che, man mano, si caricano di crescente lirismo, di una certa poetica dell'assurdo che, nondimeno, si colloca all'interno del contesto iniziale in maniera assolutamente mimetica, lasciando lo spettatore ammirato e straniato al tempo stesso, spesso intento a chiedersi cosa sia vero e cosa sia fittizio, come in una sorta di deformazione del verfremdungseffekt brechtiano. Il concetto medesimo di documento è qui messo in discussione, al contempo distorto ed elevato a potenza.
L'esperienza si abbandona con un'unica parola in mente: GOOGLE.
Per quanto mi riguarda, disponevo già di qualche dato. Come già accennato, i collegamenti tra persone e tematiche qui si costruiscono spesso in un modo che mal si concilia con la rigida struttura del programma. Caso vuole, quindi, che avessi già avuto modo di conoscere Walid durante una delle assemblee del ciclo Art of 1% (sì, beh, l'uso della parola "ciclo" è giustificato da esigenze pragmatiche), incontri informali organizzati nella Turnhalle, nel contesto del progetto AND AND AND. L'ordine del giorno consisteva nella spinosa questione del nuovo Guggenheim di Abu Dabi, questione che va direttamente a toccare l'ambito della lotta per i diritti umani, considerato che pare nessuno si stia preoccupando di considerarli granchè, date le condizioni nelle quali sono costretti a vivere gli innumerevoli lavoratori necessari alla costruzione di questo pantagruelico agglomerato di spazi espositivi, scuole d'arte e location per servizi annessi e connessi. Boicottare o non boicottare? Dialogare con l'intera rete Guggenheim o concentrare le proprie energie nel tentare di arrivare direttamente agli sceicchi? Quale peso possono arrivare ad avere gli artisti all'interno di questo processo?
In Stracthing on... Walid Raad dedica una parte del lavoro alla questione Abu Dabi, ma non accenna minimamente ai dettagli estremamente concreti che sono invece stati oggetto di disamina e discussione nel contesto della Turnhalle. Se due più due non fa quattro, quantomeno s'arriva a tre e mezzo: combinando i dati desunti dall'incontro e da Stratching on...il quadro di questa delicata situazione si fa immediatamente più chiaro. Qualcosa, di quei rizomi sotterranei, viene in superficie - e nondimeno ti passa immediatamente la voglia di mettere piede all'interno di qualsiasi Guggenheim.


G.


ps. il party non era affatto open bar, mi dicono

pps. come si può facilmente desumere dalle fotografie che trovate nella pagina di Claudia Antelli, alla fine sono anche riuscita ad andare a qualche party, sicchè forse sono ancora giovane

ppps. party a Kassel = videoinstallazioni brutte, bicchieri d'acqua a due euro e curatori sbronzissimi