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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 4 Numero 17 autunno-inverno 2007



Il teatro della vita. Performance e azioni nei luoghi dell'organizzazione

Cristina Natalicchio

Performance nel mirino. Intervista a Sabine Folie, Jens Hoffmann, Carlos Jiménez, Jessica Morgan, Hanna Wróblewska, June Yap



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


EditorialeEditorial
Fabio Cavallucci

MostraExhibition
Aernout Mik

Normali disastri quotidiani/Average Daily Disasters
Fabio Cavallucci

EventiEvents
Il teatro della vita/The Theater of Life

Performance nel mirino/Performance Under Scrutiny
intervista a/interview with Sabine Folie, Jens Hoffmann, Carlos Jiménez, Jessica Morgan, Hanna Wróblewska, June Yap

di/by Cristina Natalicchio

0100101110101101.ORG/Ben Devis

Allora&Calzadilla/Jessica Morgan

Lara Almarcegui/Carlos Jiménez

Cezary Bodzianowski/Julia Leopold

Ho Tzu Njen/June Yap

Anibal López/Carlos Jiménez

Gareth Moore/Jens Hoffmann

Gianni Motti/Michele Robecchi

Roman Ondák/Jessica Morgan

William Pope.L/Sabine Folie

Julita Wójcik/Julia Leopold

Mario Ybarra/Jens Hoffmann

DibattitiDebates
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EventiEvents
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Rewind
Cinema Infinito/Neverending Cinema

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Roman Ondák
Good Feelings in Good Times
2003-05, Platform Garanti Istanbul
Courtesy Tate Collection, London

Gianni Motti
Roland Garros
Paris, 2004
Courtesy the artist

Allora & Calzadilla
Under Discussion
2005, video still
Courtesy the artist

Quattro domande aperte rivolte ai curatori de Il teatro della vita sono solo il primo passo di quello che, si spera, può diventare un dibattito pubblico sulle effettive potenzialità analitiche della performance rispetto al tessuto relazionale in cui quotidianamente ci troviamo immersi.
Uffici, fabbriche, l’Università, l’ospedale, la stazione, i pub e i negozi, in sintesi i luoghi della vita diventano campo di indagine sociologica. Come? Attraverso la proposta di artisti che da tutto il mondo approdano a Trento e con progetti di natura performativa si mescolano al pubblico ed ai normali fruitori di questi spazi, sperimentandone un uso sovversivo e differente.
È Il teatro della vita che dagli spazi della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, nel corso della mostra dedicata alle installazioni video di Aernout Mik, si espande negli spazi della città, coinvolgendo più che gli apparati architettonici, le sue componenti immateriali, la fitta trama di relazioni che ne garantisce il funzionamento, che assegna ruoli distinti ai suoi abitanti, che ne misura il grado di coesione o tensione sociale.
Gli artisti invitati a partecipare al progetto, a cui sono dedicate le pagine a seguire, sono individuati da un’équipe di curatori, rappresentanti delle più importanti istituzioni internazionali legate all’arte contemporanea: Gianni Motti (Svizzera) e William Pope.L (USA) per Sabine Folie, capo-curatrice alla Kunsthalle di Vienna, Gareth Moore (Canada) e Mario Ybarra Jr. (USA) per Jens Hoffmann, direttore del CCA Wattis Institute of Contemporary Arts di San Francisco, Anibal López (Guatemala) e Lara Almarcegui (Spagna) per Carlos Jiménez, giornalista di “El Pais”, Allora&Calzadilla (Puerto Rico) e Roman Ondák (Slovacchia) per Jessica Morgan, curator alla Tate Modern di Londra, Cezary Bodzianowski (Polonia) e Julita Wójcik (Polonia) per Hanna Wróblewska, vice-direttrice della Zachęta National Gallery di Varsavia, Ho Tzu Njen (Singapore) per June Yap, Deputy Director dell’ICA di Singapore, a cui si aggiungono 0100101110101101.ORG (Italia) ed Aernout Mik (Olanda), selezionati dal direttore della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, Fabio Cavallucci, ideatore e coordinatore dell’iniziativa


INTERVISTA

Cos’è per te la performance?

