L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Extrart (2006-2009) Anno 7 Numero 32 ottobre-dicembre 2007



Damiano Colacito

Mario Savini

Intervista



iniziative coordinate per l'arte contemporanea
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cinque domande ad Alterazioni Video
Mario Savini
n. 36 gennaio-marzo 2009

Quattro domande a Marco Manray Cadioli
Mario Savini
n. 35 ottobre-dicembre 2008

Quattro domande a Gazira Babeli
Mario Savini
n. 34 aprile - giugno 2008

Quattro domande a Carlo Zanni
Mario Savini
n. 33 gennaio-marzo 2008

Quattro domande a Regina José Galindo
Mario Savini
n. 31 estate 2007

Quattro domande a Béatrice Valentine Amrhein
Mario Savini
n. 30 marzo-aprile 2007


Daminao Colacito
Wolfenstein's HALFTRACK - 2005
Courtesy dell'artista

I gineprai e le incalzanti declinazioni che dagli anni Settanta affollano i videogiochi costituiscono non soltanto una scatola di divertimento popolare. Hanno anche contribuito a modellare altre forme culturali e a disegnare le mappe di nuove geografie. Nel tempo, le differenze tra paesaggi digitali e mondi reali si sono progressivamente assottigliate ed hanno trasformato le interrelazioni tra struttura sociale ed architettura mediale. In Cina, a causa di lunghe sessioni di online gaming sono già morti alcuni utenti (ad esempio per privazioni di cibo o di sonno) ed il Governo ha aperto delle cliniche specializzate nella cura di particolari patologie come l'Internet Addiction Disorder (I.A.D). Ma in questi ultimi anni la tecnologia ha ampliato le possibilità di comunicazione, e le esplorazioni offerte dal medium videoludico sono diventate infinite. È cambiato il modo di osservare e di interagire con il mondo. Chiunque può scegliersi il percorso più adatto cercando, addirittura, di rendere invisibile l'interfaccia e di portare nella realtà la testimonianza tangibile di uno spazio non troppo “lontano”. Per Damiano Colacito, gli ambienti di tutti i giorni possono essere affermazione di un luogo di raccolta dove far convergere pezzi di percorrenze immaginarie come quelle di un First Person Shooter: “un agire illogico e paradossale, dove l'obiettivo – dice il giovane artista italiano – non è quello di ricostruire il gioco nella realtà, ma di fornire degli elementi che ne testimoniano la funzione e l'esistenza virtuale. Questi si arenano sulla spiaggia del reale come resti di un naufragio”.


Molti tuoi lavori nascono dai percorsi dell'immaginario digitale con specifico riferimento al medium videoludico. L'interfaccia diventa invisibile ed alcuni pezzi del gioco si riversano nella vita reale. Qual è il presupposto che si trova alla base della tua ricerca artistica? C'è il tentativo di far continuare il gioco anche in altri spazi?

