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Zoom Magazine (2006-2008) Anno 26 Numero 202 maggio-giugno 2006



Maurizio Frullani

Cristina Franzoni





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Maurizio Frullani
Morte di Deianira

Maurizio Frullani
La regina di Saba

Maurizio Frullani
L'ultimo Samurai

Maurizio Frullani, classe 1942, è un viaggiatore nato ed è stato soprattutto l'Oriente ad averlo stregato, basti pensare che dal 1974 al 1988 egli ha percorso la Turchia, l'Afghanistan, il Pakistan, l'India, il Nepal.
Per poi fermarsi a vivere in Africa, in Eritrea.
In India e all'Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati di Venezia ha studiato la musica indiana avviando contemporaneamente un lavoro fotografico sui musicisti, sui liutai e sulle scuole musicali dell'India settentrionale.
Dal 1993 al 2000 ha vissuto ad Asmara, appunto, svolgendo la professione di insegnante alla Scuola Italiana.
Il suo ultimo lavoro s'intitola Santi, miti e leggende. E' un'opera talmente impegnativa e originale (nonché preziosa, intellettuale, poetica, scenografica, teatrale, misteriosa - eccetera eccetera, anche se ci piacerebbe proseguire nell'aggettivazione!) che ci sembra impossibile commentarla, se non con l'aiuto dell'autore, che qui interviene a raccontare e a ricordare per noi.
Possiamo, semmai, cominciare ad introdurla e a dire che si tratta di una serie di composizioni incentrate sugli eroi come Cristo e Ulisse, su personaggi leggendari della mitologia classica, come Ercole, Deianira, la regina di Saba ed in generale, su figure grandi, dal carattere tenace e volitivo, che nulla hanno in comune con le scialbe comparse di tanta letteratura contemporanea interessata, chissà perché, alle vicende banali di smidollati.
Quello di Frullani è allora forse un tentativo di rivitalizzare il mito e la favola, tanto essenziali nella vita dell'uomo così come in quella del bambino. In un'epoca veloce che scappa via senza prestare attenzione all'epopea, è bene riconsiderare la lentezza e la pregnanza del mito, come del resto ci suggeriva nel secolo scorso Carl Gustav Jung, che di psiche se ne intendeva.


Così sei stato un grande viandante. Con che mezzi di trasporto ti sei mosso? Partivi da solo o con amici?

Sono andato in India per la prima volta nel '74, con alcuni amici, dopo aver acquistato, come si usava allora, un furgoncino Wolkswagen usato, poi rivenduto al ritorno. Stessa cosa nel '76. Un viaggio incredibile attraverso deserti, distese infinite, villaggi e gente di altri tempi. In seguito, gli eventi politici in Iran e l'invasione dell'Afghanistan nel '79 hanno reso più difficile l'attraversamento di quei paesi e ho usato l'aereo. Di quei viaggi via terra mi è rimasto molto, soprattutto l'Afghanistan. Questo lo scrivevo come presentazione a una mia mostra all'inizio degli anni '80 Afghanistan e oltre.
"Per chi, negli anni '70, dall'Europa muoveva verso est, Herat, la prima città dell'Afghanistan che si incontrava sulla via verso l'India, rappresentava la porta d'Oriente. A Herat incominciava il viaggio che solitamente si concludeva a Katmandu. Il tempo si fermava, anzi tornava indietro, riportando al cuore ed alla mente dolci epifanie d'infanzia, visioni delle Mille e una notte, paesaggi, situazioni, personaggi veri e immaginari, visti e vissuti come reali. Ecco, un reportage nel fantastico - ma era poi tutto ciò fantastico? - : così il pastore afgano, il monaco himalayano, il sadhu, il commerciante indiano diventavano Aladino, Milarepa, Mahavira, Gengis Khan, volti senza tempo, proiezioni apparentemente diversificate di un Tutto, come sta scritto: Né mai vi è stato un tempo in cui io non fossi, né tu, né questi principi, né in futuro noi tutti cesseremo di esistere."
Dopo sette anni in Eritrea, sento forte anche l'attrazione verso l'Africa. Più essenziale. L'India, in fondo, nonostante la grande diversità è simile a noi. Speculativa, indaga sui problemi dell'esistenza, terra di grandi pensatori. Come l'occidente. L'Africa chiede di poter vivere con dignità e questo sembra un problema irrisolvibile.

Il tuo intento è stato fin da subito quello di andar lì a scattare fotografie?

L'interesse non era la fotografia, ma piuttosto una profonda attrazione verso popoli e culture diversi. E difatti solo dopo aver visto nel '79 a Venezia, tra le centinaia di mostre, quella di Eugene Smith ed essermi innamorato del tono basso delle sue foto, ho ristampato quelle che avevo fatto nei miei precedenti viaggi.
Mi sembra, ma non ne sono sicuro, che fosse stato lui a dire: "Quando in camera oscura vedi che la foto è perfetta, lasciala ancora nello sviluppo in modo che il tono diventi più basso. Perché nella prima stampa troverai la perfezione, nella seconda la poesia".

Parliamo della tua serie "Santi, miti e leggende". Perché i tuoi personaggi sembrano in trance e hanno gli occhi chiusi? Sono come mummie di gesso. Significa che il mito è morto nella civiltà occidentale? Nelle tue foto si colgono beffarde incongruenze e dissonanze, non dissacranti, ma bonarie come uno sberleffo, come se si volesse inscenare una parodia. E' così?

I miti, i santi, gli eroi appartengono all'immaginario che ci portiamo dentro dall'infanzia. Un tempo i fenomeni naturali si spiegavano con il mito. Le tempeste erano causate da Nettuno, i fulmini da Giove. Agli uomini bastava. La scienza li ha seppelliti, sono morti avvolti nei sudari e nelle bende, non hanno più vita, Ulisse non ti guarda più negli occhi.
Però può anche essere che in questa società pragmatica si senta il bisogno del mito, dell'eroe, del Cristo, o semplicemente di sognare. E allora ecco che risorgono, vengono fuori dalla terra, l'argilla che li ha racchiusi come tante crisalidi si spacca, le bende si slegano. Chissà. Non ho certezze. Solo tanti i dubbi. Nel dubbio inserisco qualche elemento dissonante, in fondo sono solo fotografie.

Quanto impieghi per realizzare uno scatto? Sono fotografie molto elaborate. I modelli sono tuoi conoscenti?

In media fra progettazione, preparazione ed esecuzione impiego un mese.
Sono tutte fatte in esterno con un grande telo leggero sopra, per diffondere la luce del sole, dietro fondali di stoffa. Più di 100 metri per 3 per fondi, vestiti, bende, tinture per renderli scuri e chili di argilla (cosmetica) per i corpi. I figuranti sono amici, figli e gli amici dei figli.

A che tipo di pittura ti sei ispirato?
Considero i pittori classici come maestri, su tutti Caravaggio con i suoi modelli molto popolani. Un mio amico sacerdote mi ha detto che è rimasto colpito dalla laicità e dalla essenzialità della raffigurazione. Per queste prime immagini ho cercato l'arcaico.
Per le prossime forse incomincerò ad inserire dei rimandi, come nelle poesie di Ezra Pound.