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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 5 Numero 18 primavera 2007



La realtà per quella che è

Cristina Natalicchio

Gillian Wearing



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


Editoriale/Editorial
Fabio Cavallucci

Apertura/Overture
Una famiglia che cambia/A Family which is changing
Ivano Bison

Progetto speciale/Special Project
Gillian Wearing. Family Monument

La famiglia impossibile/The Impossibile Family
Fabio Cavallucci

La realtà per quella che è/Reality, for what it is
Cristina Natalicchio

L’oroscopo di Gillian/Gillian’s Horoscope
intervista a/interview with Gillian Wearing di/by Denis Isaia

Rewind
Il Teatro della vita/The Theater of Life

Minime performance/Minimal performances
Fabio Cavallucci

Per un’ipotesi di lavoro/Working Hypothesis
Giuseppe Ceresi

0100101110101101.org / Allora&Calzadilla

Lara Almarcegui / Cezary Bodzianowski

Ho Tzu Nyen / Anibal López / Gareth Moore / Gianni Motti

Roman Ondák / William Pope.L / Julita Wójcik / Mario Ybarra Jr.

testi e interviste di/texts and interviews by Orietta Berlanda


Rewind
Contro l’architettura/Against Architecture
Fabrizia Endrizzi

Profili/Profiles
Cinthia Marcelle
Ricardo Sardenberg

2000 words
Maurizio Cattelan in conversazione con/in conversation with John M. Armleder

Indagini locali/Local investigations
Calendart. Un artista al mese…/An artist a month…
Lorenzo Sovilla

Mostra/Exhibition
Marco Berlanda
Renzo Francescotti

In memoria/In memory
Cesarina Seppi
Giovanna Nicoletti

Forward
Anteprima/Preview Galleria Civica
di Arte Contemporanea Trento

Musei e Gallerie/ Museums and Galleries
Mostre in Trentino-Alto Adige e Tirolo/
Exhibitions in Trentino South Tyrol and Tyrol
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Dall'umanesimo al cyborg. Per una nuova storia della pittura
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Prologo
Immaginate di uscire dalla stazione ferroviaria di Trento, avanzare attraverso la piazza che si apre di fronte, presieduta dal severo e altissimo monumento a Dante Alighieri, poi girare a destra verso lo stagno delle anatre, fiancheggiando uno alla volta il busto di Guglielmo Ranzi e il totem amazzonico in omaggio al missionario Eusebio Chini, finché all’ombra di un qualche albero secolare, adagiato sull’erba, non vi trovate a confrontarvi con un gruppo di personaggi in bronzo a grandezza naturale; sul basamento si trova inciso Family Monument.

