Attraversare le contingenze allargando le prospettive

27/03/2013
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Scene da un patrimonio

Scene da un patrimonio - Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il settore dei beni artistici.
Questo il titolo del libro di Antonio Carnevale e Stefano Pirovano, fresco di stampa per Galaad edizioni. Attraverso le conversazioni raccolte nel volume, gli autori conducono un'indagine sulle condizioni del nostro patrimonio artistico, sui suoi mali e sui rimedi che potrebbero rimetterlo in salute.
Hanno scelto di intervistare: Gabriele Accornero, Gabriella Belli, Franco Bernabè, Francesco Bonami, Luca Caburlotto, Andrea Carandini, Roberto Cosolini, Enrico Crispolti, Massimo De Carlo, Piero Fassino, Claudia Ferrazzi, Paolo Fresco, Giuseppe Guzzetti, Cesare Lampronti, Massimo Minini, Antonio Natali, Carlo Orsi, Enrica Pagella, Antonio Paolucci, Michelangelo Poletti, Attilio Rappa, Vittorio Sgarbi, Beatrice Trussardi, Giuliano Urbani.
A loro hanno chiesto: quali strategie adottare, in tempi di crisi, per rilanciare i beni artistici italiani? Come valorizzare le immense potenzialità di un settore tanto importante per lo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese? E soprattutto: quali criteri dovrebbero guidare l'azione del governo in materia di Beni culturali?

Moltiplicando gli interrogativi e le ipotesi, qui Antonio Carnevale e Stefano Pirovano rispondono alle nostre domande e poi ci propongono una delle conversazioni che sono pubblicate nel loro libro, con le argomentazioni di Massimo Minini.



La copertina del libro "Scene da un patrimonio. Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il settore dei beni artistici" di Antonio Carnevale e Stefano Pirovano, 2013, Galaad Edizioni. Illustrazione di Alessandro Gottardo




Massimo Minini, gallerista. Foto di Elisabetta Catalano. Sotto, una sua intervista tratta dal libro




Com'è nata l'idea di questo libro e perché l'avete scritto in due?

Antonio Carnevale, Stefano Pirovano: Il libro nasce da un'inchiesta pubblicata lo scorso anno su Panorama per mettere in luce i comportamenti incivili di certi sindaci e assessori alla cultura. Mentre lavoravamo al pezzo, ci ha colpito quanto la società risultasse disinformata riguardo al proprio patrimonio culturale. Poi abbiamo scritto in due per evitare personalismi e bilanciare i reciproci punti di vista. Certe idee vanno condivise, non imposte.

Come avete scelto le persone a cui fare le interviste?

A. C. e S. P.: Abbiamo scelto in base alla nostra esperienza personale, cercando di costruire una polifonia di punti di vista realmente autorevoli. Gli autori garantiscono che questo è almeno una parte di quanto di meglio oggi ci sia in campo, sta poi al lettore tirare le fila e scegliere da che parte stare.

24 persone sono abbastanza?

A. C. e S. P.: Certi libri sono come le fotografie, sono legati all'istante e hanno la forza di essere parziali.

Parlateci dell'effetto d'insieme in cui i diversi temi sono "magicamente" ripresi da persone differenti (come se dialogassero?)

A. C. e S. P.: Esatto, è proprio come se si trovassero tutti intorno a un tavolo ... ma questo non era previsto, anzi. Cercavamo uno schema, nessuno ci convinceva, così abbiamo provato a rileggere le interviste in semplice ordine alfabetico e ci siamo letteralmente meravigliati di quanto non solo i temi, ma anche gli episodi a cui gli intervistati facevano riferimento si incastravano alla perfezione, creando percorsi interni al libro che nemmeno avevamo immaginato.

Due letture diametralmente opposte che vi aspettate dai lettori?

A. C. e S. P.: Pur avendo cercato di porre l'accento sui rimedi possibili, piuttosto che sui mali noti, qualcuno si sentirà inevitabilmente chiamato in causa. Pensiamo alla politica, a cui il libro è idealmente indirizzato. Poi ci sono gli addetti ai lavori, che qui dovrebbero trovar quella visione d'insieme che troppo spesso in questi anni è mancata. Infine vengono i cittadini, gli elettori, che dopo aver ascoltato i testimoni dovrebbero aver le idee più chiare su cosa in un Paese che si dice civile si deve chiedere e pretendere dai propri rappresentanti quando si parla di beni artistici e patrimonio culturale. Anche perché, svalutando il patrimonio pubblico, perde valore anche quello privato.

