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Combo (2007-2008) Anno 1 Numero 1 autunno 2007



Fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta

Emanuela De Cecco



Rivista D'Arte Contemporanea


NUMERO 1-AUTUNNO 2007

SOMMARIO

6 SPAZIO SOCIALE E LUOGHI LABORATORIO
Maurizio Bortolotti
13 A GALAXY NOT SO FAR AWAY
Bettina Della Casa
19 COSMOPOLITIZZARE
Grazia Quaroni
26 INTERVISTA A HOU HANRU
Alessandra Poggianti
39 TRASDUZIONE E SUB-VALORE
Vincenzo Agnetti
43 PER DIMENTICARE A MEMORIA
Marco Meneguzzo
50 L'ERA DEL BRONZO VOLATILE
Tommaso Trini
54 CALLING OUT OF CONTEXT
Daniela Cascella
64 DAFNE BOGGERI
Francesca Bertolotti
72 FRA GLI ANNI SESSANTA E GLI ANNI OTTANTA
Emanuela De Cecco
85 IL VEDERE È SECONDO AL SENTIRE...
Francesca Comisso
89 COSTRETTO AL SUCCESSO
Chiara Leoni
96 CONNECTING CULTURES
Laura Riva-Saramicol Viscardi
102 COSA SI SA FARE
Roberta Tenconi
106 RIPENSARE IL SITUAZIONISMO, ANCHE
Cesare Viel
116 CARLA LONZI
Giulio Ciavoliello
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Impercettibile tremore
Francesco Garutti
n. 3

Musei attrazione
Giulio Ciavoliello
n. 2

In principio era BEAUBOURG
Giulio Ciavoliello
n. 2

Fattibile
Alessandra Poggianti
n. 1 autunno 2007

Francesco Vezzoli
THE AWFUL TRUTH!

Caroline Corbetta
n. 0 estate 2007


Fabio Mauri
Ideologia e Natura, 1973
foto su carta fotografica intelata
270 x 205 cm
Foto Elisabetta Catalano

Giorgio Tagliafico
Performance del Living Theatre, Genova 1976
Courtesy l'artista

