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Extrart (2006-2009) Anno 6 Numero 26 maggio-giugno 2006



La Coca-Cola

Carmen Lorenzetti

Storia e antistoria di un mito del XX secolo



iniziative coordinate per l'arte contemporanea
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L’8 maggio del 1886 è l’atto di nascita di uno sciroppo per il mal di testa, inventato dal farmacista John Styth Pemberton e pubblicizzato il 29 dello stesso mese per la prima volta sul quotidiano Atlanta Daily Journal con il nome Coca-Cola.
Allora costava un nichelino (l’equivalente di 5 centesimi) e otto anni più tardi era già diventato il soft drink più bevuto d’America. All’inizio del nuovo secolo la compagnia parte alla conquista del mondo con il suo marchio in caratteri spencer, inventato subito e divenuto sigla ineliminabile, unitamente alla snella silhouette della bottiglietta. In Italia si arriva a produrre le bottiglie nel 1927, le lattine nel 1975.

Nel frattempo la Coca Cola è diventata un colosso, un simbolo americano e, di riserva, globale. Politica economica e marketing sempre più raffinato, accompagnano la storia dell’America e offrono, nelle interpretazioni delle campagne pubblicitarie uno spaccato sociale, che la compagnia contribuisce a modellare. Risale al 1950 la prima pubblicità televisiva della Coca Cola, che ruota attorno al famoso slogan “The pause that refreshes”, mentre gli anni sessanta e del boom economico sono stigmatizzati da Things go better with Coke, spia di un sistema di inclusione al modello vincente americano cui si vuole conquistare il mondo, così recita la canzone a fine spot: “I’d like to buy the world a Coke”.
I settanta, gli anni del Watergate e del ripiegamento, vedono la compagnia riferirsi ai valori nazionali, al baseball e al country-western con la campagna Look up, America e la sigla musicale è: “no matter what you’re doing or where you are, look up for the real things”. La reificazione della merce è ormai completata, la bevanda diventa luogo di valori stabili, duraturi, veri, americani. Negli anni ottanta la campagna Red, White and You segna un punto di svolta: locations inusuali e attori non professionisti colgono l’importanza dell’identificazione emotiva della gente con il prodotto. Freschezza e sentimenti (i buoni sentimenti legati all’amore e alla famiglia) sono i leit-motiv costanti.
Negli anni novanta mutano le formule: con la campagna Always Coca-Cola, il protagonista è un orso polare tutto fatto in animazione 3D. A chiusura del decennio viene lanciata una campagna per la fine del mese del Ramadan nei paesi musulmani, che passa attraverso la commercializzazione dei valori di amicizia e carità, tipici del Ramadan e lo spot del bimbo che regala a degli orfani la Coca Cola finisce con: “Sempre con un buon spirito. Sempre Coca-Cola”. Il nuovo millennio si apre con la campagna Coca-Cola. Enjoy, la Coca, piacere semplice, immediato, raggiungibile, diventa una magia naturale.

Sotto a tutta questa naturalità però c’è l’intero sistema di produzione, capillarmente ormai sparso in tutto il mondo. Le denunce e i processi intentati contro la transnazionale di Atlanta, che si accavallano negli ultimi anni, mostrano l’altro lato meno luccicante della medaglia.
Il processo, del 2001, voluto dal sindacato colombiano Sinaltrainal alleato con quello statunitense porta davanti al giudice di Miami la denuncia di una sequela di omicidi e soprusi attuati ai danni dei sindacalisti e degli operai delle fabbriche affiliate alla transnazionale in Colombia a partire dal 1984, con punte di recrudescenza inumana nel 1996-97.
Che la multinazionale non rispetti i diritti dei lavoratori in Guatemala o in Brasile, sembra un corollario. Mentre è noto dalla fine degli anni novanta lo sfruttamento del lavoro minorile in India e Pakistan. Le foto delle undicenni che, per una paga irrisoria, fabbricavano palloni a Sialkot (Pakistan) con il marchio della Coca Cola in vista dei mondiali, hanno fatto il giro del mondo. Bello sponsor per i Campionati Mondiali di calcio (dal 1974), potremmo rilevare, e talmente potente, da fare svolgere la Coppa America in Colombia nel 2001, nonostante la difficile situazione del paese e il ritiro di Canada e Argentina dalla gara per protesta.

Proprio in mezzo a tutta questa storia sta il mito evanescente di Andy Warhol, che inizia la storia della Pop Art in America proprio con la rappresentazione nuda e cruda della Coca Cola nel 1960. Non c’è nulla, solo l’immagine concisa della bottiglietta e uno sfondo neutro e a-plat, e c’è già tutto. C’è il mondo moderno con le icone (formato medial-pubblicitario) che lo rappresentano e che riempiono l’immaginario collettivo, c’è l’input del desiderio legato a doppio nodo alla merce e alla sua spettacolarizzazione. Warhol, pittore “realista”, curioso, è semplicemente, o automa-ticamente, diventato il canale di una realtà in cui ci troviamo invischiati tutt’oggi.
Ed è proprio il suo farsi scorza vuota, indefinitamente iscrivibile, emotivamente impassibile, ad essere la chiave interpretativa vincente del nostro puppet-porno-show-reel.