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FMR (2006-2008) Anno 25 Numero 19 giugno 2007



Tomar dei Templari

Franco Cardini





FIl rouge
Femme fatale

Medusa dallo sguardo seducente e assassino è figura del mito, ma anche e soprattutto simbolo di un femminino che i secoli hanno variamente declinato facendone, dall’Ottocento in poi, il paradigma della femme fatale, di un dialogo di amore e morte che si sviluppa tra ideale classico e cultura borghese.

L’amore e la morte
di Alda Teodorani
Sguardo di Medusa
di Roger Caillois
Figure dal mito
a cura di Angela Catrani

pagina 1

Ephemeris
L’ombra di Piero
pagina 42

James Stuart, l’Ateniese
pagina 44

Visionario Simone
pagina 46

La Persia e la rosa
pagina 48

Estes vedutista
pagina 50

Corot, il mezzo e lo scopo
pagina 52

a cura di Giulia Carciotto
e Carla Casu

wunderkammer
Vuolvinio & Angilberto

Capolavoro dell’arte carolingia, il paliotto che Vuolvinio esegue per l’arca contenente le reliquie dei santi Ambrogio, Protasio e Gervasio è tra le gemme della basilica milanese di Sant’Ambrogio e di un’epoca tutta, in cui parlata classica e novità barbariche si contaminano in forme sorprendenti.

L’altare di Sant’Ambrogio a Milano
di Carlo Bertelli

pagina 53

mappamundi
“ad instar Sancti Sepulcri”

Nel 1160, il Maestro dei Templari Gualdim Pais, eroico veterano delle guerre in Terrasanta, dispose la costruzione di un castello su una collina circondata da un corso d’acqua che gli arabi chiamavano Tomar. Nasce qui la leggenda del castello-fortezza che figura tra i massimi e più suggestivi monumenti della storia europea.

Tomar dei Templari
di Franco Cardini
Fotografie
di Massimo Listri

pagina 75

LE STORIE DELL’OCCHIO
Pensare architettura

Storico dell’architettura di fama internazionale, Joaquín Bérchez ha sempre svolto i propri studi non solo con la competenza della parola, ma anche – e qualche volta soprattutto – in virtù di uno straordinario talento di fotografo. Una vera saggistica per immagini, la sua, che in queste pagine si rivela pienamente.

Joaquín Bérchez, studioso fotografo
di Antonio Bonet Correa
Fotografie
di Joaquín Bérchez

pagina 97

mnemosine
Sogni rustici

Villa Crespi a Vigevano. Gianfilippo Usellini, maestro d’una pittura moderna trasognata e teatrale, allestisce una partitura decorativa da antica villa rustica, interpretando in modo perfetto il precetto del tempo di un’arte “italianissima e modernissima”.

Usellini a Villa Crespi in Vigevano
di Paolo Campiglio
Fotografie
di Alfredo Dagli Orti

pagina 121
gran bazar
La Belle Epoque dell’ombrellino

Simbolo per eccellenza della Belle Epoque, l’ombrellino che difende dal sole l’incarnato delle belle signore, e dalla pioggia le chiome, è accessorio d’obbligo dell’abbigliamento elegante. Uno tra i più curiosi musei italiani ne ricostruisce le vicende attraverso pezzi straordinari.

Un museo italiano
di Federico Poletti
Fotografie
di Alfredo Dagli Orti

pagina 139

LE STORIE DELL’ARTE
Il verdetto

Edith Wharton, genio della letteratura statunitense, interprete feroce della nuova America snob
ed europeizzante, in Scribner’s Magazine, del 1908, offre una delle sue più alte e caustiche prove di racconto.

Il verdetto
di Edith Wharton

pagina 157


Ad HOC
L’immagine accolta

Nelle parole dell’artista: “Luce. Che poi non si sa esattamente cosa sia, ma è quell’immagine che non ha quasi nessun riferimento con la realtà […] una luce nostra interna […] una luce che però mi sostiene, o ci sostiene”.

