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Lettera internazionale Anno 27 Numero 107 maggio 2011



Madonne e demoiselles

Claudio Strinati



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 107

Il corpo e il potere


Soma, Paul Valéry
Paul Valéry e il corpo pensato, Benedetta Zaccarello
La scoperta dell’individuo, Ernst Kantorowicz
Il terzo corpo del politico, Paula Diehl
Ancora sull’11 settembre…1789, Franco Farinelli
Lo spettacolo dell’eguaglianza, Giacomo Marramao
La fine della privacy, Felix Stalder
Homo-silicium, David Le Breton
Il Signore degli scacchi e il computer, Garry Kasparov
Le tre scritture dei corpi, Camille Dumoulié
Erotica del corpo sociale, Fabio Tolledi
Corpi: vuoti a perdere, Pilar Calveiro
Il godimento totalitario, Eduardo Subirats
Popoli esposti, popoli figuranti, Georges Didi-Huberman
Lo sguardo dell’altro nell’immagine di sé, Abdelkebir Khatibi
Madonne e demoiselles, Claudio Strinati
La verità nascosta di Orfeo, Slavoj Žižek
Dialoghi tra musica e mito, Elio Matassi

I Libri
a cura di Francesco M. Biscione, Dario Gentili, Saverio Verini

Gli artisti di questo numero
Beatrice Pasquali, Flor Garduño, Zbgniew Libera, Chris Sacker
A cura di Aldo Iori
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Vivere nel deserto greco
Victor Tsilonis
n. 120 ottobre 2014

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Marin Sorescu
n. 119 giugno 2014

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Giuseppe O. Longo
n. 118 marzo 2014

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Karim Metref
n. 117 dicembre 2013

Operazione gemelle
Habib Tengour
n. 116 luglio 2013

Occhi rubati
Mahi Binebine
n. 115 maggio 2013


Beatrice Pasquali
Dorothy's map, 2010

Flor Garduño
Hoja elegante, 1998

Chris Sacker
1:1/Caratteri anatomici (con S. Bonacci), 2006

Si tratta di una contrapposizione facile ma, se dovessimo indicare un elemento per marcare la distanza abissale tra l’età classica e il Medioevo, sarebbe quello del nudo. La statuaria classica, greca e romana, ha un vastissimo settore di corpi nudi, maschili e femminili; il Medioevo conosce solo figure sacre rigorosamente, e sovente protocollarmente, abbigliate. Certo, alcune iconografie tipicamente medievali implicano l’ostensione di parti del corpo femminile, come nel caso della Madonna allattante visibile in un’enorme casistica di statue lignee e pale d’altare diffuse un po’ in tutto l’Occidente cristiano. Ma è chiaro come il Medioevo abbia scartato radicalmente due tipologie di rappresentazioni implicanti entrambe la nudità e caratterizzanti il mondo classico: lo sport e il mito.