A distanza di pochi mesi, due mostre assai diverse tra loro riaprono la riflessione sugli anni Settanta, decennio che si rivela di centralità estrema sotto molti aspetti, politici e culturali, privati e pubblici, vero e proprio laboratorio di processi che, allora, hanno preso avvio e che sono tuttora fondamentali. Il punto di partenza che entrambe le rassegne condividono è l’esercizio di uno sguardo allargato sulla cultura del decennio, in tutte le sue possibili espressioni, anche se la mostra genovese è più concentrata sugli sviluppi del discorso artistico, mentre quella alla Triennale di Milano propone una visione di tutte le possibili espressioni socio-culturali, senza privilegiare un ambito specifico. Ma ciò che richiede maggiori riflessioni non è tanto la registrazione di differenze/divergenze sul fronte dei contenuti, quanto piuttosto le diverse modalità con cui i curatori (Matteo Fochessati, Mario Piazza e Sandra Solimano, a Villa Croce; Gianni Canova e, per l’allestimento, Mario Bellini e Giovanni Cappelletti, alla Triennale) hanno articolato concretamente, nello spazio, i rispettivi discorsi, in altre parole il tipo di esperienza che, nell’uno e nell’altro caso, hanno inteso proporre al pubblico. Una spia significativa, a questo proposito, la si rintraccia nelle rispettive denominazioni con cui viene indicato, nei crediti, sia il compito di chi ha progettato le mostre, sia il compito di chi ha progettato gli allestimenti. Per la mostra di Villa Croce si parla di "curatori" e di "un progetto di allestimento", per la Triennale, invece, di "ideazione e regia" e di "messa in scena". Complice la diversa natura dei due luoghi espositivi, quello che in realtà può apparire un dettaglio di carattere formale, si rivela un fattore decisivo, come vedremo in seguito, dopo aver portato l’attenzione su alcuni aspetti interessanti dell’una e dell’altra mostra, separatamente.
In pubblico. Azioni e idee degli anni Settanta (Villa Croce) non manca d’affrontare alcune questioni specifiche a proposito dei modi in cui si è consolidata la storia dell’arte sugli avvenimenti e la produzione di quel periodo.
Sandra Solimano, a proposito delle scelte curatoriali, scrive in catalogo, che il criterio seguito è storico anziché storico-artistico e poco dopo, continua spiegando come questo criterio nasca da “un approccio eterodosso nei confronti della periodizzazione schematica della storia dell’arte che legge in diacronia ciò che è nella realtà sincronico e interpreta in chiave evoluzionista compresenze solo in apparenza contraddittorie”.
Il punto chiave di questo passaggio, che poi si ritrova puntualmente presente nelle sale espositive, è la presa di distanza da letture della storia dell’arte recente, dove per comodità si utilizzano definizioni e si tracciano appartenenze a gruppi e schieramenti, eludendo un problema complesso: come progressivamente alcuni fatti entrino a far parte della storia e altri siano destinati a starne fuori.
A proposito degli anni Settanta, lo schema consueto prevede che il decennio, nella prima parte, si sviluppi innanzitutto sotto il segno dell’Arte Povera, con episodi importanti nell’ambito della performance e dell’arte concettuale e, nella seconda, soprattutto sotto quello della Transavanguardia, preceduta da un recupero progressivo di linguaggi di segno più tradizionale e del rapporto con la storia. Tanto orientata sul piano pubblico e sociale la prima parte, quanto orientata sul privato e sulla riaffermazione dell’individualità la seconda. In pubblico non dà per scontata la versione della storia consolidatasi successivamente, mostra dopo mostra, pubblicazione dopo pubblicazione, ma allarga il discorso includendo lavori meno visti, meno noti e non certo di qualità inferiore. È, inoltre, interessante come questo spostamento di prospettiva non contenga alcun carattere di rivalsa, ma sia semplicemente implicita conseguenza di uno sguardo sulla storia dell’arte che non si pone passivamente nei confronti di definizioni e categorie precedenti. Tra parentesi, è curioso che questa riapertura di campo prenda forma proprio a Genova, città dove Germano Celant, incontrando un contesto vivace e reattivo nei confronti dei mutamenti artistici e sociali in atto, ha iniziato il suo percorso come riconosciuto e affermato ideatore dell’Arte Povera della quale, come è noto, in questa città si tenne una delle prime esposizioni.
Tutto questo conferisce ulteriore efficacia alla ricerca di una relazione stretta tra le opere e la realtà del periodo in questione, concreta ed evidente nell’allestimento, che consegue ad un approccio storico più che storico-artistico.