Questi sconosciuti
Stanno lì, la “famiglia trentina media”, nella loro bruciante contemporaneità, mentre tutto attorno antenati più o meno lontani nel tempo punteggiano il parco in memoria di eroiche imprese. Per i nostri, né storia, né allori: stanno lì perché, come i personaggi di Signs..., la serie di ritratti che Gillian Wearing realizza agli inizi degli anni Novanta, hanno accettato di rappresentare se stessi, e in quanto tali di farsi rappresentare. Datato 1992-93, Signs..., che vede l’artista inglese approcciare i passanti nel frenetico via-vai londinese, chiedergli di scrivere qualcosa a loro piacimento su un foglio di carta e di posare di fronte alla sua macchina fotografica, ha acceso i riflettori della critica sul suo lavoro.
L’esperienza umana – le sue contraddizioni – costituisce per Gillian Wearing una vera e propria materia prima. La sua ricerca, instancabile, di casi umani con cui rapportarsi, in un percorso si può dire subacqueo, sotto il livello di una banalità diffusa, fa di lei un’antropologa del quotidiano. Procede empiricamente, per casi realmente esistenti. Armata fino ai denti con microfono da giornalista, videocamera e macchina fotografica, Gillian è una raccoglitrice. Affinché il banale ceda il passo allo straordinario, e si imponga agli occhi stanchi degli spettatori, l’artista ha bisogno di innescare determinate strategie di costruzione dell’immagine. Il suo lavoro infatti non si risolve mai in una presa istantanea della realtà. Rispetto alla fotografia documentaria, che sa nascondere dietro un’apparente scatto furtivo la possibilità di strumentalizzare il soggetto alla trasmissione di un determinato messaggio, è rintracciabile piuttosto una precisa presa di posizione. Signs that say what you want them to say and not Signs that say what someone else wants you to say (Cartelli che dicono quello che vuoi che dicano e non Cartelli che dicono quello che qualcun altro vuole che tu dica) – questo il titolo per esteso del lavoro – si può considerare da questo punto di vista una dichiarazione programmatica. Come negli anni Settanta la narrative art di Boltanski sapeva congelare il processo di costruzione di senso in un gioco di rimandi mai risolto tra stracci di racconto e anonime fotografie, allo stesso modo qui ai ritratti fotografici non è permesso chiudersi nello stereotipo. È nelle possibili discrepanze tra la fotografia e il messaggio calligrafato sui cartelli (what you want them to say...) che è possibile generare stupore rispetto a un’immagine che altrimenti avremmo già liquidato con velocità, come siamo soliti procedere nei nostri incontri quotidiani. Ben oltre l’antropologia, il lavoro di Gillian Wearing è strumento di rivelazione; mai assertivo, non punta a categorizzare la complessità del reale, al contrario fa degli stereotipi un bersaglio privilegiato. Nel ricalibrare il processo di formazione dell’immagine all’interno di un circuito che include autore, fruitore, ma sopratutto il soggetto – e superando in questo la lezione degli anni Settanta – Gillian Wearing rappresenta pienamente quell’impegno sociale e quella propensione relazionale che negli anni Novanta attraversano globalmente il panorama delle arti visive.
Rispetto a un certo protagonismo eccentrico e a un sensazionalismo che negli stessi anni porta alla ribalta un’ondata di nuovi artisti inglesi, la nostra sembra prendere le distanze. Più che lo scherzo e la sferzata, più che l’animo provocatorio della cosiddetta – ma più che altro per approssimazione modaiola – Young British Art, con artisti del calibro di Damien Hirst o Douglas Gordon, Gillian Wearing condivide piuttosto densità concettuale e raffinatezza formale.

Still life
“Help”, “I’m desperate”, “I have been certified as mildly insane!” (“Aiuto”, “Sono disperato”, “Sono stato dichiarato leggermente pazzo!”), associati rispettivamente a un poliziotto di quartiere, un colletto bianco, un passante in procinto di fare la spesa, sono cartelli che invitano a scrutare tra i dettagli, i particolari lasciati al caso nella messa in posa, per trovare traccia di quegli stati d’animo, di un’ identità nascosta (quella autentica), che gli stereotipi tendono ad offuscare.
Un processo simile coinvolge lo spettatore di fronte al video Sixty Minute Silence, del 1996, in cui ventisei comparse travestite da poliziotti e poliziotte rimangono in posa, apparentemente immobili, per sessanta eterni minuti. Il video ha fine nel momento in cui qualcuno tra gli astanti con un urlo spontaneo interrompe il silenzio. È nei punti in cui l’immagine scricchiola – nei movimenti impercettibili a cui le comparse si abbandonano sotto la pressione di un’immobilità tanto prolungata, mentre strizzano il naso, sospirano, sistemano un piede –, nei dettagli in cui il controllo sfugge, che lo spettatore ritrova pregnanza in un’immagine che altrimenti, ad una fruizione sbrigativa, avrebbe potuto essere scambiata per un “banale” ritratto di gruppo. In maniera simile che in Signs... lo sguardo dietro l’obiettivo – dell’artista, ma in cui si identifica anche quello dello spettatore – è parte in causa e rende esplicita la sua presenza in quanto strumento di potere; quasi per contrappasso, infatti, è il rigore della divisa ad essere messo sotto controllo, sotto l’insistenza di un prolungato sguardo indagatorio.
Se pur capace di conservare la freschezza di contributi spontanei, Gillian Wearing affida la valenza estetica del suo lavoro a un perseverato rigore formale. Tanto da ricordare lontanamente strategie di costruzione dell’immagine sapienti e lente, che affondano le radici in un passato lontano. Si pensi alla natura morta ad esempio, a quella fiamminga: non erano forse i riflessi su brocche bombate, su cucchiai e piccoli specchi a rivelare la presenza dell’autore? Non era forse una ciliegia, caduca e sporgente rispetto al piano su cui troneggiava una composizione di frutta e fiori, a denunciare la fugacità della vita, a trasformare l’esuberanza in vanitas? Anche qui il senso si nasconde nel dettaglio, in ciò che sfugge al controllo.
Certo è che il concetto di controllo rappresenti un aspetto centrale nel lavoro di quest’artista. Anche quando i personaggi sono invitati ad appropriarsi dello spazio di fronte alla telecamera.
Drunk è un progetto video che ha inizio nel 1997 e comporta un lungo tempo di gestazione. Un gruppo di alcolisti, soliti campeggiare nelle strade del circondario, sono invitati a passare il loro tempo in studio, riperpretando di fronte all’obiettivo gli effetti dell’assunzione costante di alcool nell’arco di ventiquattro ore. Il montaggio delle scene girate in monocromia, su tre camere giustapposte, che alternano i vuoti che circondano i personaggi in solitudine e i pieni delle scene più concitate, sul fondo di un ambiente asettico, che della strada ripropone soltanto un sonoro sovrapposto in postproduzione, risulta un ingranaggio calibrato, nella composizione, nel ritmo e nelle durate. È attraverso una tale macchina visiva, che una categoria emarginata come questa torna a far parte del nostro campo visivo, che il linguaggio essenzialmente fisico, nonché irrazionale, con cui gli alcolisti interagiscono tra loro, risolvono sentimenti complicati, come gelosia, rivalità, senso di abbandono e rabbia, torna a mostrarsi allo spettatore come significante in sé. E il senso di malinconia mista a sconcerto che ne deriva sta forse nello scorgervi una parte di noi, da tempo rimossa, che ora torna palese a farsi riconoscere.