L’immagine accolta
di Vasco Bendini

pagina 168

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Basilico. Uno sguardo lento
Flaminio Gualdoni
n. 23 gennaio-febbraio 2008

Bologna, 6 dicembre 1529
Gianni Guadalupi
n. 22 dicembre 2007

I diari di lavoro di Ferruccio Ferrazzi
Gianluigi Colalucci
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Il nudo & i libertini
Pascal Lainé
n. 17 febbraio - marzo 2007

Cento anni di Van Cleef & Arpels
Daniela Mascetti
n. 16 dicembre-gennaio 2006

Tra Picasso e Velazquez
Francisco Calvo Serraller
n. 15 ottobre-novembre 2006


Gran chiostro (Claustro dos Filipes).

Juan Castillo (1490-1553 circa)

Particolari architettonici in stile manuelino

Nel 1983, l’Unesco ha classificato la chiesa e il convento di Tomar, sede dell’Ordine religioso-militare del Cristo, come World Heritage Site, “Patrimonio dell’Umanità”. Chi conosce in modo solo turistico e superficiale questo celebre monumento sa che esso è incentrato su una cappella di pianta poligonale, risalente al XII secolo e fondata dai Templari, che s’ispira alla moschea di Umar a Gerusalemme, ma ricorda anche da vicino la chiesa della Vera Cruz di Segovia, edificata dai fratres dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni, fratello e rivale di quello del Tempio.
L’Ordine Templare, fondato in Terrasanta come fraternitas di “poveri cavalieri” alla fine del secondo decennio del XII secolo, penetrò nella penisola iberica solo un decennio più tardi, più o meno contemporaneamente alla sua laboriosa legittimazione da parte della Chiesa romana. I re di Castiglia e i loro vassalli, i conti di Borgogna, responsabili della nuova contea del Portogallo, furono generosi in donazioni al nuovo Ordine, che costituiva un valido aiuto nella loro “crociata” contro i vicini potentati musulmani e soprattutto contro i temibili almoravidi, da poco giunti dal Maghreb. La donazione del 1128 della contessa Teresa, moglie di Enrico di Borgogna, comprendeva Soure presso Coimbra, mentre quella di suo figlio Alfonso Henriquez dovette riguardare prima Pombal, quindi Ceras.
Tali concessioni – che non ci consentono tuttavia di sapere con certezza quando i castelli corrispondenti cominciarono a essere costruiti – provocarono naturalmente un interminabile contenzioso con i poteri locali, a cominciare dal vescovo di Lisbona. I Templari si affermarono come insostituibile sostegno dei castigliano-borgognoni nella conquista dell’ovest della penisola iberica, progressivamente sottratto ai musulmani; nel 1147 parteciparono tra l’altro alla presa di Santarém, che fruttò loro notevoli proprietà. Ma fu solo nel 1159 che Alfonso Henriquez, divenuto re Alfonso I, il primo sovrano del Portogallo, concesse all’Ordine – che stava fortificando sistematicamente la linea del fiume Tago – il castello di Ceras presso il fiume Nabão, un centinaio di miglia nell’interno a nord-est di Lisbona, nella provincia attuale di Ribatejo, quasi alla confluenza del Tago con il suo grande affluente di destra, lo Zezere.
Lì, nel 1160, il Maestro provinciale (o Procuratore) del Tempio, Gualdim Pais – un eroico veterano delle guerre in Terrasanta, che era giunto in Portogallo da tre o quattro anni –, dispose la costruzione di un castello su una collina vicina, circondata da un corso d’acqua che gli arabi chiamavano Tomar. Ma l’epigrafe murata all’ingresso del complesso di Tomar parla solo del 1209: una data espressa secondo lo stile iberico dell’epoca, con riferimento alla conquista romana della penisola da parte di Ottaviano Augusto (38 a.C.), e che corrisponde al 1171. L’elenco delle fondazioni templari in Portogallo, volute da Pais con l’appoggio del re (del quale si è detto che fosse a sua volta in qualche modo legato all’Ordine), comprende, oltre a Tomar, i castelli di Pombal, Ozezar e Almourol – e forse anche Idanha-a-Velha e Montsanto, che però sono attestati da un’epigrafe sospetta di essere stata interpolata e potrebbero in realtà essere fondazioni cinquecentesche alle quali si sarebbe cercato di attribuire falsamente più antica origine. Il contenzioso con il vescovo di Lisbona fu risolto mediante la fondazione, nell’area di Ceras-Tomar passata in termini feudali dal re all’amministrazione del Tempio, di una diocesis nullius, vescovo della quale era, formalmente, il sommo pontefice che l’amministrava attraverso vicari appunto residenti a Tomar.
