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Stile Arte (2006-2011) Anno 14 Numero 132 maggio-giugno 2010



La dolce vita delle cose morte

Enrico Giustacchini

Intervista a Stefano Arienti



Approfondimenti d'arte e di storia della cultura per “leggere le opere”dell’arte italiana ed europea


SOMMARIO 132

LA SCOPERTA: Giorgione, nei Tre filosofi il segreto dell’universo 4

CONTEMPORANEA: Stefano Arienti, la dolce vita delle cose morte 18

NOVECENTO: Ennio Morlotti, l’emozione cosmica 22

SETTECENTO: Poker d’assi 26

ARTE & LETTERATURA: San Giovanni in mongolfiera 30

LA MOSTRA: Italia, sei un mito 34

CONTEMPORANEA: Paola Gandolfi, sotto la pelle 36

CONTEMPORANEA: Roberto Almagno, il legno e il segno 39

CINQUECENTO: Cane di un Vasari 40

ICONOGRAFIA: Un pugnale in mezzo agli occhi 44

LIBRI: Enrico Giustacchini, dialogo con i maestri 46

TRECENTO: Stefano, il pittore che lasciava tutti a bocca aperta 50

TECNICHE: Facciamo uno strappo 54

CONTEMPORANEA: Gualtiero Marchesi, l’arte nel piatto 58

STORIE D’ARTE: Come ti smonto il capolavoro 60

ICONOGRAFIA: Il sangue dolcissimo di Cristo 65

CONTEMPORANEA: Andy, il violoncello fluorescente 66

CONTEMPORANEA: Maria Cristina Carlini, Icaro vola in America 70

IL QUADRO, LA STORIA: Questi non sono i coniugi Arnolfini 72

L’AGENDA DELLE MOSTRE 76

ARTE & EROS: Auguste Rodin: Oh, languide carezze 80
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n. 129 novembre-dicembre 2009

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n. 128 settembre-ottobre 2009


Stefano Arienti
I nomi di Ciserano, 2001
particolare

Stefano Arienti
(ph Nanda Lanfranco)

Intervista a Stefano Arienti, uno dei protagonisti dell’arte contemporanea del nostro Paese.
Le sue opere nascono dal dialogo costante con il mondo degli oggetti, raccolti, collezionati e trasformati in strumenti di espressione creativa

Arienti, il suo rapporto con le immagini è un rapporto assai particolare. La percezione viene alterata mediante un processo inventivo, al fine di reinterpretare le immagini stesse secondo un linguaggio assolutamente peculiare.
Io mi faccio affascinare dalle immagini. Mi affascinano, soprattutto, le immagini degli oggetti. Oggetti d’ogni tipo e d’ogni genere. Libri, stoffe, poster, buste di plastica, tappeti, elenchi telefonici, diapositive, mattoni, cartoline, lastre di polistirolo, fumetti, vetri, statuine, pietre, palline di gomma…
Oggetti da raccogliere, da collezionare. Per poi riutilizzarli nelle mie opere.

Questi oggetti sono da lei incanalati verso nuove strutture formali, assumendo così anche diverse ed inedite valenze. In tale contesto, il frequente ricorso a materiali già usati e recuperati ha un significato preciso?
Nel mio lavoro affronto le cose immergendomi nel ciclo completo delle stesse, considerandone i differenti stadi. Non mi interessano quindi solo le cose nuove, perfette, ma pure, e forse persino di più, quelle consumate dal tempo e dall’uomo. Immagino infatti i miei interventi creativi come un dialogo ininterrotto con la materia, anche colta nella sua trasformazione. Ed il ricorso ad oggetti usati è, di conseguenza, piuttosto frequente nei miei interventi proprio per questo: perché tali oggetti si stanno trasformando, e perciò sono congrui alla mia poetica.

Spesso lei si affida, nelle sue opere, allo strumento della catalogazione, delle liste, degli elenchi. Può spiegarci da dove nasce questa propensione?
La considero un’estensione della mia formazione, vicina al mondo della scienza. Fin da piccolo, inoltre, amavo catalogare e collezionare. Reputo tale metodologia uno strumento di conoscenza e di approccio alla realtà. In questo caso non c’è da trasformare nulla, si tratta di individuare gli oggetti che possono entrare a far parte di una determinata lista, sulla base di caratteristiche comuni. Un processo che giudico peraltro importante come quello della trasformazione.

Molti degli oggetti che lei propone nelle sue creazioni sono volutamente incompiuti, e comunque modificabili dallo spazio o persino dal pubblico, a cui è consentito di “intervenire” sull’opera.
Non credo che un’opera debba per forza rimanere immutabile. Ritengo invece che possa godere di uno status più aperto, che possa interagire con il pubblico o cambiare anche in relazione all’ambiente: come se fosse, insomma, un organismo vivente.

Nell’interessante saggio critico che le ha dedicato Camilla Pignatti Morano nella monografia edita da Electa (collana Supercontemporanea, 108 pagine, 19 euro) si accenna alla presenza latente, all’interno di una produzione per tanti versi così seducente, del dramma. Un binomio - quello dolcezza-drammaticità - che “non è da ricercare solo nei soggetti ma è anche evidente nei materiali utilizzati e nelle tecniche applicate su di essi”. E’ d’accordo con questa interpretazione?
Preferisco lasciare aperte le chiavi di lettura del mio lavoro. Il pubblico dev’essere libero di interpretarlo come meglio crede. In ogni caso, che vi si ritrovi una sottile ambiguità di fondo non può che farmi piacere.

Sono ricorrenti, nelle sue opere, i rimandi ai maestri della pittura del passato. Ecco, ad esempio, il poster della Stanza ad Arles di Van Gogh su cui lei è intervenuto con sovrapposizioni di plastilina; ecco il “negativo” delle Ninfee di Monet realizzato perforando l’immagine del dipinto con un ago; ecco le scatole contenenti cartoline con riproduzioni di quadri famosi; ecco il trasferimento di disegni di Michelangelo sulla superficie di gruppi di mattoni accatastati. Che cosa rappresentano, per lei, i grandi artisti di un tempo?
Sono persone che purtroppo non ci sono più, ma che ci tengono compagnia e continuano ad ispirarci e ad insegnarci molte cose. E ciò, per un artista di oggi, è bello e consolante.

Lei ama effettuare su immagini preesistenti elaborati interventi di vario genere: tagli, buchi, cuciture, ricami, aggiunte di materiali. Possiamo definire tutto ciò una forma di “pittura”?
In effetti, io mi considero più un pittore-disegnatore che, non so, uno scultore-plasmatore, o un autore concettuale o performativo, o altro. Sì, questa è una semplificazione che accetto.

Quali sono, tra gli artisti del nostro tempo, quelli che più l’hanno influenzata?
Probabilmente quelli che ho incontrato a Milano negli anni in cui diventavo, a mia volta, un artista. Citerei quattro nomi: Corrado Levi, Luciano Fabro, Alberto Garutti e Amedeo Martegani. Non necessariamente si è trattato di un’influenza diretta, anzi, talora ne sono stato influenzato addirittura per contrasto. Ma ognuno di essi ha rappresentato molto per me, per la mia formazione.

Che cos’ha in programma Stefano Arienti per il futuro?
Ci sono tante cose che ribollono. Io non mi pongo mai delle mete precise. Importante, per me, è continuare a lavorare conservando lo stesso divertimento, lo stesso entusiasmo che mi hanno accompagnato sino ad ora. Tra i progetti più immediati, mi piace comunque segnalare la mia partecipazione alla mostra milanese Terre vulnerabili, in cantiere dopo l’estate all’Hangar Bicocca.