Qual e' l'obiettivo (vero, ideale?) del libro?

A. C. e S. P.: Il sottotitolo avrebbe potuto essere anche “appunti per una corretta politica dei beni culturali”.

Quale dei personaggi intervistati riflette maggiormente le vostre opinioni?

A. C. e S. P.: Tutti quelli che hanno detto che i soldi ci sono, ma si spendono malissimo e che il vero problema, in questi anni, è stata la totale mancanza di politiche sane e di lungo termine.



Abbiamo chiesto ad Antonio Carnevale e Stefano Pirovano di pubblicare su UnDo.Net una delle interviste di cui è composto il libro. Quella che segue è stata fatta a Massimo Minini, gallerista.

Non si tratta solo di uno dei pochi galleristi italiani che sono riusciti a competere anche fuori dai confini nazionali, ma di un intellettuale curioso e raffinato che negli ultimi anni ha costantemente accompagnato il lavoro in galleria a quello di narratore del proprio mondo, sviluppando un acume critico di rara efficacia.

Da qualche tempo chi visita i suoi stand alle fiere trova spesso opere corredate di didascalie scritte di suo pugno. Lui li chiama pizzini. Non descrivono l’opera, ma ne raccontano la vicenda, lo spirito, l’autore.
Già, perché se da una parte esistono i mercanti, cioè coloro che si concentrano sulla vendita dell’opera curandosi del valore economico prima che di quello culturale, da un’altra ci sono i galleristi, che si dedicano agli artisti più giovani, promuovendoli e investendo nel loro lavoro tempo e risorse.

In questo caso il coinvolgimento con l’opera e con il delicato processo di affermazione del suo valore è tutt’uno con la capacità di venderla – che non significa solo trovarle un compratore, ma piuttosto un bravo collezionista, che a sua volta sappia contribuire alla crescita dell’artista. Il successo, poi, sarà il tempo a decretarlo.

Da quando ha aperto i battenti nel 1973, a Brescia, per la galleria di Massimo Minini sono passati non solo grandi artisti internazionali come Dan Graham, Peter Halley o Anish Kapoor, ma anche il meglio dell’arte italiana.
Da Alighiero Boetti a Vanessa Beecroft, da Stefano Arienti a Maurizio Cattelan, da Alberto Garutti a Giulio Paolini, solo per citare i nomi più importanti, sono numerosi gli artisti che, prima di essere riconosciuti dal mercato, hanno frequentato la galleria Minini come giovani di belle speranze.


È davvero così importante per un paese ricco di patrimonio storico come l’Italia riuscire a dire la propria anche quando si tratta di contemporaneo?

Massimo Minini: In effetti penso che l’arte abbia perso la centralità che ancora le si attribuisce. Non siamo nel Rinascimento, dove gli affreschi nelle chiese erano un modo di comunicare, e con l’arte i poteri trasmettevano la loro immagine. Oggi i mezzi di comunicazione sono altri, e poi ci siamo abituati a chiamare arte ogni cosa, una piramide come un vasetto fittile. Eppure noi viviamo nell’oggi, quando usciamo dall’aeroporto prendiamo il taxi, non la carrozza coi cavalli. Quindi avere un grande passato non vuol dire dover rinunciare ad avere un presente. Forse dovremmo anche chiederci cosa lasceremo a chi verrà dopo di noi. Solo autostrade, capannoni e palazzetti dello sport?

Dove crede sia il confine tra queste due dimensioni della cultura, passato e presente?

M. M.: Se il passato è studio, ricerca, analisi, conservazione, il presente è qualcosa che si vive, di pancia oppure d’istinto. Per questo i nostri storici dell’arte, che sono strepitosi nel loro sapere libresco, quando si trovano a scegliere gli artisti di oggi non ne imbroccano una. Gli manca il vissuto. Perché un conto è lavorare con le opere, un altro è avere a che fare con le persone che le creano.

Lei è un gallerista di grande esperienza, uno dei pochi italiani a essere riuscito ad accreditarsi all’estero. Che impressione le fa il nostro paese quando lo vede da capitali dell’arte contemporanea come New York, Londra o Parigi?