Secondo una tradizione che sembra essere stata condivisa dai Templari, ma che non era comunque loro esclusiva, la fortezza fu costruita seguendo un impianto simbolico ispirato alla “rotonda” della basilica della Resurrezione di Gerusalemme, conosciuta in Europa come la chiesa del Santo Sepolcro. In realtà, è probabile che la fonte ispiratrice degli architetti dell’Ordine, o comunque di quelli che lavoravano sotto la loro committenza, fosse – più specificamente – quello che per i cristiani occidentali del tempo era detto il Templum Domini, vale a dire il Qubbat al-Sakhrah, la “Cupola della Roccia”, lo splendido santuario fatto edificare alla fine del VII secolo dai califfi umayyadi di Damasco sul Haram esh-Sherif, il “Nobile Recinto”, vale a dire la spianata che era stata sede del Tempio di Gerusalemme, originariamente fatto costruire nell’XI-X secolo a.C. da Salomone e poi ripetutamente abbattuto e ricostruito, fino alla definitiva distruzione da parte dell’imperatore Adriano nel 135 d.C.
L’edificio è ormai noto con l’impropria denominazione di “moschea di Umar”, dal nome del califfo che nel 638 aveva conquistato la Città Santa all’Islam, aveva sgombrato da macerie e da rifiuti la spianata del Tempio, che i cristiani avevano sempre trattato con disprezzo, e sul luogo che presumibilmente coincideva con la roccia del “monte Moryah” – sulla quale Abramo aveva preparato l’altare per il sacrificio del figlio Isacco – aveva fatto costruire un piccolo oratorio in legno di cedro, poi sostituito dal sontuoso edificio umayyade celebre per la sua forma ottogonale ispirata probabilmente a modelli bizantini, nonché alla cappella eretta sul vicino monte degli Olivi e luogo di partenza, secondo i cristiani, di Gesù per la sua Ascensione al cielo. In concorrenza con il Luogo Santo cristiano, la tradizione musulmana celebrava difatti l’ascesa del Profeta al cielo, narrata nel Kitab al-Miraj, il “Libro della Scala”. Nel Medioevo occidentale la memoria del Tempio di Gerusalemme si era curiosamente sdoppiata.
Era difatti noto che il Tempio di Salomone, quello nel quale – ricostruito e ampliato da Erode III il Grande – Gesù stesso aveva predicato, era stato poi distrutto; ma sul luogo nel quale esso era sorto i musulmani avevano eretto due edifici sacri, la Cupola della Roccia, appunto, a nord, e la moschea di al-Aqsa, a pianta basilicale di tipo cristiano-bizantino, a sud. I cristiani denominavano Templum Domini la prima e Templum Salomonis la seconda. Quando nel 1099 i guerrieri-pellegrini di quella strampalata spedizione che ormai si è convenuto di definire “prima crociata” occuparono Gerusalemme, la Cupola della Roccia fu trasformata in chiesa cristianolatina dedicata alla Vergine e affidata a canonici agostiniani (al pari di quelli che officiavano nella chiesa del Santo Sepolcro), mentre la moschea di al-Aqsa venne adibita a usi militari e l’anno successivo il primo re di Gerusalemme, Baldovino di Boulogne, l’adattò a propria residenza.
Ma a quanto pare nel 1118 egli, o il suo successore Baldovino II, si ritirò a ovest della città, presso la Porta di Giaffa, dov’era la fortezza detta Torre di David, e lasciò alla fraternitas templare la moschea di al-Aqsa con le sue dipendenze – i famosi sotterranei sottostanti, detti “le stalle di Salomone”. Da allora, l’edificio divenne il “monastero-fortezza” centro dell’Ordine denominato appunto Militia pauperum militum Christi. Peraltro, nei sigilli templari, l’edificio schematicamente raffigurato è un sacello a pianta centrale che ricorda non la moschea di al-Aqsa, bensì la Cupola della Roccia e che rinvia altresì, data la sua forma, alla “rotonda” dell’Anastasis, cioè della chiesa della Resurrezione. Si andò da allora creando un certo malinteso, poiché i Templari non erano insediati in alcuno di questi due edifici sacri né avevano su di essi giurisdizione: ma di essi, in un certo senso, i pauperes milites si appropriarono simbolicamente, e – per quanto le polemiche sull’effettiva esistenza di un’“architettura templare” siano ben lungi dall’essersi placate tra gli specialisti – sembra che talvolta ne riproducessero schematicamente le forme nelle loro chiese disseminatin Europa, dove peraltro l’uso di costruire chiese ad instar Sancti Sepulcri era già vivo e attestato da secoli.
