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Combo (2007-2008) Anno 2008 Numero 2



In principio era BEAUBOURG

Giulio Ciavoliello



Rivista D'Arte Contemporanea


Combo n. 2 è dedicato a Luigi Ontani, Narciso opera vivente in azione
permanente. Si risale alle esperienze iniziali, agli oggetti pleonastici,
affrontati in uno scritto storico da Renato Barilli, per arrivare alle
esperienze attuali. Il corpo e il volto dell¹artista sono il centro di una
visione che caratterizza arte e vita, che delinea il mondo Ontani.
Ad esempio, per Ontani scrivere è disegnare: nel momento in cui gli sono state inviate delle domande, ha risposto via fax con disegni.

I musei stanno velocemente cambiando: fino a poco tempo fa considerati grigi mausolei, equiparati a cimiteri della creatività, sono diventati oggetto di grande interesse da parte dei media e meta di turismo di massa. Al riguardo pubblichiamo le opinioni di un artista, di una giornalista, di un antropologo, di un architetto.

I testi, sugli argomenti indicati e su altri, sono di Adriana Polveroni,
Franco La Cecla, Pippo Ciorra, Alberto Garutti, Giulio Ciavoliello,
Alessandra Galasso, Renato Barilli, Marco Tagliafierro, Chiara Leoni, Miltos Manetas, Marcello Carriero, Daniela Zangrando. Lo spazio non profit Base, di Firenze, interviene con pagine gestite in totale autonomia.
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Quando l’astronave Centre Pompidou atterrò nel centro di Parigi si impose come grandissimo attrattore, non solo per la forma che aveva. Impresa straordinaria, era oggetto di attenzione straordinaria già nel periodo della realizzazione, da quando venne concepito, intorno al 1970, fino all’apertura, nel 1977. Fra le istituzioni culturali sorte negli ultimi cinquant’anni, è quella che ha fatto più parlare di sé, determinando numerosi interventi. Se si comprendono tutti gli scritti fino a oggi pubblicati, dall’articoletto alla monografia, la letteratura in proposito è sconfinata. Molte sono le voci autorevoli scese in campo, da più ambiti. Si ricorda, per esempio, quella di Jean Baudrillard, che gli ha dedicato L’effet Beaubourg (1).