Pubblico e privato, questioni di identità
Per reclutare chi accetti di partecipare ai suoi progetti, invece che andar loro incontro per strada, Gillian Wearing a volte pubblica un annuncio sul giornale. Il caso più eclatante è sicuramente Confess all on video. Don’t worry, you will be in disguise. Intrigued? Call Gillian (Confessa tutto in video. Non preoccuparti, sarai mascherato. Incuriosito? Chiama Gillian) del 1994. L’annuncio funziona, coglie nel segno. Nell’intimità dello studio di registrazione, col volto coperto da maschere che Gillian ha messo loro a disposizione, molti si fanno avanti per confessare l’indicibile, ciò che ritengono altrimenti compromettente. Spesso l’artista esce dalla stanza per lasciarli soli di fronte alla telecamera. Anche in Signs... si era registrata un’onestà spiazzante nelle dichiarazioni, di fronte a un interlocutore prima sconosciuto. Qual è allora la vera identità di queste persone? Quale identità assumono una volta tolta la maschera e reimmerse nella vita quotidiana? Dello stesso anno sono i video My favourite track (La mia canzone preferita), in cui una serie di persone sono inquadrate mentre ascoltano attraverso il walkman una canzone che riproducono cantando a singhiozzi, e >(Ballando a Peckham), in cui la stessa Gillian si esibisce agli occhi sbigottiti dei passanti in una danza solitaria sulle note di una musica che scorre soltanto dentro la sua testa. Ma non è forse ciò che, nel chiuso della propria stanza, ama fare ogni teenager? È sul crinale tra pubblico e privato, tra maschera e spontaneità, in una sorta di condizione borderline generalizzata, che sembra consumarsi la questione dell’identità individuale. La maschera quindi in questo caso non gioca tanto un ruolo di nascondimento, ma è uno strumento che rivela, capace di ripristinare un contatto con il sé più autentico.
Il lavoro di Gillian Wearing non nasce per assecondare il narcisismo imperante che caratterizza la nostra era, in cui l’autorivelazione è diventata un’industria; ma piuttosto intende far sembrare quest’urgenza un qualcosa di strano. Come una sorta di psicoterapia collettiva ci permette di osservare, e quindi di comprendere, la nostra ossessione a mostrarci in pubblico senza che ci sentiamo colpevoli.