Quando nel 1312 fu assunta nel concilio di Vienne la decisione di sciogliere l’Ordine Templare, il re Dionigi del Portogallo obbedì solo formalmente: raccolse difatti i membri portoghesi del disciolto Ordine e con essi – ottenuto nel 1319 il tardivo avallo di papa Giovanni XXII con la bolla Ad ea ex quibus del 14 marzo – ne fondò uno nuovo, detto Militia Christi, l’Ordine del Cristo, che per volere del papa assunse la Regola benedettina e il cui primo Maestro fu Gil Martins, che era anche Maestro dell’Ordine di Avis; mentre a Vasco Fernandes, il più alto dignitario del Tempio residente in Portogallo quando fra 1307 e il 1312 si era svolto il processo all’Ordine, venne affidata la commanderia di Montalvão: difficile immaginare un segno più alto della continuità tra i due Ordini e di fiducia nell’assoluta innocenza del Tempio rispetto alle infamanti accuse delle quali esso era stato fatto bersaglio per volontà del re di Francia.
L’Ordine del Cristo fece propria la regola di quello di Calatrava e fu posto sotto la tutela dell’abbazia cistercense d’Alcobaça; la sua sede centrale fu in un primo momento fissata a Castro Marim, un insediamento templare posto presso la foce della Guadiana, ma nel 1357 fu trasferita a Tomar. I capitoli del nuovo Ordine, celebrati nel 1321 e nel 1326, consentono di farsi un’idea della sua importanza: quarantun commanderie, beni diffusi in dieci diverse città e possesso di quarantatré centri demici di varia entità, tutti produttivi. Il nuovo Ordine ereditò tutte le vecchie proprietà dei Templari in Portogallo e mantenne come suo simbolo la croce vermiglia templare con una piccola modifica (il suo disegno a “croce patente” fu leggermente modificato e all’interno dei suoi bracci fu inserita una croce greca d’argento). L’emblema dell’Ordine del Cristo, che si distinse per il suo appoggio alle spedizioni marittime nell’Oceano, era orgogliosamente dipinto sulle vele delle navi portoghesi che nel Quattrocento partirono alla volta dell’India e del Nuovo Mondo. Nel corso del XV secolo si stabilì che il Gran Maestro dell’Ordine del Cristo fosse un chierico nominato dal papa e affiancato da un Maestro o Governatore dell’Ordine nominato dal re. Il primo Maestro-Governatore fu, appunto, Enrico il Navigatore (1394-1460) che collegò strettamente le fortune dell’Ordine al mare e alle scoperte. L’Ordine fu abolito definitivamente nel 1834.
Abbastanza poco resta dell’edificio originario di Tomar, quello commissionato dal Maestro templare Pais: il monastero-fortezza venne difatti considerevolmente ingrandito e abbellito durante i regni di Manuele I (1495-1521) e Giovanni III (1521- 1557), ed è oggi noto come esempio illustre di quello stile artistico di segno gotico “fiorito”, tanto elaborato da confinare col barocco, che viene appunto definito “manuelino”.
Oggi il complesso di edifici, che si configura come uno splendido sistema di chiostri attorno alla chiesa-cappella, è ben separato dalla città, che presenta a sua volta interessanti edifici degni di visita, tra cui il castello costruito nel 1160 per il Maestro Gualdim Pais, l’alcazaba, distinta dal monastero-santuario-fortezza vero e proprio; l’edificio militare sostenne validamente, nel 1190, un assalto almohade guidato dal califfo Abu Yusuf Ya’qub al-Mansur. Poco sappiamo purtroppo del primitivo aspetto del monumento, alterato da successivi restauri. La sistemazione generale del sito, articolato secondo un sistema di cinte successive che seguivano le curve altimetriche del terreno, ricorda analoghe esperienze architettoniche dell’area siro-palestinese, ma certo la concezione è in questo caso grandiosa: l’immensa area lasciata libera da monumenti, nella parte meridionale dell’originario impianto castellano (che escludeva tutto il complesso dei chiostri, edificati a est della cappella rotonda la quale originariamente faceva parte della cortina difensiva orientale) fa pensare che la cinta muraria dovesse venire utilizzata per ospitare una gran massa di eventuali profughi dall’intera regione in caso di attacchi da parte dei mori.