Si può affermare che Gordon Matta-Clark non abbia potuto fare a meno di occuparsene. Per un artista la cui opera si basava sulle alterazioni architettoniche, il particolare edificio che si erigeva, assieme a ciò che accadeva intorno, forniva un’occasione unica e materiale diretto. Forse è la costruzione intorno alla quale Matta-Clark si è trattenuto più a lungo, ad agire, fotografare, filmare.
Molte fra le migliaia di persone che accorrevano a visitare il Centre Pompidou nemmeno sapevano chi fosse Marcel Duchamp, l’artista cui era dedicata la prima grande retrospettiva con cui si inaugurò. Molti, provenienti da lontano, si misero in coda, così come facevano per la Tour Eiffel. Un numero rilevante di cittadini gravitanti in zona vi si recava anche solo per ammazzare il tempo.
Il Centre Pompidou si è trovato ad essere sempre sovraccarico, gravato da un “di più” di significati, riguardanti cosa proporre al suo interno, gli intenti espliciti e impliciti di chi lo aveva voluto e realizzato, le aspettative createsi, le ostilità suscitate, gli esiti che si determinavano, le contraddizioni scaturite. Ragione per cui, si può dire che si trattò, in più di un caso, di una realtà sfuggita di mano a chi era preposto a gestirla.
Il lungo nome ufficiale Centre National d’art et de culture Georges Pompidou ebbe una contrazione, divenne Centre Pompidou. Molti però, nei discorsi di tutti i giorni, incominciarono a chiamarlo Beaubourg, dal nome del plateau Beaubourg, il piazzale sterrato dove è sorto, creatosi negli anni Cinquanta, in seguito alla demolizione di vecchi edifici fatiscenti e utilizzato per anni come parcheggio d’auto (2).
Si era voluto riunire, attorno all’arte contemporanea, molte arti e saperi: alla collezione permanente e alle mostre temporanee si affiancava una biblioteca generalista a fruizione libera (con l’utente che prende direttamente i libri dagli scaffali), un dipartimento su design, architettura e urbanistica, visioni cinematografiche, ascolto musicale, un laboratorio di sperimentazione sonora.
Il Beaubourg, posto al centro della Ville Lumière, attestava anche una certa voglia di revanche rispetto a New York. A molti continuava a non andare giù lo spostamento dell’asse mondiale dell’arte da Parigi a New York, iniziato con l’Espressionismo Astratto e consolidatosi con la Pop Art. La prima, grande collettiva che il Beaubourg presentò fu Paris-New York, una storia del XX secolo che, nel mostrare i rapporti fra le due capitali, intendeva dire la parola definitiva su primati e derivazioni.
I francesi spesso vengono accusati di chauvinisme. In questo caso, la volontà di riaffermare la grandeur della nazione è stata stemperata da due decisioni significative: i progettisti, Renzo Piano e Richard Rogers, non sono francesi e la direzione della sezione arte, la principale, è stata affidata allo svedese Pontus Hulten, in un primo periodo, il più critico, quello del rodaggio.
Georges Pompidou è il padre dell’iniziativa che, portata a compimento dopo la sua morte, è stata a lui intitolata. Ma André Malraux può essere considerato il nonno: si realizzava una Maison de la Culture elevata all’ennesima potenza; riviveva, in forma centralista, l’ideale democratico sottostante le sue case della cultura. Fra l’altro, il Beaubourg corrisponde alla perfezione al tipo di museo che può fare da pendant al “museo immaginario”. Malraux definisce museo immaginario tutto l’universo delle riproduzioni fotografiche di opere d’arte, una volta diffuse attraverso l’editoria. Si pensi a come si è sviluppato oggi tale museo, col passaggio al digitale e a Internet. Il Beaubourg è il museo dell’era digitale, vi si prepara, ne costituisce il prototipo. Il museo, luogo fisico, quello dove si va di persona, non decade, anzi aumenta il suo interesse, tenuto conto del pubblico sempre più numeroso che vi si reca, ma è diventato complementare, quasi organico al museo domestico. Il rapporto abitudinario con le opere d’arte è dato dalle riproduzioni, che sono presenti nelle nostre dimore, su carta o su schermo. I due mondi non sono in concorrenza, l’uno suffraga l’altro, a volte sono un’unica cosa.
Il Centre Pompidou è già mediaticamente ingombrante di suo. è il primo a essere storicamente tale, a occupare un posto nella mente di chi, per esempio, vede alla televisione che un bizzarro, colorato centro culturale è stato aperto nel centro di Parigi e accorre. Un giro sulla giostra non si nega a nessuno.
Il peso, sempre più rilevante, che i media andavano assumendo, era presente, intuitivamente, nei progettisti. Nel progetto originale, erano previsti dei grandi schermi sulla facciata dell’edificio, che avrebbero potuto proporre immagini, filmati, essere in collegamento con altri media o trasmettere produzioni autonome.
Fino agli anni Sessanta, chi si recava al museo era estremamente consapevole, si muoveva con l’intento di andare a trovarvi qualcosa di preciso, era predisposto a farlo, per erudizione e anche per reddito. Il museo d’arte contemporanea, in particolare, rimaneva luogo elitario, non agevolava l’incontro col grande pubblico. Negli anni Settanta, qualcosa incomincia a cambiare. Quando il Beaubourg inaugura, si esce dagli schemi, si interrompono abitudini consolidate. L’edificio viene preso d’assalto. Si fa fatica a gestire ingressi e flussi di pubblico, decisamente superiori alle più ottimistiche previsioni. Succede così che la gestione della macchina culturale coglie tutti impreparati e costringe a ripensare molte cose. La numerosità del pubblico e altre considerazioni costringeranno ad apportare modifiche. Succederà così che una parte degli uffici verrà spostata fuori e che la biblioteca avrà un accesso nella parte posteriore. Gli interni della parte destinata ad accogliere l’arte contemporanea verranno, prima, modificati, nel senso che si avvicineranno di più alla ripartizione in sale con pareti bianche, tipiche degli spazi destinati ad accogliere arte, poi si sposterà altrove la raccolta delle avanguardie storiche.
Fredric Jameson considera il Beaubourg edificio del postmoderno maturo, perché si caratterizza come iperspazio, cioè spazio totale cui “corrisponde una nuova pratica collettiva, una nuova maniera di muoversi e di riunirsi degli individui, una specie di pratica di un genere nuovo e storicamente originale di iperfolla” (3).
Tali considerazioni sono pertinenti, ma per la vulgata architettonica è semplicistico accettare la sua collocazione nella casella del postmoderno. Per alcuni versi se ne discosta e, da molti punti di vista, riattualizza vari principi dell’architettura moderna e razionalista. Che il Beaubourg non presenti i caratteri tipici dell’architettura postmoderna è ovvio: non vi è netta separazione fra interno ed esterno, non vi è decorazione, non vi è, per esempio, la presenza del marmo e di tutto ciò che rimanda a tradizioni secolari o locali. L’edificio parigino è ultramoderno, si fonda su una netta distinzione rispetto al passato e non scende a compromessi nei suoi confronti, tanto da risolversi in un contrasto smaccato. I materiali principali sono acciaio e vetro, o il suo equivalente, il plexiglass. Non vi è citazione ma confluenza di tradizioni novecentesche: il macchinismo architettonico dei disegni di Sant’Elia e di architetti costruttivisti come i fratelli Vesnine in Unione Sovietica, la leggerezza-trasparenza di Franco Albini, fino alle esperienze radicali di Archigram e Superstudio, per quanto riguarda colore e ludismo pop.
Soprattutto, vi è una cosa che distingue il Beaubourg, l’ultraprogettazione, necessaria a un grande sistema di montaggio, a un gioco complesso di incastri. Tutto è disegnato, calcolato, fino al minimo dettaglio. È un’architettura prefabbricata, che si alimenta ai massimi livelli di cultura ingegneristica. Questo deve aver pesato non poco nel determinare la vittoria del progetto di Piano e Rogers, a un concorso dove la giuria internazionale era presieduta da Jean Prouvé, il grande maestro della prefabbricazione. n

Note
1 JEAN BAUDRILLARD, L’effet Beaubourg. Implosion et dissuasion, Galilèe, Paris 1977. Pubblicato in Italia in J. BAUDRILLARD, Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna 1980.
2 Beaubourg deriva da Beau Bourg, bel borgo, il nome del vecchio quartiere preesistente, di origine medioevale.
3 FREDRIC JAMESON, Postmodernismo, ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi editore, Roma 2007, pp. 55-56, edizione integrale pubblicata tardivamente in Italia; Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism è stato pubblicato per la prima volta nel 1991.