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Zoom Magazine (2006-2008) Anno 26 Numero 204 Settembre-Ottobre 2006



Massimo Mastrorillo

Cristina Franzoni

Reportage dal Mozambico





Desiree Dolron

Jitka Hanzlovà

Massimo Mastrorillo

Giuliano Radici 20

galleria Nokia Marshamstreet

webportfolio: Jean Pierre Bratanoff

exhibition: Subcontingent

book: Tracey Moffatt

vision: Italy Great Britain Germany France

Book: Mimmo Jodice

Book: Gabriele Basilico

Vision USA
Vision Japan
Vision Netherlands

Exhibitions around the world
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Massimo Mastrorillo, nato a Torino nel 1961 e attualmente residente a Roma, è un fotogiornalista specializzato nel reportage geografico-sociale. Zoom presenta qui il suo ultimo lavoro realizzato in Mozambico. Mastrorillo è un puro, nel senso che non fotografa mai solo per se stesso per appagare il suo senso estetico, non si fa ammaliare dalle esigenze di mercato né cede alle lusinghe di riviste e pubblicazioni ruffiane, interessate al clamore della notizia scoop o allo scandalo di storie gravi mai approfondite col dovuto rispetto. Mastrorillo ama riflettere, studiare e testimoniare. Perciò, per far conoscere le sue immagini “forti” nate dal patimento, dalla sofferenza e dal disagio provato in prima persona dinanzi a fatti raccapriccianti o molto tristi, egli ha scelto di privilegiare altri canali mediatici. Le sue fotografie sono vive come un battito del cuore e comunicano le pulsazioni a chi le guarda, come in una staffetta solidale. Vedere (e soprattutto “sentire”) per credere.



Cosa ti ha spinto ad andare in Mozambico?
Qualche anno fa, alcuni membri della Comunità di Sant’Egidio mi comunicarono l’intenzione di iniziare un progetto all’avanguardia per la cura dell’AIDS in questo paese. Noi fotografi siamo sempre alla ricerca di ONG serie che abbiano interesse a documentare la realtà dei paesi nei quali operano. Con il loro supporto è più facile ottenere sponsorizzazioni, aiuti logistici e soprattutto lavorare a progetti a lungo termine senza essere pressati dalle esigenze dell’editoria. Cercai di sensibilizzarli sull’utilità del mio lavoro e lentamente, ma con grande disponibilità da entrambe le parti, si sono create le condizioni per dar vita a questa ricerca.

Quanto tempo sei stato in Mozambico?
Il progetto è durato quattro anni. In questo arco di tempo sono andato in Mozambico quattro volte, per un totale di quasi quattro mesi.

Quali sono state le cose che ti hanno più sconvolto o entusiasmato di questo Paese? Hai visitato altri paesi africani? Se sì, hai riscontrato differenze notevoli tra di loro?
Non ho avuto altre esperienze africane. Molti validissimi fotografi hanno speso gran parte delle loro carriere a documentare i mali di questo continente. Io preferisco raccontare la vita di tutti i giorni e per questo tipo di lavoro qualunque paese può essere interessante. E’ una sfida con me stesso. Ritengo che nelle situazioni di emergenza umanitaria è difficile che un bravo fotografo non porti a casa delle immagini toccanti. Ovviamente non voglio semplificare troppo la questione. In alcuni lavori realizzati in condizioni di emergenza, il valore aggiunto è spesso dato anche dalla difficoltà di trovare o raggiungere determinati luoghi o dai rischi che si corrono. Tuttavia, quando si racconta la quotidianità in luoghi dove non sembra accadere nulla di eclatante, esistono comunque problematiche di carattere sociale che possono comportare difficoltà notevoli.
Anche in Mozambico il progetto di documentazione inizialmente incentrato sull’AIDS si è progressivamente spostato sul problema della povertà e su cosa significhi vivere tutti i giorni senza che vengano garantiti i bisogni primari. In Africa l’AIDS colpisce tutte le classi sociali e non solo alcune categorie a rischio. Le cause principali sono la povertà e l’assenza di educazione.
Il Mozambico è un paese estremamente esemplificativo di quello che può essere il futuro dell’Africa. Da più di un decennio vive in una condizione di pace e stabilità politica che favorisce gli investimenti stranieri. Nel 1994, dopo quindici anni di guerra civile ed un milione e mezzo di morti, era uno dei paesi più poveri del mondo. Oggi continua ad essere considerato tale, con un PIL annuo pari a quello della Cina. La Banca Mondiale parla di “sviluppo con povertà”…

Ti è molto rimasto dentro quello che hai fotografato e provato? Riesci a distaccarti da quello che immortali o ci sei dentro fino al collo, patendo ed emozionandoti testa e cuore?
Sono sempre molto concentrato e coinvolto quando fotografo. Quello che non voglio è che l’aspetto estetico prevalga sul racconto. Questo tipo di approccio non mi interessa. Nelle mie immagini voglio che si senta il cuore. Quando non mi riesce, ho fallito.
Tuttavia cerco anche di mantenere un certo distacco nelle situazioni più toccanti, altrimenti sarebbe impossibile fotografare. Credo che sia fondamentale far sentire alle persone la propria determinazione e l’importanza del proprio lavoro. Spesso bastano degli sguardi, dei piccoli gesti per far sentire il proprio coinvolgimento.

