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Combo (2007-2008) Anno 1 Numero 0 estate 2007



Francesco Vezzoli
THE AWFUL TRUTH!

Caroline Corbetta



Rivista D'Arte Contemporanea
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FRANCESCO VEZZOLI
MARLENE REDUX: A TRUE HOLLYWOOD STORY!, 2006
Video - 15 min ca.
Courtesy Collection François Pinault.

C’è un passaggio cruciale nel film The Queen (2006) in cui l’autore, Stephen Frears, fa dire a Elisabetta II: “Oggigiorno la gente vuole glamour e lacrime, la grande performance”.
Ambientata nei giorni immediatamente successivi alla morte di Lady Diana, l’opera mostra il disagio della regina di fronte alla reazione iperemotiva, a tratti morbosa, dei suoi sudditi, e del mondo intero; e pur senza accettarlo, è costretta a prendere atto del “teorema della visibilità”: in una società mediatica e consumistica, mettere in piazza i dettagli più intimi, darli in pasto al pubblico attraverso i mass media, è necessario per avere visibilità. E chi ha visibilità oggi ha potere. Un concetto che il sociologo Zygmunt Bauman ha esposto con la limpidezza che gli è propria: “Stare sotto i riflettori è un modo di essere acquisito per diritto, condiviso in ugual misura da star del cinema, campioni sportivi e uomini di governo. Uno dei requisiti comuni a tutti loro è che ‘hanno un dovere pubblico’ di confessarsi a uso e consumo dell’opinione pubblica, di mettere pubblicamente a nudo le loro vite private e di non protestare se altri lo fanno in vece loro (…) dopo tutto, mi permetto di ripetere, il modo in cui le singole persone definiscono individualmente i loro problemi individuali è l’unica ‘questione pubblica’ rimasta e l’unico oggetto di ‘pubblico interesse’”.(1)

Glamour e lacrime. Potrebbe essere il titolo della lunga serie di ricami realizzati da Francesco Vezzoli a partire da metà anni Novanta: ritratti a piccolo punto di icone della letteratura e del cinema del passato. Luchino Visconti, Silvana Mangano, Colette, Valentina Cortese, Proust, Joan Crawford, Edith Piaf… I loro volti sono spesso rigati di lacrime ricamate con del filo di lurex, proiezioni dei loro tormenti interiori che diventano il fulcro scintillante dell’immagine. Oltre a possedere una carica nostalgica e sentimentale, questi ricami sono delle glosse alla contemporaneità. In essi, infatti, l’artista innesta consapevolmente due universi antitetici: i simboli di un gusto sofisticato, e lontano, e la celebrities culture dell’oggi dove “in gioco sembra esserci una completa redifinizione della sfera pubblica in quanto palcoscenico su cui vengono rappresentate opere private, ma aperte al pubblico e guardate da tutti”(2), per usare ancora le esatte parole di Bauman che precisa ulteriormente: “L’attuale definizione di ‘interesse pubblico’, sponsorizzata dai mass media, ma ampiamente accettata da tutti o quasi i settori della società, è il dovere di recitare tali commedie in pubblico e il diritto di quest’ultimo ad assistere alla rappresentazione”(3). Non che in passato il pubblico non fosse interessato anche ai fatti intimi dei propri idoli, ma l’esposizione totale del privato, il suo farsi pubblico, è la dinamica che caratterizza il nostro presente, anche quello politico. Una conseguenza di questa “esposizione totale” è appunto la fine della politica tradizionale. Anche i politici, come le star, oggi fondano il loro potere sulla visibilità che si conquista attraverso i mezzi di comunicazione.
Francesco Vezzoli è lucidamente consapevole di questi meccanismi e la sua pratica artistica, una complessa trama di riferimenti colti e popolari, di elaborazione autobiografica e osservazione sociale, può essere letta come un grande studio sul ruolo della comunicazione, e dei fenomeni annessi, nella società contemporanea.