Il corpo nudo: una bellezza valida in sé

Lo sport riguarda eminentemente il nudo maschile, e il mito quello femminile, ma con le debite eccezioni. Venere, la dea dell’Amore, è il soggetto della nudità femminile per antonomasia. Trova il suo vertice nell’età classica periclea, si articola in vari prototipi in cui il modello della bellezza femminile, florida e concentrata sull’ammirazione della parte superiore del corpo, assume la forma di un emblema cui attingeranno le generazioni future; mentre la statua dell’Atleta ha sviluppi anche successivi, specie in età ellenistica. Alcuni atleti dalla muscolatura abnorme, quasi culturisti, come il Torso del Belvedere, anticamente appartenuto allo scultore Andrea Bregno e ora al Vaticano, hanno nutrito l’immaginario di tanti artisti rinascimentali, specie quelli di orientamento omosessuale. Ne sono scaturiti modelli che non hanno mai abbandonato l’iconografia e la mentalità occidentali. L’uomo è muscoloso e ardimentoso, anche se il membro è per lo più piccolo e in stato di riposo per non turbare l’armonia delle articolazioni in cui risiede l’essenza della fascinazione fisica. La donna è prosperosa, non ha gambe particolarmente belle e presenta un aspetto complessivo fortemente arrotondato. Il sedere è scarsamente tonico. Non è sexy secondo i parametri attuali. Ma sono questi i prototipi su cui nascerà l’immagine della bella donna del Rinascimento e del Barocco, vigente, con alterne vicende, fino alle origini del cinema muto. L’idea, che si direbbe ovvia, del collegamento indispensabile tra bellezza e sensualità esplicitamente ostentata, non appartiene al mondo antico in cui domina il principio che la bellezza del corpo nudo è valida in sé, sulla base di forme canonicamente consacrate, e il fascino emanato dal corpo non è ulteriormente rappresentabile. Sembra incredibile ma è così. Il concetto di sex appeal nascerà molto più tardi in ambiente francese intorno alla corte di Luigi XIV, il Re Sole (dopo essere trapelato già nella Firenze medicea del Cinquecento), quando si fa strada sempre più e sempre meglio l’idea che il corpo vestito possa essere ben più attraente e desiderabile di un nudo immediatamente ostentato senza passaggi intermedi – e tanto più l’abito aderisce alle forme del corpo, tanto più carica di sensualità l’approccio sessuale.


