Work.Art in progress (2006-2008) Anno 7 Numero 23 estate 2008
Site specific: nel mondo dell'arte contemporanea questa definizione ricorre, da cinquant'anni a questa parte, per tentare di catalogare i più diversi lavori. Il termine ha finito per diventare quanto mai ambiguo e l'uso dello stesso si è in alcuni casi trasformato in abuso. Non è qui il caso di provare a fornirne una ridefinizione, ricostruirne la filologia o proporre un compendio delle opere d'arte catalogate sotto questa etichetta, ma semmai lasciarlo alla sua accezione più letterale, come qualcosa che è stato concepito in maniera specifica per un dato luogo.
Il numero di opere site specific esposte nelle ultime biennali d'arte contemporanea è cresciuto in modo esponenziale. Opere che si caratterizzano per uno stretto legame con l'ambiente che le ospita dal punto di vista fisico, architettonico, ma anche da quello sociologico, con gli artisti che soggiornano nei luoghi dell'esposizione per studiarne l'identità e trasferirla nel progetto artistico.
Sembra sia una vera e propria tendenza anche dal punto di vista curatoriale: l'intervento sul territorio da parte dei curatori è di molto precedente l'inizio dei lavori, lo studio della situazione sociopolitica è approfondito e il tutto si riflette sulla scelta dei siti. Non più semplici edifici contenitori, ma luoghi che offrono una possibilità di dialogo tra gli artisti e la città ospitante.
È il caso dell'ultima Biennale di Istanbul, curata da Hou Hanru, o della Biennale di Berlino del 2006, quando Ali Subotnick, Massimiliano Gioni e Maurizio Cattelan, hanno fatto un lavoro di ricerca sul territorio cominciato più di un anno prima dell'apertura, scegliendo poi un'intera strada della città come vetrina della opere.
Se si può parlare di site specificity sia per l'attività degli artisti che per quella dei curatori, perché non provare ad attribuire la definizione site specific ad una biennale? Si può fare nel caso di Manifesta. Da sempre, anche per l'intrinseco carattere nomadico della manifestazione, la scelta del luogo è stata fondamentale. Territori spesso di confine, con situazioni particolari dal punto di vista sociale e politico, nei quali gli artisti hanno proposto progetti concepiti in situ dialogando strettamente con istituzioni e comunità locali. La Social Parade di Jeremy Deller a San Sebastian nel 2004 ne è forse l'esempio più eclatante.
Manifesta 7 ha ancora di più queste caratteristiche: lavori iniziati molto tempo prima dell’inaugurazione, approfondito studio del territorio da parte degli organizzatori e soprattutto da parte dei curatori. La scelta delle sedi diventa parte fondamentale dei concept, che prendono spunto dalla storia locale, dalla società e dalla situazione politica. Modalità di lavoro site specific da parte dei curatori quindi, la cui elaborazione del tema espositivo è quanto mai legato ai luoghi, al loro passato, ma anche alla loro fisicità. A partire dalla sede di Fortezza, dove il forte diventa il protagonista assoluto: il progetto a cura di Adam Budak, Anselm Franke, Hila Peleg e Raqs Media Collective, Scenarios, consiste in installazioni sonore, una serie di voci che leggono dieci testi concepiti ad hoc da scrittori, poeti e drammaturghi, invitati a riflettere sulla fortezza, sulla sua storia, sulle suggestioni che offre in quanto luogo di passaggio, di confine, prima in senso geografico e poi metaforico.
A Bolzano gli artisti sono stati invitati dai Raqs a lavorare sul tema del residuo, del recupero, della vita dopo l’estrapolazione dal ciclo originario, su come il residuo può diventare motore di significato. Il titolo della mostra è The Rest of Now (Il resto di ora). I curatori sono rimasti colpiti dalle potenzialità che poteva offrire l'ex Alumix, sede della mostra, un edificio in disuso in piena zona industriale, vecchia fabbrica di materiali metallici e testimonianza emblematica della storia della città e dei suoi cambiamenti. È il luogo che ha suggerito agli artisti le opere, diventando esso stesso opera d'arte. Il progetto di Stefano Bernardi Close Your Eyes! è un'installazione sonora che racconta la storia recente dello spazio: i rumori registrati durante i lavori di ripristino eseguiti per rendere possibile l'esposizione sono diffusi da casse sparse in punti strategici e restituiti così al luogo d'origine.