Sabine Folie: Performance significa mettere in atto un’azione, o da parte dell’artista stesso o da parte di qualcun altro, in un contesto stabilito o indefinito, non importa se il risultato finale è il lavoro in sé o piuttosto la sua documentazione fotografica o video, nel qual caso escludendo la reazione del pubblico. La messa in scena, anche se in modo deliberatamente non posato, apparentemente non intenzionale, è cruciale. Il corpo in movimento, la trama o il gesto immortalato possono costituire il punto di attenzione principale, a seconda del tipo di performance che viene realizzata.

Jens Hoffmann: Tradizionalmente il termine descrive una presentazione dal vivo di un’azione da parte di un individuo o di un gruppo di persone di fronte al pubblico.
Fino ad oggi il termine è stato associato sopratutto a un tipo di lavoro nato durante gli anni Sessanta e primi Settanta, un periodo che può essere descritto come l’età d’oro della performance. Ma come molti altri mezzi che rientrano nelle arti visive, la performance si è sviluppata ulteriormente e si è espansa fino a comprendere oggi una larga varietà di pratiche che spesso si collegano con altri media, come il cinema, la scultura, il suono, ecc.
Carlos Jiménez: La performance è un tipo di rappresentazione senza copione, palcoscenico, attori né pubblico precedentemente stabiliti.

Jessica Morgan: Per me è molte cose all’interno del mondo dell’arte: potrebbe essere una mostra, un lavoro, un evento, ma in particolare possiede una certa temporalità (potendo il tempo variare dall’istantaneo al geologico).

June Yap: Le definizioni sono problematiche, ma non per questo superflue. Ciò che oggi viene considerato performance ha un carattere piuttosto inclusivo. L’arte performativa può essere descritta come ciò che viene originato dalla performance (nel suo senso più ampio); non è definendo le sue caratteristiche che si identifica la performance, la performance infatti si rivela là dove le due componenti – gli spazi, le impressioni, i testi – emergono dal compimento del suo accadere.
La performance stessa, quella che viene eseguita, comprende perciò molto più della somma delle sue componenti, nel senso che nessuna di queste è in grado di contenerla (ma possono semmai descriverla in un secondo momento).

Hanna Wróblewska: La performance è qualsiasi tipo di azione o evento, creato o puramente concepito dall’artista in un certo spazio o luogo, che a volte coinvolge soltanto se stesso/a, o il proprio corpo, a volte anche il corpo o la presenza di altri. La performance crea spesso forti connessioni emozionali tra l’artista, i collaboratori e il cosiddetto pubblico, partecipanti o spettatori che siano.


Pensi che la ricerca in campo performativo sia attuale nel contesto di oggi?

S.F.: La performance è una forma espressiva assolutamente attuale. Il corpo non è superfluo, come si dichiara negli anni Novanta, al contrario è il campo di battaglia per tutti i tipi di questioni che sono fondamentali nell’arte di oggi. Il teatro è un genere sempre più artificioso, antiquato e manierista, e ha bisogno di freschezza; allo stesso tempo la performance sta assorbendo sempre di più figure retoriche dal teatro, ma anche dall’iconografia tradizionale delle arti, anche antiche; basti pensare, per esempio, ai Pathosformel di Aby Warburg, più che mai attuali. L’atto performativo comporta una certa densità esistenziale, come una ripresa al rallentatore, un’attenzione particolare sul flusso delle immagini. È la comunicazione, e non l’isolamento, ad essere importante nella performance, dal momento che ci spinge a giudicare, differenziare, prendere parte.

J.H.: Se si intende il termine “ricerca” all’interno della vasta tipologia di attività e pratiche associate alla performance, allora certamente penserei che è attuale, specialmente dal momento che il termine stesso “performance” è così indeterminato e che una definizione più chiara aiuterebbe probabilmente la comprensione del suo significato più ampio. Ma, per essere onesti, non sono sicuro di cosa intendi esattamente…di che tipo di ricerca stai parlando?