M. M.: Come ai suoi tempi l’antica Roma guardava l’Albania, ovvero una provincia dell’Impero. Ovviamente l’Italia non è l’Albania. Abbiamo qualcosa di più: per esempio la forma a stivale della nostra penisola. Penso a Luciano Fabro, che scriveva: «Amo quelli che amano la forma dello stivale».
Quando uno guarda il mappamondo non può non guardare l’Italia. Non esiste un’altra nazione con una forma così riconoscibile… A parte questa poetica riflessione di Fabro, nel mondo dell’arte il nostro è un paese con il quale bisogna fare i conti.

Non credo che, come si diceva una quindicina d’anni fa, siamo depositari del 70% del patrimonio artistico mondiale. Ma è pur vero che siamo un paese in cui quando metti le mani nella terra salta sempre fuori qualcosa. È per questo enorme patrimonio che uomini di cultura hanno fatto – e fanno – il famoso “viaggio in Italia”: un pezzo di mondo unico, irripetibile, anche se in questi ultimi cent’anni abbiamo messo in crisi quanto gli Italici hanno creato di bello nei precedenti 40.000 anni, più o meno da quando l’essere umano lascia i primi segni dell’arte e del pensiero.

Quanto dipende questa immagine di noi, cioè di una grande cultura, da chi in termini di politica culturale ha ben seminato negli anni passati?

M. M.: Oggi in effetti l’Italia sembra meno fornita di personalità come quelle di Roberto Longhi o Adolfo Venturi. Siamo diventati un paese più provinciale, che negli ultimi cinquant’anni ha perso molte posizioni. E lo dico per esperienza. Per esempio, il telefono a gettoni. Era una cosa all’avan­guardia, solo noi l’avevamo in Europa. Oppure, pensiamo a Roma.

In un certo periodo c’erano Moravia, Pasolini, Visconti, Ferreri, Elsa Morante, Calvino, Pavese, Fellini, Pascali, Mastroianni, Flaiano, Bacchelli, Landolfi, Guttuso, Zavattini, Vedova, Scarpa, Giò Ponti, Sottsass, Adriano Olivetti, Pertini, Amendola, Massimo Mila…
Magari questo è solo un mio punto di vista, perché ognuno di noi vede gli anni della propria giovinezza come un tempo mitico. Ma oggi sembra proprio che non ci siano figure di quello spessore.

Per quale motivo?

M. M.: Di certo una delle ragioni è che il sistema editoriale, culturale, museale è stato ridotto a pochi grandi operatori, un po’ come è avvenuto con le gallerie d’arte. Prima c’era il mercato, con tanti soggetti che vi si affacciavano, ognuno con le proprie proposte.
Oggi c’è il supermercato, con poche grandi concentrazioni, alcune delle quali fatturano più di un medio stato africano. A scapito della creatività dell’individuo. Credo invece che dovremmo tornare ad attribuire centralità all’individuo, alla persona, e non ai grandi gruppi.

Cosa dovrebbe fare dunque un ministro della cultura per sciogliere questi nodi?

M. M.: Innanzitutto bisogna creare le condizioni politiche ed economiche perché le cose avvengano. Per esempio, non si dovrebbero spendere 140 milioni di euro per costruire un museo e poi non avere più soldi per finanziarne il programma.

Quando mi trovo all’estero spesso mi si chiede dove andare per vedere l’arte contemporanea italiana, o la grande collezione del Ventesimo secolo. Ma, come ha notato anche Germano Celant, non c’è nessun museo in Italia che ci faccia vedere tutta la complessità del nostro Novecento. Non lo fanno il Maxxi e la Gnam a Roma, e nemmeno il Museo del Novecento a Milano.

Ho anche provato a suggerire a Stefano Boeri, assessore alla Cultura del Comune di Milano, di non fare più mostre a Palazzo Reale, e di aprire invece quegli spazi al Museo del Novecento, in modo da permettere di allargarne le collezioni, magari sfruttando la formula dei prestiti temporanei. Mi è stato risposto che non si può perché le mostre attirano gente. Ma un grande museo è la mostra di se stesso.

Il Comune di Milano possiede più di cinquemila opere chiuse nei magazzini. Oltretutto, quando si tratta di contemporaneo, non bisognerebbe nemmeno acquistare opere. Basterebbe creare le condizioni perché siano i privati a donare o a prestare le loro.
Basterebbe avere un grande museo vuoto, ma prestigioso e funzionante. Allora sì che sarebbe possibile dialogare con i collezionisti, magari con il vantaggio di non avere una collezione fissa, ma qualcosa di dinamico, in grado di rinnovare l’interesse del pubblico.