Al dialogo serrato con gli accadimenti dell’epoca si aggiunge la chiarificazione dell’interdipendenza tra opere d’arte, oggetti di design, manifesti, così come la presentazione dell’immaginario mediale, televisivo e cinematografico, come prodotto di una presenza sostanziale, e non di un semplice apparato di documentazione.
Tra un lavoro e l’altro, sono presenti immagini di reportage che amplificano e aggiungono ulteriori rimandi contestuali alla funzione di testimonianza svolta dai lavori stessi. Nella stessa sala dove è allestita l’installazione Esposizione in tempo reale. Lascia una traccia del tuo passaggio…, realizzata da Franco Vaccari in occasione della Biennale di Venezia del 1972, c’è una parete intera composta di tanti volti di figure significative, in fotocopie di formato A4, sotto il segno della riproduzione tecnica e non in una chiave mitizzante. O ancora, i Funerali di Togliatti di Guttuso convivono con una fotografia di Francesco Radino, scattata durante i funerali di due vittime di scontri con la polizia, durante una manifestazione svoltasi in Piazza Duomo a Milano: la folla che Guttuso personalizza, inserendo volti noti della Storia, si rispecchia nella folla che in un gesto comune diventa corpo unico. Poco dopo seguono: nella totale assenza di esseri umani, le fotografie scattate negli ospedali psichiatrici da Emilio Tremolada, disposte da un lato, dall’altro, Gabbia di Pistoletto, sullo sfondo la legge Basaglia e molti altri tentativi di liberazione. Si respira un clima, ci si trova immersi in anni vicinissimi e lontanissimi allo stesso tempo, anni, come si sa, densi di contraddizioni e conflitti.
La mostra si dispiega con un prologo e un epilogo, al centro una serie di lavori significativi del decennio. Si apre con Verifica di una mostra di Aldo Tagliaferro, sequenza di tele emulsionate dove sono colti i momenti rituali che accompagnano le fasi di apertura di una sua stessa mostra, dal trasporto delle opere alla presenza del pubblico, comprese le immagini di una serie di tele installate nello spazio espositivo, sulle quali l’artista è intervenuto successivamente, cancellandone il contenuto per non distrarre il nostro sguardo.
Nello stesso spazio, tre video: Cani Lenti di Franco Vaccari, la documentazione della performance di Vincenzo Agnetti a Bologna, alla Galleria d’Arte Moderna, nel 1977 e Sostituzione di Fernando De Filippi, dove l’artista trasforma alcuni dettagli del suo volto e progressivamente diventa Lenin. A seguire: le foto e i video delle azioni urbane di Ugo La Pietra, un video di Ugo Nespolo che mostra l’azione con la sfera di giornale di Pistoletto per le strade urbane; due Italie, una rovesciata e una con i nomi dei luoghi cancellati, realizzate rispettivamente da Luciano Fabro ed Emilio Isgrò; il video che documenta la performance di Marina Abramovic e Ulay realizzata a Bologna nel 1977, dove i due artisti si dispongono nudi ai lati della porta all’ingresso di una sala, costringendo così i visitatori a compiere un passaggio non privo di imbarazzo… Complessivamente ci troviamo in un crescendo, dove l’elemento costante è il pubblico, cui viene dato e viene chiesto dagli artisti un ruolo da protagonista. Fino ad un certo punto, questo è il filo rosso che collega tra loro i lavori esposti. Lo sguardo è orientato al presente, inteso come momento, al mondo immediatamente prossimo, azioni e reazioni strettamente collegate al reale nella sua complessità. Una prima chiusura della mostra arriva con una sala che contiene l'esordio di aspetti che, negli anni a seguire, manifesteranno un cambio di scena. Con le variazioni sull’autoritratto di Carlo Maria Mariani, le interpretazioni mitologiche di Luigi Ontani, le statue di Giulio Paolini e Vettor Pisani, si riapre lo sguardo sulla Storia e si compie quel passo dove l’artista riprende in mano le fila del gioco, riducendo lo spazio dell’imprevisto e riconducendo a sé l’inizio e la fine del lavoro.
Ma il gioco di rimandi e l’interdipendenza con ciò che in diversi contesti accade negli stessi anni - il design, la grafica, il cinema, la televisione - suggeriscono un ulteriore passo che, di fatto, sembra essere il vero atto finale della mostra. È una conclusione aperta, che dialoga in maniera complementare con le varie tappe del percorso presentato attraverso i lavori degli artisti e agisce come ponte che ci riporta all’attualità. Se nelle prime sale incontriamo il pubblico poco numeroso che partecipava alle performance e alle inaugurazioni delle mostre e quello nutrito che andava in piazza a manifestare, al di là della differenza in termini numerici, questi pubblici erano composti di persone che assistevano a qualcosa direttamente. È evidente che, da quando per “pubblico” s'intendono i telespettatori e per “piazza” le arene televisive, le forme delle relazioni personali e collettive non sono più le stesse.

Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve, sembra prendere il via da questo cambiamento o meglio dalle sue conseguenze sullo scenario attuale, con riguardo al pubblico. Dove, prima ancora che sui contenuti specifici, l’attenzione è portata a concentrarsi su “come” gli oggetti di design, ma anche i video giochi, i dischi, i prodotti dell'editoria e della cinematografia, i telegiornali d’epoca, e le opere d’arte sono esposti. Il percorso si articola per box tematici, pensati come stanze: in ognuno di essi, è sviluppato un aspetto specifico, ovvero un'interpretazione delle “parole chiave” della mostra. Il biancore generalizzato degli spazi - da quelli esterni ai box, ai soffitti, ai corridoi - unitamente alla libertà di fruizione del percorso espositivo, produce un effetto disorientante. Il bianco che l’architetto Mario Bellini, responsabile dell’allestimento, indica come “colore astratto della memoria”, isola i singoli contributi, avvolgendoli in un’atmosfera che più che farci percepire gli spazi urbani, riporta il tutto a una dimensione astratta, appunto, e asettica che isola i contenuti in una sorta di cordone di sicurezza percettivo. L’allestimento all’interno dei box è invece affidato, ogni volta, a un curatore diverso ed è regolato secondo criteri definiti in base alle singole esigenze. Filo rosso che unisce i box, ancora dalle parole di Mario Bellini, è l’essere dei “condensati di memorie”, dove il pubblico è invitato a immergersi e dove gli stimoli si sviluppano su più canali sensoriali, compreso l’olfatto. Per esempio, le pareti rosse de “Il tempietto del sacro e del profano” ospitano un fitto allestimento, tipo ex voto, d'icone dell’epoca – dai simboli politici alle insegne pubblicitarie, senza soluzione di continuità; l’audio è costruito al ritmo di una giaculatoria, e l'ambiente è pervaso da un forte odore di incenso. “Il luogo della socialità” ricostruisce, invece, un bar popolare anni Settanta, perfetto in ogni particolare, non solo negli arredi e nella presenza di oggetti tipici – il juke box, le tazzine da caffè usate, le carte da gioco sui tavolini e i portacenere - ma anche nella presenza dell'odore di fumo. In altri casi, l’intervento si gioca sull’ingrandimento di dettagli, come nella “Vinyl Room”, dove vinili ingranditi decorano il pavimento, e la tappezzeria si sviluppa come macro dettagli di copertine; o sull’accumulo, come ne “La caverna catodica”, dove la riflessione sulla moltiplicazione dei canali televisivi e sull’introduzione del colore è tradotta in un fitto assemblaggio di monitor. La sezione “L’agorà del design” si riferisce, in particolare, alla mostra "Italy. The New Domestic Landscape", tenutasi al MoMA di New York nel 1972, e accoglie il prototipo del mezzo di trasporto Kar-a-sutra di Mario Bellini, esposto in quella occasione che, enorme e trasparente, appare come un fantasma al centro della stanza. Una sezione è dedicata agli artisti degli anni Settanta - rispettando integralmente l’uso delle categorie storiche convenzionali - e una alla contemporaneità dove, l'attitudine di libertà della curatrice risulta interessante e, tuttavia, non permette di rintracciare facilmente le connessioni con le problematiche del decennio in questione, andando piuttosto a costruire una mostra nella mostra… Insomma, se alcune scelte caratterizzanti la mostra a Villa Croce (in particolare le fotocopie di fotografie di personaggi significativi del decennio che vanno a comporre una parete), sembrano contenere – nella loro intenzionale bassa qualità – il principio di straniamento caro a Brecht - l'interruzione nello svolgimento dell’azione per spingere alla riflessione e la limitazione della comunicazione emotiva - nel percorso espositivo di Annisettanta avviene esattamente il contrario. Nella perfezione delle ricostruzioni, nell’emozione provocata da installazioni pensate come tappe di un viaggio nel tempo, siamo invitati a un percorso che ci richiede un’adesione totalizzante, dove più che a capire, siamo chiamati a vivere, dove più che a conoscere siamo portati a riconoscere dove se, nella vita quotidiana siamo diventati telespettatori, qui siamo ancora spettatori davanti a tanti monitor, ma con la possibilità di entrare negli studi. Sarà davvero un vantaggio?
Come si può vivere come esperienza vitale – nella stanza dedicata ai cortei – la scelta di uno slogan di protesta tra quelli scritti sulla parete, schiacciando un pulsante e ascoltando la voce amplificata, e non considerarla come parodia del vissuto di allora? È questo l’ultimo barlume di partecipazione sociale cui siamo chiamati? Il bar, presentato come luogo di socialità di allora, è museificato, morto. Tutto ciò ha qualcosa in comune con gli allestimenti nei vecchi musei etnografici, quando si pensava che fosse una corretta operazione storica la ricostruzione delle capanne dove vivevano i selvaggi, con i loro utensili… Forse, come in un gioco di corsi e ricorsi della storia, Milano si sta attrezzando, anche sul versante delle grandi mostre, al possibile arrivo dell’Esposizione Universale nel 2012?
Certamente la quantità di materiali storici raccolti ed esposti è notevole: una visita non basta. Con caratteristiche di pari densità e complessità si annuncia il volume che accompagnerà la mostra (la cui uscita è prevista in tempi successivi alla stesura di questo testo), ma questa è un’altra storia…