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FMR (2006-2008) Anno 25 Numero 21 ottobre 2007



I diari di lavoro di Ferruccio Ferrazzi

Gianluigi Colalucci

“La follia per la materia della pittura”





FIL ROUGE
Tamar, Rebecca, Maria
Dalla Madonna Sistina di Raffaello alle grandi figure bibliche, il velo come frontiera del grande mistero sessuale del sacro. Si chiede Honicker: “la porta che dà accesso alla Nuova Alleanza è aperta dalle parole di una donna: con il velo o senza velo?”.
Dietro il velo
di Nancy Honicker

EPHEMERIS
Cosmè e le Muse
pagina 36
Gli horti di Lucullo
pagina 38
Botanica e arte vetraria
pagina 40
La musa, l’artista
pagina 42
Nascita dell’artista teorico
pagina 44
Gli spigoli del reale
pagina 46
a cura di Giulia Carciotto
e Carla Casu

MAPPA MUNDI
Gran teatro della regalità
Il voyageur aristocratico a Parigi non poteva sottrarsi a una visita a Versailles, il più grande spettacolo del mondo il cui protagonista era il Re Sole stesso. La reggia come scenario d’una liturgia dello sfarzo giunta a livelli eccelsi, modello d’ogni altra futura.
Stranieri in visita
a Versailles
di Xavier Salmon
Fotografie
di Massimo Listri

MNEMOSINE
“La follia per la materia della pittura”
Tra il 1931 e il 1962
Ferruccio Ferrazzi ha compilato una serie di quaderni che rappresentano veri e propri diari di lavoro. Scritti ma, più, dipinti, sono uno dei documenti più straordinari del riconoscimento dell’antico nell’arte italiana del Novecento.
I diari di lavoro di Ferruccio Ferrazzi
di Gianluigi Colalucci
Fotografie
di Rita Paesani

LE STORIE DELL’OCCHIO
Idea di natura
Il giardino botanico e la natura civilizzata come luogo perfetto dello scambio tra artificio e natura, e come territorio di uno sguardo che ricostruisce con lucida ferocia concettuale l’idea classica della fotografia, arte tra le arti, sorella dell’idea nobile di pittura.
Lawrence Beck, fotografo
di Walter Guadagnini
Fotografie
di Lawrence Beck

GRAN BAZAR
Sacra imitazione
I busti di cera custoditi nella sacrestia del Santissimo Redentore a Venezia, che Julius von Schlosser rivelò in un saggio famoso e che qui per la prima volta si indagano in profondo, sono il crocevia tra l’Imitatio Christi e il ritratto realistico, tra visione e apparizione.
I busti di cera del Redentore
a Venezia
di Muriel Pic
Fotografie
di Alfredo Dagli Orti

WUNDERKAMMER
I fiori e il bronzo
Nella vasta raccolta di milleottocento bronzi che l’incisore genovese Edoardo Chiossone collezionò in Giappone tra il 1875 e il 1898, spicca un gruppo di vasi in bronzo cinesi e giapponesi di fattura strepitosa, in bilico tra meraviglia dell’artificio e bellezza naturale.
Vasi orientali nel Museo
Chiossone
di Donatella Failla
Fotografie
di Giovanni Ricci Novara

LE STORIE DELL’ARTE
L’ultima Aldini
Roma, autunno 1510
Due storie di bohème, l’una ottocentesca l’altra odierna, l’una tutta letteraria l’altra nata come divertissement storicoartistico: e due mondi, in cui l’artista è figura vivida.
L’ultima Aldini
di George Sand
Roma, autunno 1510
di Flaminio Gualdoni

AD HOC
Jackie VI
Esercizi ossessivi intorno alle immagini canoniche della storia dell’arte, le figure di Manolo Valdés, negli anni Sessanta tra i fondatori dell’Equipo Crónica, sono una delle grandi risposte europee alla Pop statunitense: una risposta colta e splendente.