Dunque non è una questione di soldi?

M. M.: No, ma di come le risorse disponibili vengono impiegate. Se siamo in un’economia di guerra, non possiamo fare finta di niente. Si tratta invece di cogliere le opportunità, magari per razionalizzare e migliorare un sistema che fino a oggi ha molto sprecato.
Penso alla Val Camonica dove sono nato. Qui Emmanuel Anati, archeologo di fama internazionale, ha creato dal nulla un centro di studi sulla preistoria noto in tutto il mondo, con risultati straordinari.

Dopo cinquant’anni di lavoro il suo Centro Camuno di Studi Preistorici ha accumulato un debito di 300.000 euro, ed è successo un pandemonio. Eppure si sta parlando della cifra che normalmente serve per costruire una rotonda spartitraffico.

Ripeto, in cinquant’anni il Centro Camuno, grazie al quale oggi l’arte preistorica italiana è conosciuta in tutto il mondo, ha accumulato un debito pari al costo di una rotonda; e Stato e Regione gli hanno tagliato le gambe. Direi che siamo autolesionisti. Serve che dica altro?

L’Italia è un paese che sta cercando di cambiare abitudini sotto molti punti di vista, anche quello fiscale. Come stanno vivendo questa fase le gallerie d’arte?

M. M.: La situazione è molto difficile. Da noi il mercato è quasi crollato, e credo che per qualche anno la situazione non migliorerà di molto. Cerchiamo nuove strategie e si punta a clienti diversi.
Oggi in una galleria come la mia lavorano otto persone assunte regolarmente che devono essere retribuite. Dobbiamo inventarci nuove situazioni. L’Italia è quasi persa. Iva altissima, balzelli di ogni genere, diritto di seguito assurdo su ogni passaggio e sempre sulla cifra totale…

Crede sia giusto che il fisco consideri la galleria che produce cultura alla stregua di una qualsiasi altra attività commerciale?

M. M.: Editoria e teatri sono aiutati, noi invece passiamo per evasori. In Francia l’Iva sulle opere d’arte è al 5,5%, in Svizzera all’8%, in Germania al 7%. Da noi è al 21%, e non c’è verso di cambiare le cose. Anzi, qualche anno fa lo Stato ha introdotto il diritto di seguito, incaricando la Siae di incassarlo e penalizzando ancora di più il settore. Con il semplice risultato che chi può, gli affari va a farli fuori Italia.

In pratica, se un collezionista compra da me un’opera in galleria paga il 21% d’Iva, più il 4% di eventuale diritto di seguito. Se invece la compra a Basilea durante la fiera, paga solo il 10% per l’importazione.
Eppure con lo Stato bisogna sempre stare attenti, perché si rischia di peggiorare la situazione invece di migliorarla. Non vorrei che considerassero l’arte un bene di lusso, aumentando l’Iva…

Musei: è vero che in Italia sono troppi? Quali andrebbero tenuti e quali si potrebbero chiudere?

M. M.: Dei ventisette musei che fanno parte dell’Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani (Amaci) solo due o tre si può dire che siano noti all’estero. Qualche anno fa si conosceva Rivoli, poi è venuto il Maxxi, che ha fatto parlare di sé più per le forme che per i contenuti. Il Mart ha un programma italiano, ed è più simile a un’università che a un museo.

Non c’è nulla come la Tate o il Palais de Tokyo. Eppure – non sono il solo a dirlo – l’Italia ha avuto un Novecento di grandissima qualità. Forse ci vorrebbe qualche azione diversa, spettacolare, che facesse notizia.
Recentemente ho suggerito al sindaco di Brescia, che voleva aprire un nuovo mu­seo, di non farlo. Piuttosto è meglio pagare un pullman che ogni giorno da Brescia porti le persone in un grande museo del nord Italia.
Se anche il pullman costasse mille euro al giorno, sarebbero circa 300.000 all’anno, molto meno di quanto anche un pessimo museo potrebbe costare. E vorrebbe dire mandare 15.000 persone ogni anno a vedere qualcosa di serio!

Accentrare o decentrare?