C.J.: Non penso che sia particolarmente attuale, per il fatto che oggigiorno la gran parte dei programmi mediatici e delle attività culturali – incluse ovviamente le attività artistiche – tendono ad essere o a presentarsi come performative. Se però è concepita come forma libera di azione e di espressione, la performance oggi è meno presente di quanto si potrebbe immaginare, perché la sua presenza dipende dalla nostra capacità di accettarla, in questa forma più radicale. Performance oggi può essere un altro termine per dire libertà.

J.M.: Se consideriamo la profusione in anni recenti di opere che guardano alla storia della performance o dei lavori che si basano sull’azione dagli anni Sessanta in poi, certo sembra che sia così.
Si registra da un lato il fascino per l’immaterialità dell’opera, su cui si basa la performance, dall’altra per il suo potenziale di intervento e di sotterfugio che permette un incontro inaspettato con l’arte e con le idee in generale.

J.Y.: Si, certo, e non semplicemente perché tutti noi continuamente “performiamo”, in quanto parte della nostra esistenza, ma piuttosto perché la ricerca nel campo della performance è un tentativo di cambiare punto di vista e può essere perciò illuminante quando finisce per comunicare molto più di quanto non cogliamo nell’immediato.

H.W.: Si, è una ricerca attuale, ma tanto quanto qualsiasi altra forma d’arte. O quanto qualsiasi altro approccio concettuale all’arte.


In che modo la performance ci è utile nel comprendere meglio la vita, il sistema organizzativo di cui facciamo parte?

S.F.: La performance mette in moto, di solito, il corpo con tutte le sue espressioni emotive e l’emozione è concepita come veicolo di intuizioni e percezioni sia razionali che irrazionali. Il corpo è una realtà innegabile, imprescindibile – come sappiamo dalle brillanti analisi di Deleuze e Foucault – all’interno di tutti i tipi di sistemi, di controllo e disciplinari; costituisce perciò la questione centrale per il potere, la sottomissione, la violenza, l’amore, ecc. La performance, in maniera particolare, può guidare la parte emozionale che è in noi, collegata a sentimenti di paura, amore, compassione, crudeltà, ecc, nella misura in cui gli interventi dei performer, spesso drastici e minimali, sono capaci di catapultarci dentro noi stessi; e questo è importante in un mondo in cui sentirsi toccati non è quasi più possibile.

J.H.: Ne Il teatro della vita, di cui si sente parlare spesso, tutti, davvero tutti, sono “performer”, che recitano entro regole e disposizioni convenzionali, fondate su codici culturali, politici e religiosi. L’arte della performance spesso aiuta a percepire meglio quelle strutture della vita altrimenti invisibili, in maniera da permetterci di riflettere su quello che stiamo facendo effettivamente in questo mondo.

C.J.: La performance in effetti offre una buona opportunità di indagare e mettere in discussione il nostro modo di vivere – finora dominato da una razionalità strumentale – a scapito dell’apparenza caotica promossa dalla pubblicità e dai media.

J.M: Probabilmente accade nello stesso modo in cui molte altre forme d’arte offrono questo tipo di consapevolezza, che si avvera attraverso un’analisi dello stutus quo e una comprensione critica, nel tempo, del nostro presente.

J.Y.: La riflessione intorno al particolare nell’universale e nell’onnipresente è un mezzo per provocare e riconoscere ciò che altrimenti rimane inesplorato. Ogni atto performativo è un momento in cui il potenziale e l’accidente si incontrano criticamente. La sua particolarità comunque è di includere la partecipazione del pubblico, che è il frangente più prossimo a questo tipo di incontro. La performance può aiutare a comprendere meglio la vita, nel prolungare la durata di un momento o innescando un trasporto emotivo, qualcosa che anche i buoni libri sanno fare, ma che – come la lettura – non attrae necessariamente tutti.

H.W.: E se non aiutasse per niente? E se invece “disturbasse” la comprensione? Forse sarebbe perfino meglio…


Pensi che la performance sia capace di reinterpretare o addirittura trasformare uno spazio?