“Puoi considerare il mio lavoro come superficie assoluta o come profondità assoluta” ha ichiarato una volta l’artista (4).
È vero, è anche il bello del suo lavoro. Vedi i ricami e pensi subito che vorresti averne uno tutto tuo, possederlo, esibirlo nella sua materialità raffinata e decadente. Questa è la superficie, il linguaggio attraverso cui Francesco seduce l’audience, cattura il suo interesse; sotto quella più esterna e patinata, c’è una stratificazione di altre superfici, di altri significati, di altri linguaggi.
Dopo qualche anno di sperimentazione col ricamo, dal 1997 Vezzoli affianca a quella pratica manuale una produzione di cortometraggi fitti di riferimenti alla storia del cinema e della televisione, impreziositi di spunti letterari e musicali. In questi video l’artista ha portato all’estremo l’operazione di condensazione tra passato e presente, cultura alta e bassa, iniziata nei ricami; in essi ha manipolato, riorganizzandoli in surreali mise en scène, i suoi eterogenei riferimenti culturali: quelli assorbiti davanti alla TV del salotto buono delle nonne borghesi e quelli assimilati nei cineforum dove lo portavano i genitori progressisti; ma anche quelli dispensati dal liceo classico di Brescia e quelli divorati, subito dopo, nella Londra d’inizio anni Novanta della club-culture e di Derek Jarman, ma anche di Damien Hirst e Sarah Lucas.
Iva Zanicchi che canta a squarciagola nella raffinata casa neoclassica dell’anglista Mario Praz (Ok, the praz is right!, 1997 ); Franca Valeri che balla al ritmo di una canzone dei Kraftwerk, avvolta in una spettacolare toilette di Capucci (Il sogno di venere, 1998); Valentina Cortese che recita appassionatamente le parole di Help dei Beatles (The End. Teleteatro, 1999). Questi ed altri mondi glamourous, e improbabili, non sono solo saggi del talento combinatorio di un ex bambino cresciuto tra Raffaella Carrà e Anna Magnani ma sono anche episodi di un affresco della nostra cultura sempre più influenzata da un impianto mediatico che “nel suo rivolgersi direttamente al pubblico, saltando tutte le mediazioni, ha un’apparenza democratica, ma è in realtà una forzatura che omologa ogni differenza”. (5)
Nei lavori video successivi, in particolare Comizi di non amore (2004), Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligola (2005) e Marlene Redux! A True Hollywood Story (2006), Vezzoli rende più esplicita l’intenzione di elaborare una cronaca sociale allegorica, seducente e grottesca allo stesso tempo. Per farlo, l’artista impiega i veri linguaggi dei mass media ottenendo ogni volta la collaborazione dei più accreditati esponenti della società dello spettacolo: attori, produttori, registi, consulenti… E decontestualizzandoli, ne espone l’allucinante influenza, esercitata ormai anche sul sistema artistico. “Per me il mondo dell’arte si è trasformato, consapevolmente o meno, in una specie di industria dell’intrattenimento”.(6)
A parole è piuttosto cauto; nel suo lavoro, invece, questa calcolata prudenza lascia spazio ad una spietata autoanalisi. La presenza muta di Vezzoli nei video che ha realizzato finora è emblematica: solo esponendosi in prima persona, senza prese di distanza che affermano un’integrità improbabile, egli può affrontare certe tematiche evitando atteggiamenti moralistici: “Odio essere nel mio lavoro. Ma credo che sia più significativo se io stesso divento soggetto della mia critica”.(7)
Qualche anno fa, nel 2004, scrissi che il percorso artistico di Vezzoli poteva essere diviso in due fasi (una, iniziale, narcisisticamente imbastita intorno all’immaginario divistico dell’artista e l’altra, successiva, caratterizzata da più espliciti contenuti sociopolitici(8)) concettualmente separate dall’ambizioso progetto Comizi di non amore, prodotto quello stesso anno dalla fondazione Prada in cui il film-inchiesta di Pasolini del 1964 Comizi d’amore diventa un reality-game che racconta la diffusione dell’estetica televisiva e della sua capacità di seduzione e omologazione. Schematizzai troppo, indubbiamente. In realtà, la produzione artistica di Francesco Vezzoli è intimamente politica fin dagli esordi, non solo per le ragioni qui sopra sinteticamente esposte, ma anche per altre, diverse, che si possono rintracciare prendendo in considerazione le prime riproduzioni a piccolo punto degli annunci erotici che l’artista raccoglieva nelle cabine telefoniche di Londra (dove era “fuggito” nel 1991, subito dopo il liceo), o gli appena successivi ritratti ricamati del pornoattore Jeff Stryker. Proprio attraverso l’utilizzo di una tecnica solitaria e passiva come il ricamo, Vezzoli dichiarava la sua personale condizione di emarginazione vissuta in quanto omosessuale. In larga, larghissima misura, la critica ha sistematicamente sorvolato sulla dimensione politica dell’opera di Vezzoli, sul suo costituire una riflessione sull’identità gay. Forse anche perché quando, nel 1997, il nostro debutta sulla scena internazionale, partecipando alla collettiva Fatto in Italia, curata da Paolo Colombo per il Centre d’Art Contemporain di Ginevra, l’icona dell’artista gay socialmente impegnato è Felix Gonzalez-Torres, morto di AIDS un anno prima. Il suo linguaggio, un minimalismo lirico e asciutto fortemente debitore delle esperienze dell’arte Concettuale e Minimal, è l’opposto dell’estetica melò e decadente proposta da Vezzoli, che rappresenta un’omosessualità quasi parodistica, per niente politically correct. In più, l’artista rincara le dosi con dichiarazioni del tipo: “Se si potessero usare tutte le parole giuste al posto giusto, direi che il mio lavoro è questo studio sulle debolezze del frocetto di provincia, che si guarda i film di Visconti, si studia i mobili di antiquariato e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione”.(9)
Dissonante dallo spirito che in quegli anni aleggia sul mondo dell’arte, dove si registra una predominante “tensione alla semplicità, e quindi all’immediata fragranza dell’immagine proposta o del gesto che la produce”(10), Vezzoli opta per un’opulenza eclettica, di tecniche e significati: esattamente come riempie le sue tele aide di piccoli punti, satura ogni sequenza dei suoi video di incise e subordinate fino al limite possibile. Quasi come in una pagina proustiana che, prendendo spunto dalla nostalgia del passato, intessa la cronaca del presente.