M. M.: Accentrare, senza dubbio. Si vedano i Frac francesi, cosa hanno prodotto? Se si vuole essere competitivi bisogna raggiungere una certa massa critica. Il problema di Milano, per esempio, è che ci sono troppi spazi, ma nessuno di qualità. Vista da fuori, Milano sembra non contare nulla, non lascia tracce visibili. In questo caso la polverizzazione non è una ricchezza, ma un punto debole.

A Milano collezionisti, fondazioni private e banche non riescono a mettersi d’accordo. Nemmeno l’Acacia (Associazione Amici Arte Contemporanea) è riuscita a fare un gran che. Non riusciamo a fare sistema.

Come fare allora?

M. M.: Bisognerebbe riuscire a mettere intorno a un tavolo quelle poche persone che contano… con libretto degli assegni alla mano. La borghesia è sparita, e non ha più nemmeno un sussulto, non esprime uno status, non c’è più, semplicemente.
La Chiesa non è più un committente, la politica pensa a costruire rotonde e concedere licenze edilizie.

Quale caratteristica preferisce in un collezionista?

M. M.: Oggi le grandi opere le vendiamo agli art consultant, che comprano per conto terzi: collezionisti che rinunciano all’unico vero piacere, quello di trattare, cercare, desiderare. Invece il collezionista migliore è quello che viene in galleria, studia, contratta, si informa, vuole sapere. La collezione è fatta anche di relazioni umane.

Quale consiglio darebbe a un giovane che vuole iniziare il suo lavoro?

M. M.: Qualcuno dice che ora è troppo tardi, e forse non ha torto. Però anch’io quando ho iniziato, nel 1973, pensavo che fosse troppo tardi. Quindi ho capito che una galleria si può sempre aprire. L’importante sono le idee e la determinazione nel raggiungere i risultati. Se ci sono soldi meglio, ma a volte possono diventare un limite. Chi li ha spesso li brucia nei primi due anni, perde fiducia e smette.

Poi bisogna considerare che nulla si improvvisa. Costruire una galleria è un’operazione complessa. Ci vuole fortuna, intuizione, studio, attenzione, intelligenza, furbizia, prontezza, soldi, impegno, continuità…

Un esempio? L’Arte Povera nei primi anni Ottanta sembrava destinata all’oblio, la Transavanguardia l’aveva messa in un angolo. Invece i giochi si sono ribaltati. Un gallerista deve saper vedere e prevedere, aspettare e recuperare, spingere e sostenere… Un mestiere complesso e affascinante, pur se oggi immiserito da questioni fiscali, amministrative, burocratiche.

Si sente di dare un consiglio al nuovo ministro per aiutare l’arte italiana ad affermarsi nel mondo?

M. M.: Dobbiamo partire dal presupposto vero che la qualità degli artisti contemporanei italiani è altissima, anche a voler essere molto selettivi. Però questo patrimonio è delicato.

Non è gettando qualche soldo sul tavolo che si risolve la situazione. L’Olanda, per esempio, ha dimostrato che l’assistenzialismo in arte non porta a nulla. Sono sempre più numerosi gli artisti che vengono dalla strada rispetto a quelli che vengono dalle Accademie.

Una volta, durante un’inaugurazione, il grande artista Alighiero Boetti mi ha detto: «…hai presente quelle mostre che fanno gli assessori alla cultura?». Siamo scoppiati a ridere, aveva centrato il punto. Per certi versi forse è un bene che non ci siano più i soldi che c’erano prima.

Il modello da seguire?

M. M.: America, Germania, Inghilterra, che negli ultimi anni sono riuscite a creare strutture riconoscibili dall’esterno e ora gente di ogni parte del mondo prende l’aereo per andare a Londra, Berlino, New York a vederle. E il punto non è solo il numero di visitatori delle mostre.
Importante è l’immagine globale che una nazione riesce a offrire di sé tramite l’arte, che forse non è più la sola punta di diamante in campo culturale, ma è comunque una delle fondamentali manifestazioni del pensiero e della creatività.


Intervista tratta dal libro di A.Carnevale e S.Pirovano, "Scene da un patrimonio. Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il settore dei beni artistici", 2013, Galaad Edizioni, 238 pagine.



Antonio Carnevale (1971), giornalista, lavora alle pagine culturali del settimanale Panorama. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo "I santi muti".

Stefano Pirovano (1974) è critico d'arte e giornalista indipendente. Nel 2010 ha pubblicato "Forma e informazione. Nuove vie per l'astratto nell'arte del terzo millennio". Dal 2012 è autore del sito www.theartpriest.com