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Espoarte Anno 12 Numero 70 aprile-maggio 2011



Mario Cresci

Luisa Castellini

Dalla camera “oscura” alla camera “chiara”.



Contemporary Art magazine


SOMMARIO ESPOARTE N. 70 (aprile – maggio 2011)

New Media Art #3 a cura di Chiara Canali
Gremlins # 2 a cura di Mattia Zappile
Esercizi di Stile # 2 a cura di Luisa Castellini
Pensieri Albini # 3 a cura di Alberto Zanchetta

INTERVIEW
Marina Abramović intervista di Luisa Castellini
Moataz Nasr intervista di Marta Casati
Mimmo Paladino intervista di Gabriele F. Sassone
Peppe Perone intervista di Francesca Di Giorgio
Mario Cresci intervista di Luisa Castellini
Collezione Pappalardo, Catania intervista di Anita T. Giuga

GIOVANI
Alessandro Roma di Silvia Conta
Antonio Cugnetto di Viviana Siviero
Giorgio Guidi di Rosa Carnevale
Ettore Frani di Matteo Galbiati
Adalberto Abbate di Laura F. Di Trapani

TALKIN’
Robert Gligorov di Alessandro Trabucco
Tamara Kostianovsky di Ginevra Bria
Max Papeschi di Elena Baldelli

PREVIEW
Tony Oursler, PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, intervista di Chiara Canali
Vito Acconci, Galleria Fumagalli, Bergamo, di Matteo Galbiati
Robert Pan, Galleria Goethe, Bolzano, di Oriana Bosco
Valie Export, Museion, Bolzano, di Silvia Conta
Jerry Uelsmann, PaciArte Contemporary, Bescia, di Ilaria Bignotti
Suspense. Sculture sospese, Ex3 Centro per l’Arte Contemporanea, Firenze, di Matilde Puleo
Tony Cragg, Kunst meran / Merano Arte, Merano (BZ), di Silvia Conta
Alberto Savinio, Palazzo Reale, Milano, di Rosa Carnevale
Roberto Coda Zabetta, PAN – Palazzo delle Arti di Napoli, Napoli, di Beatrice Salvatore
Jota Castro, Umberto di Marino Arte Contemporanea, Napoli, di Sissa Verde
John McCracken, Castello di Rivoli (TO), di Ginevra Bria
Michelangelo Pistoletto, MAXXI, Roma, di Daniela Trincia
Mariana Ferratto, The Gallery Apart, Roma, di Angel Moya Garcia
Luca Maria Patella, Galleria Maria Grazia Del Prete, Roma, di Laura Fanti
Roberto Pugliese, Studio La Città, Verona, di Sissa Verde
Aldo Damioli, AndreA Arte ContemporaneA, Vicenza, di Francesca Di Giorgio
Enzo Forese e Mimmo Iacopino, Colossi Arte Contemporanea, Brescia, di Ilaria Bignotti
Bert Stern, Barbara Frigerio Contemporary Art, Milano, di Ilaria Bignotti
David Stewart, Artema Arte Contemporanea, Modena, di Chiara Serri
Nadia Galbiati, Leo Galleries, Monza, di Ilaria Bignotti
Zaelia Bishop, Galleria Ingresso pericoloso, di Laura Fanti
Maurizio Carriero, Galleria d’Arte Il Castello, Trento, di Chiara Canali
Daniele Girardi, La Giarina Arte Contemporanea, Verona, di Elena Baldelli
Marco Demis, GiaMaArt studio, Vitulano (BN), di Elena Baldelli

RUBRICHE
No man’s land, speciale editoria per l’infanzia parte I, a cura di Viviana Siviero
BooksBox, Superheroes – COLORS #80, intervista a Erik Ravelo a cura di Francesca Di Giorgio
Editoria, contributi: Ilaria Bignotti, Rosa Carnevale, Francesca Di Giorgio, Matteo Galbiati
Progetti&Dintorni Bros. Squaraus. Colore dal corpo, intervista di Igor Zanti
Guendalina Salini, Segreto Manifesto di Daniela Trincia
Motion of a Nation, di Viviana Siviero
Il mercoledì di Espoarte (il meglio di), Marcello Morandini intervista di Matteo Galbiati
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