Un nudo casto, pudico e asessuato

Nella stagione estrema del Medioevo, le rappresentazioni del corpo nudo appaiono con relativa frequenza negli ambienti più liberi e intellettualmente avanzati, come nella Venezia tra il XIII e il XIV secolo. I capitelli esterni del Palazzo Ducale contengono figure ispirate a episodi cruciali della storia sacra in cui il nudo assume piena dignità e si manifesta nella sua castità. È lo stesso pensiero di uno dei più grandi scultori europei del Trecento, l’autore dei mirabili bassorilievi esterni del Duomo di Orvieto con le storie del Giudizio Universale. Qui, e siamo alla metà del Trecento, assume spicco incredibile la rappresentazione di un nudo casto e pudico che ha un’efficacia straordinaria nell’economia generale della raffigurazione. È sia maschile che femminile, ma l’autore, di solito identificato non senza dubbi in Lorenzo Maitani, uno dei celebrati maestri del Duomo, non sottolinea le differenze, proprio perché inventa una tipologia universale del nudo, congruente con l’idea del Giudizio finale e della resurrezione dei corpi. Un principio cui si atterranno Luca Signorelli da Cortona, quando rappresenterà, all’aprirsi del Cinquecento, la stessa situazione della valle di Giosafat, e lo stesso Michelangelo Buonarroti nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, eseguito una quarantina d’anni dopo.
Il nudo in qualche modo asessuato era già stato al centro della creatività di uno dei più grandi pittori europei della fine del Quattrocento, Hieronymus Bosch, che aveva creato tutta una serie di opere esemplificative del grande movimento spirituale promanante dai cosiddetti “Fratelli della vita comune”, un movimento di mistici dei Paesi Bassi ispirato all’idea del ritorno alla purezza primordiale del dettato cristiano e a un regno di utopia dove mostri e fantasmi dell’orrore convivevano con le più intime e delicate aspirazioni dell’essere umano, inconsapevole nell’oscillazione tra bene e male, tra razionalità e istinto. Nei capolavori di Bosch, il nudo è formulato con la delicatezza e il garbo sovrano di un demiurgo dell’arte che crea una sorta di “Truman Show” ante litteram dove la rappresentazione della vita è tutta inventata e dove la rappresentazione delle cose è totalmente immaginaria, ma le persone raffigurate sono vere e convincenti e l’assurdo che tutto travolge è descritto con la logica dell’ovvio, del regolare e del quotidiano.
Erano ormai vicini i tempi di Erasmo da Rotterdam, dell’Elogio della Follia e dell’idea della nuda verità che è ciò che tutti cercano, ma che nessuno riesce a vedere, quasi che la formulazione del corpo nudo sia un deterrente per la visione e la conseguente comprensione dei misteri dell’esistenza.
Non si può raffigurare il nudo se non privandolo di ogni malizia e implicazione deviata perché ciò ingenera vergogna, e la vergogna è il primo effetto del peccato originale: Adamo ed Eva, avvicinandosi alla conoscenza del Bene e del Male attraverso l’atto trasgressivo e rimproverati da Dio, si vergognarono e, da quel momento, le parti intime del corpo sono state definite “vergogne” in vari idiomi.
Ma perché ci si dovrebbe vergognare del corpo nudo? La logica che presiedette all’Isola di Wight, a Woodstock e alla rivoluzione dei figli dei fiori, che implicava la nudità intesa come contatto con la dimensione naturale dell’uomo, è più o meno la stessa filosofia dei nudisti di tutte le latitudini e di tutte le culture. Ma l’idea che ne è alla base è teologico-filosofica: il corpo nudo è il miglior simbolo della Verità e infatti Apelle, il mitico pittore greco, l’artista sovrano dell’antichità classica di cui nulla resta, raffigurò la Verità come un nudo splendente e castissimo nel suo capolavoro detto la Calunnia. Ma la Calunnia nessuno l’ha mai vista. È descritta, però, da varie fonti antiche e così Botticelli, nella Firenze medicea della seconda metà del Quattrocento, intrisa di cultura platonica e del mito della grecità ritornata, provò a fare lui, il quadro di Apelle, e l’opera magnifica si conserva oggi agli Uffizi e viene chiamata la Calunnia di Apelle. Botticelli è un personaggio cruciale in questo percorso, perché è il primo artista italiano che abbia affrontato seriamente il problema di rifare la pittura antica. Botticelli è Apelle – direttamente. Non un imitatore, essendo impossibile imitare ciò che non si conosce. Ma è un clone perché riproduce radicalmente un linguaggio che inventa lui stesso pensando che quel linguaggio sia l’Antico in sé e per sé. I sommi capolavori di Botticelli, venerati in tutto il mondo, come la Nascita di Venere o la Primavera, sono quadri dell’antica Grecia rinati sotto i nostri occhi moderni e fatti come li avrebbe fatti Apelle. Dunque Botticelli era abilitato a rifare, anzi a fare direttamente, le opere dei grandi maestri greci di cui ci parla Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia ma che non vedremo mai.
Botticelli fece fronte a una catastrofe storica. Nessuno ha mai visto un quadro di Apelle, quindi è la parola di Botticelli contro quella di chiunque. La Calunnia è il quadro greco per antonomasia, e il nudo è un faro di luce e una purissima sigla figurativa senza profondità e senza spazio, come la Venere nella mirabile Nascita, anch’essa agli Uffizi. Con cognizioni piuttosto vaghe della pittura vascolare greca e del poco che restava della pittura su muro degli antichi romani, Botticelli individua il vero linguaggio degli antichi in cui predomina la linea sottile che definisce e quasi scolpisce la figura, privandola però di peso e di ingombro spaziale. La nudità è quella spontanea di una cultura che non connette malizia a nudità. Naturalmente era un convincimento errato e utopico. Certo che dentro la cultura greca e romana c’era la malizia sessuale sovente spinta a estremi pornografici e aggressivi! Ma nell’immaginario pittorico di Botticelli la pittura antica è intatta e intoccabile. Per dare un’idea plausibile e concreta di tale intoccabilità, Botticelli aveva inventato l’incomparabile stile che continuerà ad affascinare sempre la pittura occidentale fino a Matisse, a Modigliani, a Basquiat, a Keith Haring.
Il corpo pesante e opprimente che costituisce un gravame benedetto e maledetto insieme è quello michelangiolesco, e la contrapposizione Botticelli-Michelangelo è forse da considerare come uno degli snodi decisivi dell’intera storia dell’arte occidentale. A sua volta, Michelangelo aveva connessioni con il mondo spirituale e filosofico che risaliva a Bosch attraverso il sommo pittore fiorentino Piero di Cosimo, l’inventore del nudo arcaico, delle storie dell’origine dell’Umanità, l’indagatore del mito nel suo aspetto crudo e ferino. Perché il corpo nudo contraddistingue civiltà estranee al processo di affinamento preteso dall’Occidente. I popoli profanati dai conquistadores nelle lontane Americhe erano descritti dai primi viaggiatori come primordiali e vicini a una natura selvaggia e magica. Erano nudi ma la loro nudità si profilava come ferina. Andavano eliminati, nell’ottica della conquista totale, e andava cancellata quella dimensione del corpo che si collocava al polo opposto del cristianesimo. Corpo trattato come un’oscura opera d’arte, mutilato, violentato e utilizzato per sacrifici orribili, sconciamente esposto al ludibrio e alla punizione inferta da uomini modellati sul messaggio cristiano, sconvolto da usi e costumi improntati a ferocia e a cieca incomprensione. I conquistadores se ne fecero una scusa per infierire ben oltre i limiti rintracciabili nei loro obiettivi e ne scaturì il più atroce bagno di sangue che la storia possa ricordare – modello di ogni genocidio. Durante il Cinquecento, nell’arte italiana, la pittura e la scultura che eleggono il nudo a soggetto importante dilagano. Uno dei massimi pittori manieristi, il fiorentino Bronzino, crea immagini che fanno il giro del mondo e la sua Allegoria di Venere, oggi alla National Gallery di Londra, è un prototipo nella storia della pittura di nudo. Bronzino guarda una modella vera, ma la guarda attraverso il filtro delle statue greche, e della statua mantiene l’immobilità e la fissità che contrastano fieramente con qualunque dimensione di autentico erotismo che, di per sé, è una dimensione vitalistica e dinamica.


