AI MAGAZINE Anno 4 Numero 42 agosto 2010
Tra performance, opere immateriali e installazioni temporanee:la nuova arte dell'effimero.
Il corpo dell'arte sta subendo modifiche radicali. Così radicali da coinvolgere le discipline più diverse, dall'estetica al restauro, dalla psicanalisi alla chimica, all'ecologia militante. E non parliamo del "materiale" che gli artisti usano, già passato nel tritacarne teorico durante il secolo scorso (argomento che si avvia verso un'annata di trionfi poveristi). Quella che sta venendo meno, andando verso la smaterializzazione, è proprio la consistenza dell'opera d'arte. Una mutazione che si allarga alla sua maneggiabilità, commerciabilità, collezionabilità, e - se tutte queste parole esistono - ricordabilità.
Prendiamo i "Monumenti effimeri" che danno titolo a un bel libro (di Barbara Ferriani e Marina Pugliese, Electa 2010): installazioni fatte di pane, di cioccolata, di bucce di cipolla, di caramelle che i visitatori si mangeranno, di uova d'insetti che si schiuderanno, di sculture di sangue sottozero che al primo blackout si scioglieranno, di squali e mucche in formalina che marciranno, anzi l'hanno già fatto. Ma anche esperienze-monumento che vivranno solo nella memoria di chi le ha vissute, come le Unilever Series della Tate Modern, i toboga di Carsten Höller e il pianeta assolato di Olafur Eliasson, se non c'eri non puoi sapere.
Effimero è Anselm Kiefer, che si sgretola a ogni spostamento, a ogni nuova mostra, e celebra la storia oscura del secolo breve con opere dense al punto da non poter resistere a nuove guerre. Effimero è Matthew Barney, con le sue terrificanti e irripetibili messinscene. Ma l'esempio più calzante tra quelli documentati nel libro è Coma, un lavoro di Alexander Brodsky del 2001: "in una grande vasca di zinco, una città composta da centinaia di piccoli edifici in terra cruda viene lentamente sommersa da olio nero che cola da taniche di plastica". Un'opera in mutazione continua, che non "succede" mai due volte nello stesso modo, e pone gli stessi interrogativi di una performance.
Ecco, la performance. Dato che per sua natura sceglie di far dominare la dimensione temporale, non dovrebbe entrare in questo discorso sulla consistenza dell'opera. Eppure le recensioni contrastanti della personale di Marina Abramovic al Moma (intitolata The artist is present, ma lei pare ci fosse molto poco) aprono la strada a nuovi dubbi sulla "durata" del carisma.
Accanto a chi si è attenuto alla glorificazione standard della Regina della performance, si è alzata la voce di chi si è chiesto: che senso hanno queste donne nude che non sono Lei, questi sguardi che non sono il Suo, che mostra è una mostra celebrativa di un'artista protagonista che ti concede solo il sostituto della protagonista?
A ben guardare, in realtà, la performance art come l'abbiamo conosciuta sino ad oggi non è catalogabile come corpo effimero, o addirittura immateriale, perchè la maggior parte dei performer documenta con dovizia le sue azioni: per quanto temporanee e "gestuali", queste si materializzano poi in foto, video, cataloghi.
Ma una nuova generazione è all'opera. I nuovi campioni dell'immaterialità sono sostenitori dell'impatto zero, che annullano la loro "carbon" e "non-carbon" footprint e sfidano la partecipazione dello spettatore tanto quanto la pazienza dei curatori e la fiducia dei collezionisti. Il Golden Boy di oggi è il pacatissimo eco-artista Tino Sehgal, che non scrive, non fotografa, non riproduce, non stampa, non prende l'aereo, vive in una comune (ma ogni tanto sua moglie va a riprenderselo e lo porta a casa) e trasmette le sue performance solo per via orale: fa un casting, sceglie personalmente gli interpreti, spiega loro in cosa consiste l'opera, e li trasforma così nei depositari del suo valore. Un valore che i collezionisti sono però disposti a riconoscere e pagare, e molto, anche se tutto quel che riceveranno è una spiegazione sussurrata. Il suo pioniere è stato Douglas Huebler, al motto "Il mondo è già pieno di oggetti più o meno interessanti, non voglio aggiungerne altri".
Un discorso simile, carta riciclabile a parte, l'ha portato Ian Wilson nei capannoni di Unlimited, a Art Basel, dove a giugno ha tenuto ogni giorno due discussioni a porte chiuse (primo partecipante l'entusiasta curatore della Serpentine Hans Ulrich Obrist) per poi rilasciare un semplice certificato di partecipazione. Costo dell'operazione per l'acquirente, 18mila dollari. Nello stesso capannone persino Bill Viola ha presentato un lavoro che impensierisce perchè abbandona ogni figurazione e vira decisamente verso l'astratto, l'impercettibile, l'assente. Stesso effetto cercato da Anthony Gormley, scultore del corpo umano fino a ieri, che nell'ultima personale a Londra si è messo a sperimentare con le geometrie e gli inganni della visione.
Non a caso gli esperti di mercato di Art+Auction hanno deciso che è venuto il momento di classificare gli artisti "uncollectible", i meno collezionabili della storia. Insieme a Huebler, Sehgal, Wilson e Gonzalez-Torres (quello delle caramelle) vi compaiono anche Dan Flavin (in copertina anche del libro Electa) e Sol LeWitt, il cui lavoro viene venduto sotto forma di istruzioni e diagrammi per il montaggio, cui si aggiunge l'elenco dei "montatori" autorizzati.
Ma cosa ci dice sul nostro tempo, e sulla fiducia nel futuro, un'arte che sempre più sceglie di essere impermanente, o accetta senza combattere la propria rapidissima biodegradabilità? È un modo di mettersi al centro di un dibattito o uno stratagemma per evitare il confronto con l'eternità?
Quest'epoca fatta di arte che c'è e non c'è, che ora c'è ma tra poco sparisce, e chi la vede è bravo, si può leggerla in tanti modi.
Con il cinismo di chi la s(otto)valuta confrontandola con altre arti, altre epoche, fatte di fatica, di tecnica, di perizia, di qualità e di talento, di incarognimento filosofico contro la mortalità stessa nostra e di ciò che facciamo.
Oppure con il romanticismo lieve di chi a Natale regala alla fidanzata un rotolino di carta che dice: ho dato il tuo nome a una stella. E chissenefrega se quella stella non la vedi nemmeno con il Celestron, per me tu sei lì, in un firmamento ideale dove l'unica materia che conta è quella di cui son fatti i sogni.
Infine, la si può considerare, e studiare, per quello che è, un punto interrogativo, un passaggio periglioso sul ponte sospeso della storia dell'arte. Inno alla precarietà di tutto ciò che è giovane e senza campioni, senza passato e perciò incamminato verso il futuro con il più scettico dei sorrisi.