Nel 1996 Jean Baudrillard pubblicava sul quotidiano francese “Libération” il saggio Le complot de l’art in cui provocatoriamente accusa l’arte di non possedere più, nella contemporaneità transestetica dove ogni cosa si eleva a banalità estetica, nessuna specificità al di fuori del suo valore di merce. “L’arte non è da sola: politica, economia, informazione, tutte beneficiano della stessa complicità e rassegnazione ironica da parte dei loro ‘consumatori’”.(11)
Lo stesso anno, il canale TV nordamericano via cavo, E! Entertainment Television, metteva in onda la prima puntata E! true Hollywood story, una serie di docu-fictions in cui la vita delle star viene data in pasto al pubblico in un’ irresistibile combinazione di fatti e finzione. Per la cronaca, la serie viene tuttora distribuita in tutto il mondo con grandissimo successo. Quell’anno Vezzoli aveva appena iniziato, forse ancora inconsapevolmente, a intrecciare nel suo lavoro due fenomeni apparentemente scollegati: la demistificazione dell’alterità dell’arte, svelata da Baudrillard, e la consacrazione del gossip a genere d’intrattenimento e informazione. Esattamente, dieci anni dopo, nel 2006, le due questioni confluiscono nel video Marlene redux: A true Hollywowod story!. Sulla falsariga di un episodio di E! true Hollywood story, Vezzoli - coadiuvato dagli autori della trasmissione stessa – mette in scena la sua stessa video-biografia: dall’ovattata infanzia e prima adolescenza, spesa nella provincia italiana, alla consacrazione internazionale di celebrità dell’art-system grazie al successo di Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligula (2005), presentato in anteprima alla biennale di Venezia e poi a Los Angeles, nella galleria Gagosian, in un’atmosfera da prima hollywoodiana coronata dalla pleonastica presenza di Paris Hilton…
Ripercorrendo la produzione di Vezzoli dagli esordi, la ricostruzione approda al resoconto della sua ultima fatica: il rifacimento del documentario del 1984 di Maximillian Schell dedicato a Marlene Dietrich. Nell’originale, accanto all’“icona del glamour” compare “la rispettata intellettuale” del Bauhaus Anni Albers. L’accostamento di questi due modelli femminili antitetici intriga Vezzoli, già autore (nella realtà) di una serie di ricami-remake dei quadri astratti del marito di Anni, Josef Albers. Rientrando nella finzione del racconto, l’artista, ottenebrato dal successo raggiunto con inesorabile determinazione, crede di poter realizzare l’opera senza ricorrere, come ha fatto invece in tutti i suoi video precedenti, a delle star. Il tragicomico epilogo vede la morte dell’artista, per annegamento in una piscina di Beverly Hills, ormai devastato dalla consapevolezza del fallimento del progetto.
Alla narrazione delle gesta di Vezzoli, vere e presunte, si alternano testimonianze di personaggi immaginari (dietro cui, però, ogni frequentatore del mondo dell’arte riconosce identità reali) che tracciano il ritratto di un artista ossessionato dalla celebrità, che ha cinicamente coinvolto nelle sue produzioni stelle del cinema e dello show-biz per vampirizzarne la fama. In un’esilarante auto-referenzialità, Vezzoli fa il verso ai suoi detrattori ma, soprattutto, obbliga il sistema dell’arte a guardarsi allo specchio e a prendere atto di aver ormai assimilato i sistemi di funzionamento di altri ambiti della società mediatizzata, come rilevava Baudrillard dieci anni prima.