Jackie VI
di Manolo Valdés
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Basilico. Uno sguardo lento
Flaminio Gualdoni
n. 23 gennaio-febbraio 2008

Bologna, 6 dicembre 1529
Gianni Guadalupi
n. 22 dicembre 2007

Tomar dei Templari
Franco Cardini
n. 19 giugno 2007

Il nudo & i libertini
Pascal Lainé
n. 17 febbraio - marzo 2007

Cento anni di Van Cleef & Arpels
Daniela Mascetti
n. 16 dicembre-gennaio 2006

Tra Picasso e Velazquez
Francisco Calvo Serraller
n. 15 ottobre-novembre 2006


Diario IX
(giugno 1943-settembre 1946)
settembre 1946

Diario III
(dicembre 1936-1937)
1 novembre 1937

Autoritratto
Diario IX
(giugno 1943-settembre 1946),
2 novembre 1943

L’apertura dell’archivio Ferrazzi ha permesso di prendere visione dei quindici “diari di lavoro” e due rubriche che Ferruccio Ferrazzi ha tenuto dal 1931 al 1962 e dei quali FMR pubblica una breve ma significativa scelta. I diari iniziano con le prime prove di encausto e finiscono con il mausoleo Ottolenghi di Acqui.

A prima vista essi colpiscono per il loro aspetto semplice e familiare; infatti sono dei comuni quaderni di scuola elementare con la copertina nera e il bordo esterno rosso che generazioni di scolari ben conoscono. Sono ormai delicati, dopo sessant’anni, e ad aprirli si ha la sensazione di scoperchiare un’antica anfora di scavo, perché si diffonde nell’aria un leggerissimo profumo di resina rimasto imprigionato fra le pagine e nella pasta dei colori stemperati con le miscele sperimentali che il Maestro ha dato a pennello sulla carta, per fissare nel quaderno la memoria di una prova di colore o di una nuova tempera.
I diari, infatti, sono “dipinti” più che scritti. Le pagine sono piene di pennellate di colore, di disegni, di piccole teste e di autoritratti, accompagnati da appunti scritti fittamente con quella sua minuta calligrafia, o da note tracciate con colore e pennello.
I quaderni, prima ancora di essere dei diari di lavoro, sono un’autentica opera d’arte. Ogni pagina ha una propria struttura grafica e cromatica apparentemente del tutto casuale, ma calibratissima e armoniosa.

Le pennellate di prova di colore, per intensità e per gli accostamenti cromatici, sono brani di pittura di valore assoluto. I ritratti, poi, le piccole teste, gli autoritratti sono vere e proprie opere compiute.
Nei quaderni ogni appunto, ogni prova è datata e la data ha una grande rilevanza nella lunga sperimentazione di Ferrazzi, essendo legata alla realizzazione di ciascuna delle sue opere. Le prove di colore hanno per lo più un corpo consistente e un aspetto particolare che varia in relazione alla tecnica sperimentata. Oltre al ricco contenuto, storicamente e tecnicamente importante, i diari hanno il merito di introdurci nel poco noto mondo della “fatica dell’artista”.

Michelangelo, prima di morire, nella casa di Macel de’ Corvi passò giorni interi a bruciare disegni, appunti, abbozzi, cartoni, schizzi, si dice, per cancellare le tracce della fatica dell’artista e per rinsaldare il concetto che l’arte è un dono divino e come tale trasmesso senza passare per un lungo travaglio. Ferrazzi, al contrario, con la puntuale e quotidiana registrazione della sua attività ci apre il mondo del durissimo lavoro artigianale dell’artista, che molti anni dopo chiamerà “la follia per la materia della pittura”. Un concetto che ci ripropone un tema antico quanto l’arte: il rapporto tra materia e immagine. Rapporto misterioso che sfugge alla percezione umana e che trascende persino la coscienza dell’artista. E proprio per questo Ferrazzi ha ricercato senza posa la perfezione di questo rapporto.
Per meglio comprendere il senso e la struttura dei diari conviene ricorrere alle parole del Maestro stesso, riprese dal quinterno di appunti che scrisse nel 1965 e che mai è stato pubblicato.