S.F.: La performance, e l’arte in genere, può rivelarsi estremamente inutile rispetto ai mezzi di “asservimento” del corpo offerti dalla nostra società, ma una cosa la può fare: cambiare un poco il clima culturale e forse anche il senso del tempo, o per un periodo più lungo la percezione di sé e quella degli altri.

J.H.: L’utilizzo dello spazio è ovviamente determinato dallo spazio in sé e dalla sua destinazione, ma anche dal modo in cui viene utilizzato. Questo rapporto procede in entrambe le direzioni, e può essere aggiustato o alterato in ogni momento.

C.J.: Sì certo. Lo spazio non è un oggetto, ma è sempre il prodotto di un’attività. La performance trasforma sempre lo spazio in uno spazio della performance.

J.M: Sì, ma non necessariamente più di altre forme d’arte. Quello che di solito si attribuisce ai lavori di stampo performativo fa riferimento più alla trasformazione delle circostanze e della comprensione di sé, che dello spazio.

J.Y.: Gli spazi raramente sono privi di significato, perfino gli spazi vuoti, anche se attraverso la performance il loro significato può essere dilatato fino a dischiudere limiti ed eccessi. Lo spazio a questo punto si assolve dalla sua identità consueta e prende un altro significato, a volte piuttosto radicale e allarmante, dal momento che il corpo combatte con questi confini. Lo spazio risulta quindi trasformato sia per il performer che per il pubblico: la sua condizione è resa mutevole, tattile e densa, viene influenzato dalla performance, anche se sottilmente, e a volte completamente reinventato. Quanto alla trasformazione dello spazio… dipende; dovrebbe coinvolgere gli effetti del tempo.

H.W.: Sì, ne è capace, ma questo non è un aspetto importante. Piuttosto l’arte ha a che fare con un processo, e non con un risultato.




Sabine Folie è capo curatrice dal 1998 alla Kunsthalle di Vienna. Ha pubblicato numerosi saggi e cataloghi dedicati all’arte contemporanea, al femminismo e alla politica culturale delle migrazioni, portando inoltre a compimento alcune ricerche sulla cultura ebraica.

Jens Hoffmann è stato curatore al Nordic Institute for Contemporary Art di Helsinki, al Kunst-Werke di Berlino e direttore del dipartimento mostre all’ICA di Londra. Attualmente è direttore del CCA Wattis Institute of Contemporary Art a San Francisco.

Jessica Morgan è curatrice alla Tate Modern di Londra. Precedentemente è stata capo curatrice all’ICA di Boston, dove ha seguito numerose mostre, tra cui le personali di Olafur Eliasson e Marlene Dumas; ha lavorato inoltre al Museum of Contemporary Art di Chicago ed al Worcester Art Museum. Nel 2005 è stata nominata curatrice anche del Reykjavík Art Festival.

Carlos Jiménez è scrittore, storico, critico d’arte, curatore indipendente e corrispondente per “El Pais”. È autore, tra l’altro, di Extraños en el paraíso. Ojeadas al arte de los 80 (1993), Los rostros de la Medusa. Estudios sobre la retórica fotográfica (2003) e di Retratos de memoria (2005). Nel 2005 ha curato, con Fabio Cavallucci, la personale di Santiago Sierra alla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento.

Hanna Wróblewska è curatrice e dal 2001 vice direttore alla Zache,ta - National Gallery of Art a Varsavia. Nel 2004 ha curato, assieme a Fabio Cavallucci, la mostra personale dell’artista Katarzyna Kozyra alla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento e, nel 2006, The Impossible Theatre, con Sabine Folie, alla Kunsthalle di Vienna.

June Yap è Deputy Director e curatrice all’ICA di Singapore. Fra i progetti realizzati nell’ambito contemporaneo e dei media ricordiamo Interrupt and Twilight Tomorrow al Singapore Art Museum, e The Second Dance Song all’Institute of Contemporary Arts di Singapore.