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Chiara Serri
n. 88 aprile-giugno 2015

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Cildo Meireles
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n. 84 aprile-giugno 2014

Beatrice Pediconi
Chiara Serri
n. 83 gennaio-marzo 2014


1) “Vedere attraveso”, Pisa 1997
stampa digitale, cm 105x105
Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia

2) “Restaurato 01”, Matera 2010
stampa digitale, cm 73x105
Courtesy Verba Volant

3) “Autoritratto mosso”, Barbarano Romano 1978
stampa ai sali d’argento, cm 30x40
Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia

«Una foto sola non mi basta mai» mi racconta Mario Cresci: non nega l’appartenenza alla propria generazione, cresciuta sull’indagine attenta e intessuta in progetti ordinati in serie ma guai, oggi, a parlargli di quella progettualità che ha coltivato per anni. Alle spalle le precoci sperimentazioni negli anni ’60, l’attenzione alle forme, l’amore per il paesaggio e la rivelazione della cultura materiale di quel Sud mai dimenticato: da tempo Cresci, allergico alla ripetizione, rivolge il suo sguardo all’interno. A luoghi specifici dal potenziale simbolico ma come ieri non per raccontarli: per condurre a viverli. Nel suo percorso, dove l’arte è sempre stata il milieu eletto di confronto, ogni elemento è confluito naturalmente in una sintesi che trova nell’opera, intesa in senso ampio, l’esito più alto e intenso dell’uomo, emblema del suo anelito alla permanenza ma non dimentico della propria fragilità. Il tutto vissuto attraverso il continuo mettersi alla prova, anche con le possibilità che la tecnologia offre. Per non essere la citazione di se stesso e perché il digitale non “solo” ha modificato gli orizzonti operativi e metodologici degli autori ma lo stesso sguardo...


Luisa Castellini: Da alcuni mesi sei impegnato in un grande progetto itinerante che ti ha già condotto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e che oggi approda a Roma, all’Istituto Nazionale per la Grafica, per poi riportarti a giugno a Matera. Come nasce questa avventura?
Mario Cresci: Il progetto nasce da un’idea del Soprintendente della Pinacoteca Nazionale di Bologna, Luigi Ficacci, con l’intento di porre in dialogo le collezioni del museo con il contemporaneo. La nuova generazione di soprintendenti si sta impegnando per avvicinare le persone all’arte con uno sguardo meno statico. Il mio progetto, Forse Fotografia, si articola in tre atti che rispecchiano altrettanti orientamenti della mia ricerca: l’arte, la traccia, l’umano. Ciascuna delle sedi accoglie un excursus di miei lavori storici ma, soprattutto, uno o più interventi site-specific nei quali impiego video, luce e fotografia in sinergia. Negli ultimi tre anni ho iniziato a lavorare nei luoghi dell’arte in senso ampio: il primo è stato la Pinacoteca dell’Accademia Carrara a Bergamo, dove mi sono concentrato su alcuni dipinti del Lotto e del Moroni. Così a Bologna, nella Pinacoteca Nazionale vicinissima all’Accademia di Belle Arti, ho lavorato in relazione alle opere esposte con animazioni video sugli affreschi di Vitale e interventi fotografici su alcuni dipinti del Reni e su dittici medievali di particolare rilevanza. Ho cercato di attraversare in punta di piedi la storia dell’arte del passato lasciando alcune tracce della mia presenza.

Nella tappa romana, con Attraverso la traccia, rifletti sul disegno e usi la fotografia come mezzo di rivelazione innestando una sorta di parallelo con i procedimenti di stampa…
Mi relaziono con la vocazione del luogo, l’Istituto Nazionale per la Grafica, e uso la fotografia pensando alle sue origini, al suo essere “scrittura di luce” linguaggio della visione che proviene dal pensiero e dallo sguardo sul mondo per ricrearne altri diversi e non veritieri. Anche a Roma continuo a pensare che la fotografia è per me un continuo pretesto per creare altri mondi lontani e diversi dalla realtà. La traccia non è solo quella segnata dalla luce del fotografico ma è anche materia, la matrice della stampa calcografica (nata nel laboratorio di Nicéphore Niépce, non a caso geniale stampatore calcografico). Ho così deciso di usare la fotografia sulla materia delle tracce, quella delle lastre di rame originali incise a mano da Piranesi e Morandi, usando la luce per svelare i segni che si rivelano allo sguardo a ogni minimo spostamento. La fotografia ne rivela la vitalità producendo immagini positive e negative tra loro alterne. Ho poi realizzato un disegno animato proiettato all’ingresso della mostra, dove su una grande parete la luce si interseca gradualmente con i segni reali dei disegni stampati al torchio su carta cotone. Qui i segni di luce e i segni tracciati dagli artisti si relazionano in un dialogo visivo di grande fascino.