Sono sempre più persuaso del fatto che, quando un media si trova a veicolare i desideri ed i bisogni umani, il potere del quale viene investito lo faccia assurgere ad autorità infallibile, ad un autentico oracolo. I ricordi di teledipendenza - il male che necessariamente ha afflitto tutta la nostra generazione angosciando le nostre madri - talvolta riaffiorano e, forse, il modo corretto per iniziare a rispondere alla tua domanda è con il tagline: Brrr! Brancamenta... Allora non ci chiedevamo se il bicchiere - di plexiglas - dello spot pubblicitario fosse veramente ghiacciato anzi, era straordinariamente appagante pensare che un brivido reale potesse assalirci al cospetto della visione del ghiaccio, mediata dai seducenti fasci luminosi del bulbo televisivo. Per tutti noi il bicchiere del Brancamenta era freddo anche se nessuno l'aveva mai toccato. Una sensazione molto simile a quella che proviamo quando ci sediamo in una sala cinematografica e proiettiamo sulla pellicola filmica, il nostro esistere; poi, una volta usciti, riflettiamo su quali luoghi la mente ed il corpo abbiamo abitato durante quelle ore: se all'interno di quel film, in quella pubblica vita narrata dalla pellicola o su di una comoda poltrona nella sala della nostra privata esistenza. Quello che voglio sottolineare è che la cosiddetta realtà virtuale, ed i videogiochi ne sono l'esempio principe, esiste in quanto perfezionamento di un percorso già tracciato da media precedenti, dove il vedere l'oggetto è già conoscerlo, dove la percezione sostituisce il tatto. Un percorso iniziato molti secoli fa quando, al racconto dell'avvenimento, si preferì l'immagine dello stesso. Abitare spazi virtuali è, quindi, un'esperienza filologica densa di significati, una compenetrazione di spazio e tempo dove l'io esiste sia al di qua che al di là del monitor. Se nella mia ricerca vi è un presupposto, questo, certamente, non si trova nell'annichilimento per la separazione tra reale e virtuale. D'altronde, il solo soggetto che avrebbe il diritto di criticare questo impianto percettivo non è chi si trova sentimentalmente legato all'estetica di media precedenti, ma il mio gatto che, in questo preciso momento, certo del suo esistere al di qua dello schermo, insegue il mio avatar, il cursore lampeggiante di Word, mente sto scrivendo. Tornando alla tua domanda, quando diedi forma materica alla visione digitale di Health-bag, (un tascapane medico che ripristinava 50 punti vita, in Return to castle Wolfenstein) il bisogno era quello di completare, materializzandolo nello spazio reale, un oggetto già perfettamente formato nella mia mente ed in quella di migliaia di altri giocatori dello stesso game. Il ricordo di quel tascapane era tangibile e reale almeno quanto lo era quello della vecchia e polverosa borsa che mia nonna usava appendere ad un chiodo nella cucina della casa in campagna. Un'operazione di mimesi che interessa non solo la scultura ma, soprattutto, il rapporto che, in pittura, intercorre storicamente tra soggetto del quadro ed oggetto dipinto. L'intento era, e rimane, quello di comprovare l'esistenza di una visione. I miei oggetti non esistono per sopperire alla volontà di proseguimento del gioco fuori dallo schermo, bensì come degli indizi, scelti tra molti per la loro importanza allo scopo di testimoniare che il mondo delle esperienze virtuali non è poi del tutto onirico.


Perché i first-person shooter sono la tua “ossessione” preferita?

Come ho avuto già modo di ribadire in altre occasioni, la figurazione in occidente è andata inevitabilmente, nei secoli, verso una "solidificazione" dello spazio della rappresentazione. Questo, inizialmente bidimensionale e concettuale, ha assunto, successivamente, caratteristiche tridimensionali, solidificandosi in modo da toccare l'estremo opposto, appunto, la "virtualità". In un brevissimo arco temporale, la tecnologia dei videogame si è sviluppata seguendo un percorso simile a quello compiuto, in passato, dall'uso linguistico della rappresentazione prospettica. Una sorta di “riassunto tecnologico” dell'evoluzione prospettica occidentale: una sintesi attuata da una macchina, il computer, che già in sé rappresenta un paradigma di unificazione linguistica, costituendo il punto d'incontro di tutti i media precedentemente sviluppati dalla scienza occidentale. I primi videogiochi apparsi alla fine degli anni '70, esattamente come le prime esperienze di narrazione figurativa dell'antichità medioevale, sviluppano la loro struttura visiva ricorrendo alla metafora del "piano", introducendo tutt' al più una sorta di prospettiva concettuale in cui (come nel caso della pittura bizantina, per esempio) la grandezza degli elementi era connessa all'importanza o ad una determinata funzione narrativa del "racconto" sviluppato. Successivamente, la tecnologia dei videogiochi è andata nella direzione di una sempre più precisa connotazione tridimensionale e prospettica nel senso proprio del termine, fino a giungere ai prodotti dell'ultima generazione: giochi dove la ricostruzione prospettica è arricchita dalla possibilità di movimento e di interazione in tempo reale nello spazio virtuale generato dallo schermo. La storia dello sviluppo della figurazione in occidente sembra, dunque, che passi attraverso il piano "temporale" per raggiungere l'idea “spaziale”. Le tipologie della rappresentazione visiva, considerate sul versante dell'arte o, in generale, su quello della produzione d'immagini, sono strettamente connesse all'impianto culturale di una società, al suo modo di concepire la realtà e l'uomo nel suo ambiente, insomma, alla sua "visione del mondo". Il movimento in situazione dei videogiochi in 3D si delinea, dunque, come una delle migliori forme visive e percettive che ritraggono la nostra condizione post-moderna, una visione all'interno della quale viene conservata la traccia simbolica del soggetto moderno e rinascimentale.