Jorge Otero-Pailos, architetto e teorico specializzato in forme di conservazione, con The Ethics of Dust ci propone l’inquinamento come fonte per lo studio del nostro passato: prima che tutte le pareti della sede bolzanina venissero pulite, attraverso un enorme foglio di lattice Otero-Pailos ha prelevato lo sporco accumulatosi dagli anni Trenta fino ai giorni nostri, per farci riflettere sul nostro passato e su quello che ci lasciamo alle spalle. Sono due esempi di lavori site specific che dipendono direttamente dall’architettura, alla quale fanno riferimento per relazionarsi con l’edificio che li ospita. Ma anche tanti altri, da Ivana Franke a Zilvinas Kempinas, hanno trovato in un angolo, in uno spazio, in un residuo della vecchia fabbrica, la loro fonte di ispirazione. Anselm Franke e Hila Peleg hanno scelto a Trento il Palazzo delle Poste come sede espositiva. The Soul è il risultato di un lavoro di ricerca partito dallo studio della storia della città e del Concilio che vi ha avuto luogo e della dottrina che ne è scaturita, spunto per un ragionamento sulla dialettica tra anima e psiche nell’Europa di oggi. Qui troviamo invece due progetti che rendono partecipe la gente del posto, le comunità locali. In In Search of Brother Keren Cytter riprende attori locali in punti di ritrovo tipici di Trento, mentre discutono di questioni etiche e religiose, il tutto trattato stilisticamente alla maniera del Neorealismo. Althea Thauberger invece è rimasta colpita dalla questione ladina. We Love the Human Idea Full of Poetry, è un'opera video e un murale che riguardano la storia recente di questa comunità montana, narrate attraverso poemi recitati in ladino dalla gente del posto.
Ma forse è a Rovereto che il dialogo con la città è più intenso. La riflessione si sposta sul tema del rapporto tra spazio pubblico e privato. Adam Budak ha concepito Principle Hope (Principio Speranza), partendo dalla teoria del “regionalismo critico” e come sedi ha scelto due edifici in disuso: l’ex Manifattura Tabacchi e l’ex Peterlini, vecchio deposito di corriere occupato dal 2002 dalla comunità anarchica della città. Argomento che ha affascinato molti degli artisti presenti: nel suo video Runa Islam prende spunto da una scritta su uno dei muri dell'edificio: “la casa è di chi la abita”, testimonianza della recente occupazione abusiva dello spazio. Miklós Erhardt and The Little Warsaw, hanno ricostruito attraverso una video installazione gli scontri legati alle vicende dell’ex deposito. La storia è stata però ambientata in Ungheria, paese di origine degli artisti, ottenendo un effetto di straniamento.
Daniel Knorr invece, con il progetto ex Privato decide di dichiarare spazio pubblico l'ex Peterlini e ne modifica lo status, aprendolo ventiquattr'ore su ventiquattro rendendolo disponibile allo svolgimento di qualsiasi attività da parte di chiunque per tutta la durata dell'esposizione. Una forma di dialogo estrema con la città e i suoi abitanti, che nello sviluppo del progetto diventano parte integrante dello stesso.
Ma non tutte le opere site specific riguardano le vicende degli anarchici: all’ex Manifattura Tabacchi Tim Etchells propone Art Flavours, lavoro incentrato sulla creazione di nuovi gusti di gelato ispirati a concetti dell’arte contemporanea, avvenuta in seguito all’incontro tra l’artista, un gelataio locale, e un critico d’arte.
Un artista che ha prodotto molti lavori site specific in passato è Christian Phillip Müller, che anche a Rovereto propone un progetto concepito dopo una delle sue visite preliminari alla città. Attraverso una serie di ricerche partite dal ritrovamento fortuito di un vecchio pacchetto di sigarette Phillip Morris all'interno della Manifattura, ha scoperto che Fortunato Depero aveva realizzato nel 1936 per l’azienda un carro allegorico in pieno stile futurista. A questo si ispira per il suo Carro Largo, che dalla stazione dei treni passa ai luoghi della mostra in una parata di apertura.