“La follia per la materia pittorica, come sostanza che attraverso il senso degli smalti esalta gli occhi e l’animo di fantasia, mi ha preso da circa trent’anni [come dai diari, 1931-32] e via via si è impadronita in un desiderio di fissità e di eterno con le rocce e le altre sculture inamovibili sul luogo dove vivo a s. Liberata.
È nata questa follia da un principio di rivolta a tutta la pittura fragile e sensitiva dalla II metà dell’Ottocento fino ad oggi, e poi come un fatto di comunicazione resa più vasta dagli affreschi, oltre che dalla istintiva visione del costruire in una meditazione lenta, seppure non calma e serena. Anzi la mia natura è inquieta e di capovolgimenti, ai quali, se non ho corso il pericolo di annullare ogni cosa, hanno soccorso la rapidità del fare e tutte le giornate lunghissime di lavoro.”
Parole illuminanti per capire il concetto di materia secondo Ferrazzi. Concetto che si ritrova integralmente in tutta la sua pittura, sia in quella su tela, sia in quella in affresco o a encausto.
Materia elaborata – direi vissuta – della quale colpisce la preziosità delle superfici e il modulato spessore delle pennellate, l’intensità di pietra preziosa di certi blu e di certi verdi delle sue tele e le smaltate superfici dei suoi affreschi e dei suoi encausti premuti col ferro rovente, o al contrario la tormentata pelle degli encausti bruciati con la fiamma. Ma sarebbe un errore considerare Ferrazzi un pittore “materico”, un pittore, cioè che fa della materia un’espressione d’arte, ovvero un fine e non un mezzo.
Certamente nella materia vi è la ricerca estetica, ma non solo questa. Nella materia egli ricerca anche la durata nel tempo perché a essa affida la sua opera al futuro, cosciente, come tutti i grandi artisti, del proprio valore. Non a caso Ferrazzi è innamorato della materia degli affreschi romani e di quelli pompeiani, simbolo della durevolezza della pittura – “segni di spatolature su letto grasso di stucco come vidi in parte della Villa dei Misteri”, scriveva a pagina 26 del diario IX.

È affascinato da Rubens e dai pittori veneti dei quali cerca di raggiungere i risultati ottenuti quattro o cinque secoli prima. Significativo è l’appunto di pagina 17 del diario VIII (dicembre 1941-luglio 1943), in cui parla di quello straordinario dipinto che è il Galileo nella omonima sala di Palazzo Bo dell’Università di Padova: “Disegno Ariete 27 gennaio – Sembra di modellare – certamente Tintoretto e Veronese avevano una tempera simile”. E poi aggiunge: “Le figurette dei Gemelli mi sono venute così belle che sembrano un pezzo di Greco”. In una frase come questa, piena di stupore e di ingenuità d’animo, sta anche la grandezza di Ferrazzi, che guarda ammirato il risultato del suo lavoro, della sua arte, come se questa non dipendesse da lui ma gli uscisse libera dalle mani come una creatura dopo il parto.
Le sperimentazioni di Ferrazzi sono affascinanti anche perché sono di un empirismo antico che proviene dalla sapiente cultura popolare, contadina. Le materie sono intenzionalmente povere, di uso quotidiano, perché sapeva che gli antichi pittori non disponevano che di queste. Gli strani accostamenti e la mescolanza di sostanze disparate producono, però, leganti, vernici e intonaci di grande tenacità e preziosità. La sperimentazione, come è logico, ha dovuto registrare anche risultati deludenti e persino disastrosi: “ammoniaca invece di trementina che liquefece in pasta bianca ogni cosa!”. E ancora: “sono disperazioni grandi queste riprese, tutto mi si annerisce il giorno dopo!” (diario VIII, pp. 50, 51). E alle pagine 52 e 53 dello stesso diario vi sono i disegni delle parti che si sono rovinate per la calce troppo fresca:“Disperazione furiosa”.