Storie di famiglia
Avventurarsi alla scoperta del privato non può prescindere dall’incappare in comuni, se pur complesse, dinamiche familiari. I lavori che Gillian Wearing dedica alla famiglia mostrano in particolare un certo grado di artificiosità, forse proprio a fronte della natura viscerale, spesso inconscia e quindi di difficile comprensione, delle dinamiche relazionali che la caratterizzano. Il video 10-16 del 1996, ad esempio, racconta le vicissitudini, l’inquietudine, le perplessità rispetto al futuro di alcuni adolescenti, attraverso le loro voci, che doppiano una schiera di attori adulti, catturati nella cornice della rispettiva quotidianità; similmente, in 2 into 1 dell’anno successivo, in cui il doppiaggio intreccia non solo le voci di una madre con quelle dei propri figli gemelli, ma anche un sincero punto di vista sui rispettivi familiari, della madre sui figli – “sì certo, a volte mi fanno disperare!”, esce dalla bocca dei due – e dei figli sulla madre – “si veste come una vecchia!”... si vede pronunciare dalle lebbra di lei. Questo scambio di ruoli non fa altro che mettere in luce ed esacerbare l’effettivo isolamento dei personaggi: anche in questo caso, rapporti troppo familiari per essere compresi con discernimento, vengono messi a nudo, rovesciando verso l’esterno spazi immaginari individuali, che tipicamente il ménage quotidiano mantiene impermeabili l’uno all’altro.
Non siamo distanti, con lo scambio di ruoli, dal mascheramento che Confess all in video proponeva come mezzo per recuperare un contatto con il sé più profondo. Certo è che nel momento in cui è la stessa Gillian Wearing a misurarsi con la propria storia personale, la maschera prende piede a tutto campo. Dal 2001 l’artista lavora a una serie di autoritratti di grande formato, Album, che realizza a partire da vecchie fotografie dei suoi familiari, colti – ai suoi occhi – nello splendore di momenti carichi di ottimismo. Attraverso maschere in lattice appositamente realizzate, parrucche, protesi e costumi, Gillian indossa letteralmente le forme di sua madre, poi di suo padre, di sua nonna, di suo nonno, di sua sorella, di suo fratello, di suo zio materno, e infine di se stessa adolescente. Soltanto gli occhi, che spiccano per una diversa intensità, ma uguali in tutte le fotografie, tradiscono un’opera di maniacale trasformismo. Attraverso un coinvolgimento totalizzante e allo stesso tempo azzerante dell’identità individuale, la discendenza genetica è vissuta qui come un fenomeno alchemico, ricco di mistero, in cui somiglianza e diversità, identità e alterità assoluta, vengono a coincidere. Dietro la nostalgia per un’empatia totale, si intravvede la consapevolezza di una distanza incolmabile.
Più che in altri casi i lavori sulla famiglia rivelano una connivenza, ora implicita, ora esplicita con il linguaggio televisivo di programmi che hanno furoreggiato in Inghilterra negli anni Settanta, gettando le basi per il successo della reality television negli anni Novanta, come il documentario Seven Up! attualmente in corso, che segue l’evoluzione di quattordici ragazzi appartenenti a diverse classi sociali, raccogliendo una loro intervista ogni sette anni, o ancora The Family, serie documentaria che ha registrato la vita quotidiana delle famiglia Wilkins. Alla figura di Heather Wilkins, la più giovane delle figlie, Gillian Wearing dedica il suo più recente progetto, Family History, un complesso intreccio tra autobiografia e storia della televisione. In un set televisivo contemporaneo, intervistata da una popolare presentatrice della televisione inglese, la Wilkins ormai adulta racconta del suo rapporto con la notorietà, di come il programma abbia inesorabilmente influenzato la sua vita. Nella stanza accanto, allestita come una casa inglese anni Settanta, una piccola Gillian Wearing guarda The Family attraverso un monitor in bianco e nero e vede Heather, in cui si identifica come un surrogato di sorella.
In questa sofisticata contrapposizione che segna il passaggio dal documentario fly-on-the-wall, considerato l’antesignano della reality television, in cui, proprio come una “mosca sulla parete”, la troupe si muove nella maniera meno intrusiva e l’occhio della telecamera segue i personaggi e le situazioni dettagliatamente, e dall’altra il reality contemporaneo, votato al narcisismo, che porta i protagonisti a confrontarsi con spirito di sfida in situazioni fuori dalla norma, si ritrova non solo una rivisitazione del concetto di celebrità, ma anche una nota nostalgica rispetto alla possibilità di cogliere la realtà “per quello che è”.

Epilogo
Chissà se di fronte a quel monumento pubblico, dedicato a “perfetti sconosciuti”, ci accapiglieremo a rintracciarne la storia nei dettagli che mostreranno... Che vestiti porteranno, quale taglio di capelli (magari “andava qualche hanno fa...”)… Si potrà evincere dal loro aspetto che abitudini hanno, se legate alla città o alle valli circostanti? Quale sarà la differenza di altezza tra Lei e Lui, quanti anni avrà avuto Lei al tempo del primo figlio... Ma se è un lavoro di Gillian Wearing, allora è nell’eternità del monumento, nel controllo della forma, che la flagranza della rappresentazione, irrimediabilmente immortalata nel bronzo, acquisterà il suo senso.