A concludere, ma solo per il momento, questo progetto che forse toccherà anche Milano, Genova, Venezia e Bari, il ritorno a Matera con Attraverso l’umano: come hai scelto di agire qui, dove hai vissuto per quasi vent’anni?
A Matera sarà presente una grande sezione storica affiancata da un lavoro concepito ad hoc tra le mura del grande Laboratorio di Restauro. Ho già iniziato a lavorare in questa sorta di ospedale dell’arte, dove confluiscono opere rovinate dal tempo o massacrate dall’incuria e dai terremoti. Sono opere amate, che danno vita a un luogo che da sempre mi affascina: una sorta di paradigma di un’umanità che deve essere curata. Per questo a Matera non ho scelto i Sassi o gli abitanti ma ancora una volta l’interno di un luogo, altamente significante.

I tuoi interventi site-specific compenetrano immagine, video e luce: l’uomo di oggi ha bisogno di tecnologia per fruire pienamente l’opera d’arte?
In Italia i musei sono invecchiati e gli storici dell’arte più attenti se ne sono accorti da tempo. Non si può più percepire pienamente l’opera senza supporti, informazioni e visualizzazioni che ne agevolino la lettura. La multimedialità non deve mancare: le persone sono abituate a percepire velocemente, anche in modo superficiale se vogliamo, e quindi c’è bisogno di innovazione, di un impegno culturale volto a condurre verso l’opera in un’ottica differenziale e non “solo” didattica. La fotografia aiuta molto la lettura, la trascrizione dell’opera: l’immagine traduce l’icona al pari dell’interprete con un brano di letteratura. Non si tratta di sovrapporre se stessi o la propria visione ma di forgiare un’idea di conoscenza dell’opera stessa.

La tecnologia, in primis il digitale, ha aperto nuovi orizzonti metodologici alla fotografia ma ancor prima ha mutato il regime scopico dei suoi fruitori. Quali sono le possibilità della fotografia, più o meno orfana del suo negativo, nell’era dello Streaming?
Spostare l’attenzione dagli autori ai fruitori aiuta a comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Molti artisti e ancor più fotografi sono affezionati alla camera oscura, alla mitologia dell’analogico. All’estero il conflitto analogico-digitale è stato assorbito dagli autori e dal pubblico: cultura e industria conducono all’accelerazione percettiva. La fotografia non è più sentita quale icona del passato ma quasi come un procedimento artigianale. Non credo che la camera oscura, trasformandosi in camera chiara, abbia perso o possa smarrire la propria identità, anzi. Ma credo che diventerà come il laboratorio di stampa: un luogo antico, artigianale. La fotografia analogica diventerà come il dagherrotipo, che quando ha perso la propria funzione sociale cedendo il passo al negativo si è trasformato in un oggetto prezioso. Personalmente mi sento proiettato verso la tecnologia con tutte le sue teorie e possibilità: non voglio essere lo stereotipo di me stesso e per lavorare ho bisogno di cambiare e sperimentare. Il digitale permette maggiore velocità di azione e verifiche continue: questo significa che la mente, la fisicità sono sempre sollecitate, vivificate da prove, contraddizioni e successi.