La ricerca di Ferrazzi rispecchia il carattere dell’artista, che ho conosciuto personalmente per avere, fra l’altro, “staccato” sotto i suoi occhi un affresco e una nicchia a encausto che erano nella casa studio di piazzale delle Muse. Una personalità vivissima, un carattere impaziente dei risultati, esigentissimo, sempre pronto a rimettersi in gioco,a distruggere tutto e ricominciare tutto daccapo. Prove si susseguono a prove con aggiunta o sottrazione di materie, con continue modifiche delle ricette, proprio come vuole “la follia della materia pittorica”.
Le ricerche sulla pittura su tela o su tavola si mescolano continuamente con quelle sulla pittura su muro, senza soluzione di continuità, tanto che ci si deve concentrare nonché conoscere bene le sue opere per capire se si parla di pittura da cavalletto o di pittura murale.
Anche la terminologia è molto personale, o faceva parte di un lessico in uso tra i pittori della Roma di quegli anni. Ad esempio incontriamo termini come “solvente” per definire un medium più liquido in cui stemperare i colori. Il termine “mastice” si riferisce agli strati preparatori, e soltanto il termine “vernice” mantiene il suo significato, anche se raramente si tratta di una resina naturale trasparente.

I solventi sono numerosi, considerato che nel solo diario IX se ne contano dieci. La loro composizione è varia: olio di oliva e calce e vernice Ilaria; solvente chiamato “scuola”, “come uno smalto resinoso”; solvente di ranno bianco dalla fusione della sugna porcina; tempera di olio, colla e vernice (tempera veneziana); nuova colla d’olio; nuovo solvente 46 all’uovo; solvente Rubens 81 IX; solvente all’olio di oliva e sugna. Materie dai nomi familiari che corrispondono a sostanze chimiche quali le molecole dei grassi animali e vegetali, solidi e liquidi, degli acidi grassi, proteine e soluzioni alcaline, che combinandosi si trasformano nella materia ricercata. Ma non si creda che Ferrazzi non fosse cosciente della natura chimica delle sostanze, anche se le sue conoscenze probabilmente non potevano portarlo a elaborare formule. Significativo è quanto scrive a matita a pagina 5 del diario IX: “chiedere a Anti [allora Rettore dell’Università di Padova] di farmi conoscere un chimico per chiedergli di metallizzare un sapone per la pittura”.
Le vernici di Ferrazzi sono molte, di varia composizione e a ciascuna ha dato nomi di fantasia: Ilaria, Sant’Antonio, Teofilo, Rubens, Traiano. Ciascuna di queste vernici ha un gran numero di varianti per cui, per esempio, vi è la Nuova Ilaria, la Ilaria 142 VII, oppure Rubens bis, o il Traiano 104 V. La tavolozza di Ferrazzi, ovvero i colori che usava, li possiamo desumere da un’ordinazione di colori di alta qualità marca Cambridge: 20 tubi di biacca, e poi 10 tubi di oltremare, cobalto, verde smeraldo, verde cobalto, giallo cadmio medio, giallo cadmio orange, cobalto violetto, terra di Siena naturale, terra di Siena bruciata; 15 tubi di ocra gialla chiara, 5 tubi di giallo cadmio citron e cobalto minerale, 4 di lacca rossa scarlatta, e infine 3 tubi di lacca porpora rosa, terra rossa veneziana chiara e bleu minerale. Da notare che mancano i neri, come vuole la regola, mentre vi è un’ampia gamma di azzurri e di gialli.