“Il lavoro di ogni artista è politico ma visto che provengo da un paese dove l’entertainment è diventato politica, ritengo che il modo più politico per me di fare arte sia quello di studiare il vocabolario dell’entertainment” ha dichiarato Vezzoli il cui nuovo campo d’indagine è quello della post-politica. Nella “spettacolarizzazione del mondo”, nella sua redifinizione semiologica, la democrazia è diventa una forma di seduzione di massa. Una trasformazione cha ha investito in pieno l’Italia ma che trova la sua matrice negli Stati Uniti. Per cui il soggetto di Democrazy, (videoinstallazione appena realizzata con la consulenza di Mark McKinnon, stratega della seconda campagna elettorale di George W. Bush, già media adviser democratico nonché professore ad Harvard) è un confronto elettorale all’americana tra due personaggi post-politici il cui obbiettivo è sedurre gli spettatori elettori. Democrazy viene presentata in anteprima nel resuscitato Padiglione italiano alla Biennale di Venezia, accanto alle opere di Giuseppe Penone, esponente di punta dell’Arte Povera. Niente male per uno che l’anno scorso dichiarava al New York Times: “Crescendo ero a conoscenza solo delle provocazioni dell’arte povera e ricamare era il gesto più provocatorio a cui potessi pensare”(12).

NOTE

1 Modernità liquida, 2002, editori Laterza, Roma-Bari, p. 74 .
2 P. 71 op. cit.
3 P. 71-72 op.cit.
4 Intervista di Barbara Steiner in The Needleworks of Francesco Vezzoli, 2002, cat. mostra alla Galerie für Zeitgenössische Kunst Leipzig 23 giugno-22 settembre 2002, p. 11.
5 Mario Perniola, Contro la comunicazione, 2004, Einaudi editore, Torino.
6 F. Vezzoli in ‘Caligula’ Gives a Toga Party (but No One’s Really Invited) di Linda Yablonsky, “New York Times” del 26 febbraio 2006.
7 F. Vezzoli, “New York Times”, 26 febbraio 06.
8 Vezzoli Goes Political in “Boiler” n 5, special issue Viva! Italia, settembre 2004.
9 Foto di gruppo con signora, in “Flash Art Italia” n 224 ottobre-novembre 2000.
10 G. Verzotti, Le ultime tendenze degli anni ‘90 in “Arte contemporaneaa” a cura di F. Poli, 2003, Electa, Milano, p. 330.
11 The Conspirancy of Art, 2005, Semiotext(e), New York, p. 29.
12 “New York Times”, 26 febbraio 2006.