Cos'è per te un videogioco?

Nel 1938 il filosofo olandese Johan Huizinga in Homo ludens s'interrogava sul significato del termine gioco come complesso sistema culturale: “(...) ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco; viene rappresentata in forme e stati d'animo lucidi: in tale "dualità-unità" di cultura e gioco, gioco è il fatto primario, oggettivo, percepibile, determinabile concretamente; mentre la cultura non è che la qualifica applicata dal nostro giudizio storico dato al caso.” Viene da pensare che i videogame non siano un fenomeno fine a se stesso, ma il mezzo più adatto per conoscere la realtà nell'attuazione di un più ampio processo di digitalizzazione del reale. Siamo, forse, in quel momento di “dualità-unità” di cultura e gioco di cui parlava Huizinga, in cui la forma del videogame attuale riflette la fase propedeutica di sviluppo della cultura digitale, dove l'espressione figurata più manifesta è, appunto, quella del gioco.

Il tuo lavoro oltre ad avere una lettura pubblico-privata può avere una valenza pubblico-sociale?

Parallelamente alla ricerca sulle forme che compongono lo spazio virtuale, il mio interesse s'è rivolto ultimamente anche ai quei codici, che potremmo definire un vero e proprio diaframma bidimensionale: le HUD (Heads Up Display). Poste tra l'io fisico, intento a manovrare le periferiche di gioco e l'io sintetico, immerso nel sempre più solido e tangibile spazio tridimensionale; le HUD non sono percepibili come oggetti, ma come interfacce semitrasparenti, proiezioni "on-display", indicatori grafici delle risorse impiegabili in un esistere videoludico che diviene coscienza. In Doom II, particolare importanza ha avuto l'idea di porre nella parte centrale dell'HUD, come indicatore dello stato della salute, il ritratto del protagonista (Flynn Taggart) impersonato dal giocatore. L'icona del volto del protagonista continuamente rifletteva ed esprimeva il suo stato di 'salute': il volto sereno, subendo danni, si faceva corrucciato e sofferente. Riflettendo su questa nozione di interfaccia nasce il progetto “Face of Doom” presentato a Sarajevo a febbraio 2007. Una videoproiezione, sulle mura esterne dell'Hotel Europa, della registrazione per immagini consequenziali, del viso di Flynn, durante una mia partita a Doom II . Il volto del Doomguy, separato dal resto della HUD, riappare svincolato dalle dinamiche del gioco. Simile per la sua essenzialità ad un'icona, ed affine al quadrante contagiri di un'auto, conserva altresì le sue proprietà di rivelatore di un'esperienza vissuta. La proiezione in grande dimensioni di una HUD, in un luogo pubblico nella città di Sarajevo, trasforma la visualizzazione segnaletica di energia a disposizione del singolo giocatore di videogame nel simbolo di uno stato di salute collettivo. Al pari di un termometro pubblico, che restituisce la reale temperatura atmosferica, quest'altro indicatore allude alle risorse che sono metaforicamente a nostra disposizione.

Puoi descrivere le dinamiche del percorso tecnico nelle tue sculture?

Potrei descrivere il processo produttivo di ogni oggetto che realizzo come un articolato viaggio di riconversione da informazione a materia, da bit ad atomo dove, ciò che viene a materializzarsi nel mondo della materia è mimesi di quello che si conosce per funzione ed utilizzo nel virtuale. È un'operazione opposta alla tendenza contemporanea che vede il mondo della qualità materica tradotta in quantità d'informazione. Un percorso a ritroso che parte dall'analisi delle anatomie tridimensionali, che l'informatica utilizza per evocare la realtà, e si conclude nel mio laboratorio, dove un uomo imita, con la materia, la forma e l'immagine, l'estetica, della macchina computer. Un agire illogico e paradossale, dove l'obbiettivo, come ti dicevo, non è quello di ricostituire il gioco nella realtà, ma di fornire degli elementi che ne testimonino la funzione e l'esistenza virtuale. Questi si arenano sulla spiaggia del reale come resti di un naufragio, per conservare del loro doppio digitale non la funzione che possedevano ma spesso solo l'aspetto. Le armi non sparano e le medicine non curano, potrei affermare che il dazio di vederli estratti dal sogno virtuale per poterli toccare è la rottura del gioco stesso.