L’ordinazione fa riferimento esclusivamente a colori a olio in tubo, quindi destinati alla pittura su tela, mentre non conosciamo la scelta dei colori in polvere che si usano per l’affresco. Presumibilmente era simile a quella dei colori a olio, forse con più terre naturali e bruciate. I colori in polvere li macinava su una lastra di marmo con un pesante pestello piatto sino a farne una pasta densissima.
L’ordinazione di colori di una determinata marca non deve far credere che il Maestro abbia dipinto con quei colori così come uscivano dal tubo. I colori industriali rappresentavano soltanto le basi della materia pittorica che Ferrazzi articolava e trasformava aggiungendo le sue miscele. La scelta della marca derivava, oltre che dalla qualità dei pigmenti, anche dal tono e dal timbro dei colori stessi, perché sotto il medesimo nome i fabbricanti offrono tuttora colori di tonalità diverse. La terra d’ombra naturale, ad esempio, si ricava da vene del terreno che danno pigmenti leggermente diversi tra loro, e poiché le vene si esauriscono, la meravigliosa terra d’ombra degli antichi oggi è assolutamente introvabile.
Un’attenzione particolare merita la ricerca sull’affresco e sull’encausto, tecniche antichissime rinverdite negli anni Venti e Trenta in Italia e in Messico – con Orozco e Siqueiros –, di cui Ferrazzi è stato da noi il pittore di punta. Il suo affresco è sempre di raffinata e tenacissima materia, ma dal momento che ha voluto seguire una sua propria via dell’affresco, ha fatto un largo uso di finiture a secco, ovvero di colori dati quando l’intonaco aveva tirato, e che quindi dovevano essere stemperati non più in sola acqua ma in media tenaci, quelli che per l’appunto Ferrazzi ha sperimentato per tutta la vita. Oltre ai colori anche i suoi intonaci sono personalissimi, elaborati e complessi: “sego in ranno, olio di olivo, cera in ranno, poca calce, tutto su intonaco fresco” (diario IX, p. 9). Ciò significa che il procedimento dell’affresco tradizionale doveva essere modificato in funzione del trattamento della superficie dell’intonaco che serviva a rallentare il processo chimico di carbonatazione dell’idrato di calcio.

L’encausto è stato sempre la grande passione di Ferrazzi. Molta pittura romana è considerata a encausto, ma l’antica tecnica – ammesso che ve ne sia stata una sola – non è stata ancora individuata con esattezza, per cui vi è massima libertà nel volerla riprodurre oggi. I due elementi base dell’encausto, oltre a una sicura partenza in affresco, sono la cera e il calore, ma incerto è il modo con cui i due elementi venivano usati. Anche qui, e con maggior ragione, Ferrazzi segue una sua via e spazia nelle sperimentazioni con risultati esaltanti, anche se la via è stata costellata di insuccessi per eccesso di sperimentazione. Un’attenta riflessione sui diari ci fa comprendere come per Ferrazzi la pittura sia stata anche un rito.
Un rito antico per arrivare “alla primordialità dell’uomo e non alla civiltà”, convinto com’era che solo ciò che è essenziale e fatto di materie elementari può sopravvivere all’inevitabile catastrofe a cui la civiltà è destinata.
Molti pittori moderni hanno scritto di tecnica, ma questi scritti, come quelli dei vecchi trattatisti, rappresentano per lo più la sintesi, il risultato delle varie esperienze. I diari di Ferrazzi, invece, registrano il percorso tecnico dell’artista attraverso tappe quotidiane che si estendono sino alla scultura, antica passione del Maestro.

Oggi, che è in grande sviluppo presso le facoltà di Beni Culturali lo studio dei materiali e delle tecniche artistiche antiche e moderne, si dovrebbero studiare sistematicamente i diari di Ferruccio Ferrazzi perché, oltre che un documento, sono una ricca fonte di conoscenze e di esperienze fatte da un artista di spicco del Novecento; da un pittore che ha segnato significativamente un’epoca nel campo della pittura murale.