Il tuo rapporto con l’arte è sempre stato molto forte, forse più stretto che con il mondo dei fotografi o sbaglio?
Ho sempre riscontrato una certa disparità per intensità e libertà di ricerca tra il mondo dell’arte, che impiega anche la fotografia, e la fotografia tout court, diciamo di matrice bressoniana. Questo è stato un momento straordinario: la nascita del fotogiornalismo, dell’approdo teorico, ma appartiene al passato. Pensare in quei termini oggi è fuorviante: a volte, di fronte ad alcuni reportage, se non fosse per gli abiti o l’ambientazione, la sintassi dell’immagine si rivela ancora ancorata a un modello che involve su se stesso.

Nella tua ricerca hai sempre evocato una matrice fenomenologica: cosa ne resta oggi?
La mia generazione è quella di Merleau-Ponty, di Gombrich: io mi sono formato attraverso le discipline del Design che ho dirottato in quelle della fotografia. Tra gli anni ’60 e ’70 ho cercato di coniugare la cultura assorbita al Nord – fatta di modelli: fenomenologia, strutturalismo, Bauhaus – a quella del Sud, dove ho vissuto quasi vent’anni. In questa situazione non c’erano modelli astratti ma uomini, creatori a loro volta di modelli, benché differenti. Fotografare un oggetto significava, naturalmente, guardare non solo le mani che l’avevano costruito ma anche alla storia e alle scienze sociali, all’etnografia e all’antropologia in particolare. Tornato al Nord, come direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo e in ogni mia attività, ho coniugato quella lunga esperienza vissuta nel Mezzogiorno con il rinnovato interesse per l’arte, gli artisti e la scuola. Due mondi e due culture che si incontravano in questa mia doppia emigrazione a distanza di molti anni. Gli studi sul pensiero fenomenologico mi sono serviti per comprendere le culture cosiddette popolari e queste per umanizzare la progettualità di un freddo razionalismo che trovavo insopportabile per i miei interessi nel sociale. La contemporaneità (termine difficile da accettare facilmente) richiede una cultura flessibile per cui, ad esempio, osservo con interesse il lavoro dei giovani artisti che non accettano acriticamente la storia e i dogmi del fotografico, spogliandolo di quanto di antico e retorico vi alberga ancora per farne lingua viva.

Credi quindi in un ruolo sociale dell’arte?
Ho sempre pensato all’artista come a un depositario di privilegi di varia natura, che può e deve essere parte viva nella società, entità non più unicentrica ma aperta agli altri; non più “ombelico del mondo” fuori dalla retorica del suo isolamento spesso malamente giustificato. E forse questa è la ragione per cui in ognuna delle mie attività, dalla ricerca all’insegnamento fino alle più recenti indagini visuali, non mi piace definirmi “artista” e nemmeno “fotografo”. Preferisco definirmi, se me lo chiedono, come una persona che desidera comunicare in senso creativo pensieri, immagini, opere e comportamenti alle altre persone senza le quali non potremmo vivere e rendere visibile il nostro immaginario. Non so se questa è arte ma è certamente voglia di vivere.


MARIO CRESCI

Mario Cresci è nato a Chiavari nel 1942. Ha indagato le potenzialità del linguaggio fotografico verificandole con le metodologie della ricerca artistica contemporanea. Dalle indagini di carattere antropologico sulla cultura materiale del Mezzogiorno della fine degli anni ’60 alle più recenti ricognizioni sullo specifico linguistico della scrittura fotografica e sull’ambiguità della percezione visiva, ha teorizzato e praticato la contaminazione tra le diverse discipline espressive. Fra le pubblicazioni: Le case della Fotografia 1996-2003 (Torino, GAM, 2003); Variazioni impreviste (Verona, Colpo di fulmine, 1995); Basilicata: immagini di un paesaggio imprevisto (Roma-Bari, Laterza, 1983). Fra le mostre più recenti: Mario Cresci e Paolo Mussat Sartor (Brescia, Galleria Massimo Minini, 2009); Alterazioni, a cura di R. Valtorta (Cinisello Balsamo, Museo di Fotografia Contemporanea, 2007). Ha partecipato ad alcune edizioni della Biennale di Venezia.


Eventi in corso e futuri:

Progetto itinerante Forse Fotografia:

Attraverso la traccia

Istituto Nazionale per la Grafica
Palazzo Poli, via Poli 54, Roma 25 marzo – 5 giugno 2011

Attraverso l’umano
Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna, Matera
18 giugno – 18 settembre 2011