Un corpo di carne

Da Bronzino parte una tradizione che arriva fino alle inquietanti esercitazioni di Caravaggio all’inizio del secolo successivo. Ma Caravaggio non tratta il nudo femminile: in compenso, nell’Amore Vincitore della Collezione Giustiniani, oggi a Berlino, raffigura con franchezza e acume straordinari l’immagine del nudo maschile adolescenziale. Tutte le pulsioni più segrete, tutte le attenzioni più spasmodiche, si rivolgono in quella direzione. Il prototipo della statua, sempre latente nell’arte cinquecentesca, arretra, e si fa forte la sensazione che, nell’antica idea figurativa del nudo, stia per compiersi, attraverso le opere di Caravaggio, una sorta di “irruzione” della carnalità .
Per quanto possa sembrare incredibile, le due dimensioni non avevano mai marciato insieme.
In molti aspetti dell’arte greca c’è la nudità, ma non la carnalità intesa come impressione di vita latente nel prototipo immobile e immutabile della statuaria.
Ci penserà Antonio Canova, nel momento aurorale di quello che poi verrà chiamato il neoclassicismo, a coniugare queste due dimensioni in modo convincente attingendo spunti dalla grande statuaria barocca, in specie quella berniniana. Quando Canova crea l’immortale Paolina Borghese all’inizio dell’Ottocento, ha in mente le esercitazioni prodigiose del Bernini e dei suoi scolari nel corso di un secolo intero e oltre, da quando il Bernini era giovanissimo e creava, all’inizio del Seicento, capolavori come l’Apollo e Dafne.
Bernini aveva da par suo ripreso il tema della “nuda verità” che, nel corso del XVII secolo, si era evoluto in un motivo iconografico particolare, quello della Verità scoperta dal Tempo che affascinò importanti autori tra Seicento e Settecento, in Italia e in Francia. È il tema del vecchio alato, Saturno e Cronos nel contempo, mentre alza un velo che copre una donna nuda e dormiente che, a quel gesto, si risveglia. È la Verità. Un simbolo che coniuga il mito antico e la filosofia moderna, che vuol parlare del tema dell’amore e della morte. Saturno-Cronos, infatti, è il tempo ma è anche il simbolo della morte che incombe con la falce, utilizzata per la mietitura – Saturno presiede all’Autunno quando c’è la semina e la terra dorme attendendo il risveglio della Primavera; Cronos è il tempo implacabile che mangia i suoi stessi figli e quindi dona la vita e la morte con la stessa modalità di costruzione e distruzione. A questo si contrappone il corpo femminile che dorme ma che poi si risveglia proprio grazie al tempo che lo scopre. Per gli uomini del Seicento, questa dialettica dei corpi che contengono in sé veglia e sonno, giovinezza e vecchiaia, speranza e terrore, significava la quintessenza dell’arte. È l’arte con la sua fisicità, nel contempo filosofia e conoscenza, in cui consiste appunto il tema speculativo e fascinoso della verità svelata. La cognizione dell’essenza del linguaggio artistico è infatti veicolo supremo di attingimento della verità di tutte le cose, ma l’opera d’arte, nel momento della sua nascita, non è mai chiara in nessuna epoca della storia, perché ha la doppia caratteristica di rivolgersi alla contemporaneità in cui si origina e al futuro inconoscibile dall’artista medesimo che ha creato. L’arte è sempre consapevolezza suprema e inconsapevolezza latente, e quindi simboleggia sempre il concetto della Verità scoperta dal Tempo, il grande galantuomo, secondo una tipica formulazione del pensiero borghese ottocentesco.