Dal punto di vista propriamente simbolico è evidente che la concezione originaria della cappella, cioè la “rotonda” che oggi viene chiamata la Charola, e che è stata tramandata sostanzialmente intatta nei suoi elementi di fondo, si basava su una struttura prismatica cava a base ottogonale (ispirata quindi semmai, parrebbe, alla “Cupola della Roccia”), delimitata da otto pilastri quadrangolari con semicolonne addossate che sostenevano una cupola e che erano a loro volta circondati da un deambulatorio di sedici lati, quindi da un doppio ottagono. È piuttosto arduo pensare che tale complessa struttura sia davvero quella originale: forse si tratta di un corpo primitivo, corrispondente al prisma ottogonale, che in un successivo momento sarebbe stato rialzato e complicato dall’aggiunta dell’ambulacro che ne raddoppia i lati. All’esterno, il complesso ha oggi l’aspetto di un’alta torre rotonda – la struttura poligonale dell’interno non vi si riflette se non impercettibilmente – rafforzata da possenti contrafforti.
Re Manuele – o i frati-cavalieri del Cristo durante il suo regno – dispose che la cappella rotonda divenisse il coro di una chiesa la cui navata fu ad essa aggiunta. Sembra evidente che tale idea s’ispirasse in qualche modo alla basilica della Resurrezione, cioè al Santo Sepolcro di Gerusalemme, un santuario che in età costantiniana era costituito dal complesso di una rotonda e di una struttura basilicale separate da un cortile-giardino, ma che nel XII secolo, dopo ripetute distruzioni e riedificazioni, gli architetti del regno crociato di Gerusalemme avevano fuso in un solo edificio di stile romanico-gotico. Sembra quindi che, durante il XVI secolo, l’originaria ispirazione templare che riferiva il sacro edificio al Templum Domini, alla “Cupola della Roccia”, fosse ormai dimenticata e divenuta incomprensibile; mentre la struttura del Santo Sepolcro era ben nota dal momento che la Città Santa era continuamente visitata da pellegrini che la descrivevano nei loro resoconti. Inoltre lo stesso piccolo splendido edificio della Vera Cruz di Segovia, edificato a quanto pare dai fratres dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme (divenuto poi di Rodi, quindi di Malta), aveva la stessa forma circolare fornita di un corpo rettangolare.
È difficile dire se, con tale planimetria, si volesse alludere poi alla chiesa del Santo Sepolcro nel suo complesso o alla semplice edicola del Santo Sepolcro custodita al centro della “rotonda” che ne fa parte, dal momento che anche nel piccolo complesso si ripete il rapporto fra un corpo circolare (l’esterno della camera sepolcrale vera e propria) e uno quadrangolare aggettante, orientato verso est (il cosiddetto “Vestibolo dell’Angelo” che ospita la reliquia del frammento della grande pietra circolare che serviva da copertura dell’ingresso del sepolcro).
È stato notato che, in realtà, nell’architettura templare (e forse non solo) si adottava uno schema costruttivo che fondeva coerentemente i due elementi che nella basilica gerosolimitana della Resurrezione erano e sono compresenti ma ben distinti e concentrici, vale a dire l’edicola del Sepolcro e la “rotonda” dell’Anastasis, fondamentalmente ispirata al Pantheon di Roma, fin dal IV secolo edificata per contenerla e proteggerla.