Hai sempre fatto il fotografo?
Direi di sì. Tuttavia mi occupo di fotogiornalismo da soli sette/otto anni. Professionalmente ho cominciato più di quindici anni fa con l’agenzia SIE di Roma, occupandomi di fotografia di stock e commerciale.
In questi ultimi anni ho spesso lavorato nell’indifferenza di gran parte dei photo editors che ritenevano le mie immagini poco commerciali e penalizzate dalla scelta del bianco e nero. Il 2006 è stato un anno molto importante per me. Ho vinto il World Press Photo, sono stato nominato terzo miglior fotogiornalista dell’anno al “Pictures of the Year International” e al “Best of Photojournalism” e ho ricevuto premi in Corea e in Cina. Ritengo che la qualità prima o poi paghi. L’importante è trovare sempre delle motivazioni per andare avanti, indipendentemente dal giudizio degli altri.

Il reportage geografico-sociale si realizza tanto in bianco e nero che a colori. Due visioni e sensibilità differenti. Il Mozambico a colori, come sarebbe stato?
Non credo avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo. Questo perché è una storia ideata per essere realizzata in bianco e nero, che essendo un’astrazione della realtà ha già di per sé un suo fascino. Tuttavia non ritengo che il colore sia meno interessante. Si tratta semplicemente di trovare la storia che più si adatta ad essere raccontata con questo tipo di linguaggio.

Ti senti più a tuo agio a fotografare la sofferenza che la gioia? I sorrisi, nelle tue immagini, si contano sulla punta delle dita.
Quello che conta per me è raccontare la realtà. In Africa non è facile trovare sorrisi. Del resto la felicità è per me più espressione della volontà di vivere e non sempre si esprime tramite il sorriso. Alcune delle persone che ho ritratto in Mozambico, pur avendo la fortuna di sopravvivere ad una malattia terribile come l’AIDS, non riuscivano ad apprezzare il valore della vita. La loro ossessione era soddisfare bisogni primari come il lavoro, il cibo, l’educazione dei figli. Quando la durata media della vita è di quarant’anni e se non muori di AIDS rischi di morire di qualunque altra malattia, la gioia di vivere può diventare di secondaria importanza. Devo confessarti che, in quei frangenti, anche io mi sono sentito sconfitto come essere umano.

Hai speranza per un futuro migliore per l’Africa? La fotografia può aiutare?
Il lavoro sul Mozambico sembra essere pessimista riguardo al futuro di questo paese e quindi dell’Africa. Ma non è esattamente così, perché nonostante l’indifferenza del mondo occidentale, in questo paese è stato possibile realizzare sogni come la democrazia, la pace, la cura dell’AIDS. Avere dei sogni significa avere speranza; realizzarli significa che un futuro è possibile.
Riguardo alla fotografia penso che possa essere utile. Nella mia vita conta moltissimo, tuttavia sono anche onesto nell’ammettere che è e resta un semplice strumento. Quello che conta è solo la capacità dei singoli individui, la loro voglia di lottare, di cambiare quello che non và.

Quali sono i tuoi progetti di domani?
Sto lavorando a un progetto piuttosto impegnativo, ispirato alle “Città invisibili” di Italo Calvino. E’ un lavoro meno giornalistico e più intimista. Una bella sfida.
Ho iniziato da poco anche una storia sui Cristiani in Medio Oriente.

Quali sono i colleghi specializzati nel reportage che ammiri di più?
Compro libri in continuazione. Sono molti i colleghi che apprezzo ed ammiro. Tuttavia, se devo essere sincero, negli ultimi tempi ho visto con attenzione il lavoro di Roger Ballen e l’ho trovato geniale. Non si può di certo definire un fotogiornalista, eppure ha raccontato più lui sui bianchi poveri in Sud Africa di quanto avrebbe potuto fare il migliore dei fotogiornalisti.

E’ capitato che qualche tua foto, una volta stampata, ti abbia dato l’impressione di avere poco a che vedere con le sensazioni realmente provate da te al momento dello scatto?
Il linguaggio fotografico è estremamente limitato. Un buon fotografo deve essere in grado di raccontare in un singolo fotogramma più situazioni ed emozioni possibili. Questo tipo di esercizio rende difficile l’eventualità di uno scarto significativo tra l’immagine finale e la realtà.
Può capitare che chi guarda un’immagine la interpreti in maniera differente da quanto abbia voluto raccontare il fotografo. Non ritengo che questo sia un limite. Siamo talmente bombardati di immagini ogni giorno che metabolizziamo sofferenza e gioia in un attimo. Se un’immagine invita ad una riflessione è di per sé valida. Nel Cyrano si afferma: “ Quante cose nate e morte in un momento “. In ogni istante di vita ci sono migliaia di mondi da raccontare.