Le furie di Picasso

Quando Picasso dipinse nel 1907 le Demoiselles d’Avignon, doveva avere ben presente questo pensiero. È l’immagine di un bordello, quindi un’immagine emblematica di un costume e di una mentalità che l’arte, in quel primo decennio del Novecento, si accingeva a affrontare. La prostituzione è centrata sull’esigenza del commercio sessuale e quindi sull’uso del corpo per la soddisfazione primaria di un impulso insopprimibile. Ma da che mondo è mondo, la fisicità della prostituta è sempre sottoposta all’ambiguità che è intrinseca alla fascinazione della bellezza del corpo. Questa, proclamata tale, sarebbe però immune alla mercificazione e al consumo perché è veicolo supremo di una disinteressata esaltazione dei sensi e quindi della matrice più autentica e sensibile dell’eticità del comportamento umano. Il Bene e il Bello, secondo la dottrina umanistica, oggi derisa e calpestata, sono inscindibili. Ma la bellezza del corpo nella prostituzione è inestricabilmente collegata all’obbedienza all’impulso, in sé eticamente neutro, ma inevitabilmente degradato e abbrutito dalla mercificazione in assenza di stimoli ulteriori e diversi. E così Picasso trasforma le signorine del bordello in idoli africani, anticlassici e forzatamente “brutti” rispetto al canone della classicità. Da qui nasceranno molti equivoci sull’arte “moderna” che prescinderebbe in tutto o in parte dal desiderio della bellezza, un’idiozia che continua a nutrire dibattiti anche di alto livello speculativo.
È l’inganno supremo e lo sberleffo storico di un figlio della Belle Époque, comico e infantile, che non vede più la bellezza del corpo ma se ne ritrae, non certo nella vita quotidiana, ma nella rappresentazione estetica, spingendo il culto del corpo nella direzione dell’artificio e del desiderio spostati su apparenze esteriori oscillanti tra l’edonismo ai massimi limiti consentiti e l’indifferenza contro ogni luogo comune.
Non che la chirurgia estetica sia nata dalle Demoiselles d’Avignon. È nata dal massimo dolore del corpo, quello conosciuto dagli studi chirurgici sui grandi ustionati, ma certi presupposti aberranti nella cognizione e nella riconquista della bellezza perduta del corpo vengono anche dalle furie picassiane, anche se i passaggi intermedi furono ben numerosi prima di arrivare, cento anni dopo, ai miti sbilenchi del nuovo millennio.

Claudio Strinati, critico d’arte e storico della musica, ha curato numerose mostre e manifestazioni in Italia e all’estero. È autore della rubrica di critica musicale del Venerdì di Repubblica. Ha scritto, per L.I., “Il lavoro nella musica”, n. 100, 2009.