Al tempo di Manuele comunque la “rotonda” fu non tanto architettonicamente rimaneggiata, quanto riccamente adornata di stucchi dorati e di soffitti in legno intagliato (opere originali in gran parte perdute in un incendio appiccato dai francesi nel 1810); inoltre oggi l’edificio presenta anche una serie di pitture su tavola di artisti cinquecenteschi portoghesi. La chiesa a una sola nave rettangolare fu costruita nel 1510 da Diogo de Arruda, fratello del più celebre Francisco, l’architetto della Torre di Belém a Lisbona. Il portale laterale della chiesa, posto in modo da far pensare ch’esso voglia a sua volta in qualche maniera ricordare quello della chiesa gerosolimitana, fu concepito da un artista spagnolo, Juan Castillo (João de Castilho per i portoghesi), che la disegnò nel 1515 in stile rinascimentale. L’interno, superbamente decorato “alla manuelina”, veniva utilizzato nella parte superiore come coro, mentre quella bassa serviva da sala capitolare.
Il complesso monastico di Tomar unisce alla chiesa uno spettacolare insieme di ben otto chiostri concepiti secondo stili differenti. Un passaggio unisce la chiesa al chiostro di Santa Barbara, anch’esso edificato secondo un progetto di Castillo: era stato concepito su due piani, ma quello superiore fu abbattuto per far risaltare quello che oggi si considera uno dei capolavori dell’insieme, la finestra del capitolo (Janela do Capítulo) in stile manuelino scolpita in pietra calcarea grigia tra il 1510 e il 1513 e anch’essa opera di Diogo de Arruda. Si tratta di un’arditissima opera di scultura alta quattro metri, decorata da simboli di piante e di elementi marini che sembrano rinviare ai viaggi e alle scoperte, nonché dalle armi araldiche dei re portoghesi – la sfera armillare, i castelli strappati ai mori, le cinque piaghe di Cristo – e culminante nella croce dell’Ordine del Cristo. Dal lato destro della chiesa si accede invece al Gran chiostro, o Claustro dos Filipes, in tal modo denominato in quanto fu sede dell’incoronazione di Filippo II di Spagna come re del Portogallo, dopo la morte nel 1578 in Marocco di re Sebastiano. La devoluzione della corona portoghese al sovrano spagnolo era stata appunto dichiarata nelle cortes di Tomar il 15 aprile del 1581. Il progetto del chiostro, a due piani e decorato “alla manuelina”, era dovuto a Diego de Torralva, che lo concepì nel 1557, ma fu completato nel 1591 dall’architetto militare Filippo Terzi al servizio del sovrano (da qui la strana denominazione “dei Filippi”: il rey prudente e l’architetto).
Ancora degno di nota il Claustro do Cemitério, costruito al tempo dell’Infante Enrico il Navigatore in stile gotico tardivo, secondo un progetto di Fernão Gonçalves, adorno di colonne accoppiate, begli azulejos in stile mudéjar e sepolcri d’illustri personaggi del XVI secolo, tra cui Diogo de Gama, il fratello del navigatore Vasco, sepolto in una tomba in stile manuelino databile verso il 1523. Da lì si accede al Claustro de Lavagem, a due piani, edificato intorno al 1433, e infine alla Capela de Portocarreiros, seicentesca, anch’essa adorna di azulejos. Adiacenti, ancora, il Claustro de Hospedaria, dal quale si ha una splendida vista della finestra di Diogo de Arruda, e il Claustro de Micha, costruito nel 1543 e adibito alla distribuzione del cibo ai poveri. Segue un piano prestabilito, ha un senso nascosto, questo dedalo di sale opulente e deserte, di chiostri schiacciati dagli ornamenti architettonici e dal silenzio? Sopravvissuto a calamità naturali, guerre e rivoluzioni, più volte rimaneggiato, oggetto di fantasie e di speculazioni esoteriche, tempio delle fantasie e delle illusioni sebastianiste, quintomonarchiste e pessoaiane, Tomar continua a fluttuare – al pari della cattedrale di Chartres, della rocca di Montségur, di Castel del Monte, del “Bosco Sacro” di Bomarzo, dell’Alhambra di Granada – sul mare incantato e agitato della coscienza europea; a riempire di segni ermetici l’oscura e vuota caverna dalla quale sciamano i sogni di un’identità che non è mai esistita, di un segreto tesoro filosofico che nessuno rintraccerà mai perché non esiste, dell’Isola-mai-trovata perché è l’Isola-che-non-c’è. Shangri-Là di legioni di occultisti e di esploratori dell’Impossibile, Xanadu dei fedeli dell’Irreale. Come diceva il vecchio Arturo Graf, incoercibile è la forza delle cose che non sono.