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Lettera internazionale Anno 27 Numero 106 marzo 2011



Da operaio a capitale (umano)

Biancamaria Bruno

Intervista con Paolo Leon



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 106


Futuro e verità

Pensare il futuro, o dell’incertezza globale, Remo Bodei
Perseveranza della verità, Alberto Manguel


Comune e globale
Democrazie dis-avanzate, Lorella Cedroni
Adriano Olivetti, ovvero dell’etica della responsabilità,
conversazione tra Luciano Gallino, Massimo L. Salvatori e Davide Cadeddu
Da operaio a capitale (umano), intervista a Paolo Leon, di Biancamaria Bruno
Europa meticcia, Sami Naïr
Cosmopolitismo e democrazia. Da Kant a Habermas, Seyla Benhabib
Comune non comune, Jean-Luc Nancy
Beni comuni, economia e ambiente, Elinor Ostrom
Il dono pervertito. Per un’antropologia della corruzione, Marcel Hénaff
Legalità organizzata, Carlo Giuseppe Barbieri


L’ebreo e l’Altro
Boicottaggio, Marcel Cohen
Curare le parole malate, David Meghnagi
Chi porta la musica, porta la vita,
conversazione tra Daniel Barenboim e Clemency Burton-Hill
Un giorno di settembre, il mese blu…, Aldo Zargani


Gli artisti di questo numero:
Manolis Baboussis, Pietro Fortuna, Günter Demnig e gli artisti che partecipano ad Arteinmemoria. A cura di Aldo Iori



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Arteinmemoria:
Jan Dibbets
Sinagoga Ostia Antica, 2007

Arteinmemoria:
Günter Demning
Stolpersteine (Pietre d'inciampo), 2010

Arteinmemoria:
Remo Salvadori
Continuo Infinito Presente, 2007

Biancamaria Bruno – La prima questione che vorrei porti è questa: è possibile pensare che un modello come quello di Adriano Olivetti possa ancora avere un senso, rispetto a un modello capitalistico duro, post-industriale, come quello di Marchionne?

Paolo Leon – Ci sono stati due Adriano Olivetti: il primo è stato quello di Comunità, versione umanizzante di una società diretta da imprese che, immediatamente dopo la guerra, era la cultura aziendale più avanzata. Morto infatti il fascismo, l’impresa pubblica restava viva e in crescita, mentre l’impresa privata era divisa in due parti: una in difficoltà ma in crescita, perché la lira era stata svalutata, e una fondata sulla rendita, come i costruttori e gli elettrici. Olivetti si pose in una situazione diversa da ambedue queste realtà: la sua impresa non era in declino, non era fondata sulla rendita e anzi avrebbe prodotto un nuovo modello di impresa. Visto nella prospettiva di oggi, si trattava di un modello paternalistico di impresa ma, ed ecco la novità, anche pedagogico: allora, non esisteva uno Stato sociale e, per mantenere la coesione sociale in una fabbrica innovativa con cambio di tecnologie piuttosto rapido e in una zona con una propria forte identità, c’era bisogno di un intervento a tutto campo da parte dell’impresa.
Questa idea di Adriano Olivetti è durata fino a quando non si è sviluppato lo Stato Sociale, fino a quando, a partire dal 1963, l’Italia non ha deciso che dovesse essere la comunità nel suo complesso, e non una singola impresa, a farsi carico del benessere e della dignità dei lavoratori. Finalmente gli italiani diventavano europei, progressivi, e nasceva il Welfare State.
C’è voluto molto per arrivarci, e di fatto lo Stato Sociale è nato con il primo centro-sinistra, con l’obbligatorietà della scuola media, e poi, negli anni Settanta, con la sanità universale. In quel periodo, lo sviluppo dello Stato sociale è stato graduale, molto legato alla forza del sindacato, e ha reso obsoleto il modello olivettiano di cura dei lavoratori.
C’è poi stato un secondo Olivetti, che derivava sempre dall’originaria ispirazione comunitaria e che è stato di grande importanza all’epoca: di fronte al ’68 e alla contestazione operaia, la società Olivetti proponeva il suo modello delle isole, cioè del lavoro umanizzato e della responsabilità del lavoratore sul prodotto; si è creata così una sorta di ideologia di cui si è impossessata la CGIL – e Trentin in particolare – e di cui Luciano Gallino è stato il miglior interprete, anche dal punto di vista tecnico (sociotecnico, si diceva allora). Per alcuni anni, la nuova organizzazione del lavoro si è estesa, entrando anche nelle imprese pubbliche (ma non in FIAT). Questa fu una delle conseguenze della politica imprenditoriale di Adriano Olivetti che dava, così, una risposta progressiva alla contestazione operaia. Prima di Olivetti, l’operaio non era altro che un suddito della fabbrica; dopo Olivetti, non lo è stato più. Si trattò di un avanzamento interessante, ma che non è andato fino in fondo. Fu, infatti, annientato da vari fattori: in primo luogo, dalla tecnologia: il modello delle isole era quello che si sposava meglio con i cambiamenti tecnologici, ma l’automazione lo ha ucciso, non perché non potesse essere adottato anche con le isole, ma perché rendeva di nuovo molto più conveniente (e fisicamente meno stressante) la linea di assemblaggio. A questo punto, la profittabilità aziendale diventava più importante dell’avanzamento del ruolo dei lavoratori nella produzione. A ciò vanno aggiunti altri fattori: ormai siamo alla fine degli anni Settanta, le politiche economiche stanno cambiando e cessa quel patto tra lavoratori e produttori che si era creato agli inizi degli stessi anni. Il patto era determinato da una situazione inusuale che spesso non viene ricordata: i lavoratori, essendo contrattualmente forti, chiedevano salari elevati, anche maggiori dell’aumento della produttività; le imprese reagivano aumentando i prezzi, ma poiché assecondare le richieste dei lavoratori le avrebbe messe fuori mercato, sfruttavano il cambio flessibile che si svalutava, permettendo alle imprese di tornare ad essere competitive. Ci sono state due onde di questo genere negli anni Settanta che hanno fatto dell’Italia un Paese curioso, con elementi di socialismo, come avrebbe detto Berlinguer. È stato un periodo di grande progresso e di grande crescita, pur nelle tensioni terroristiche, che ha trasformato la società italiana. Questo patto si è rotto poi con Thatcher e Reagan – in Italia con Andreatta al governo – i quali, per battere l’inflazione, hanno introdotto elementi che mettevano in duro conflitto i lavoratori e l’impresa: per esempio, in Italia, la cassa integrazione generalizzata, pagata dallo Stato, diventava talmente vantaggiosa per le imprese che non c’era più ragione di praticare politiche “umane” nei confronti dei lavoratori. Così è cominciato il declino: quello del sindacato, senza dubbio, ma anche il declino della possibilità di vedere nel lavoratore qualcosa di più di un semplice esecutore. Non si era tornati al vecchio modello di fabbrica pre-olivettiano solo perché i cambiamenti tecnologici davano qualche respiro ai lavoratori, e perché i tempi e metodi di produzione ci mettono tempo per risorgere. Ed è Marchionne che li ha fatti risorgere, in sostanza, perché questi, adottati in Cina negli ultimi vent’anni, sono oggi alla base della concorrenza internazionale. Però sono tempi e metodi, che appartengono alla prima metà del secolo scorso, cose vecchie, organizzazioni improduttive nel lungo periodo, foriere di conflitto sociale.


Allora Marchionne è colui che ha portato alle estreme conseguenze un processo quasi inevitabile, era una storia già segnata…

Sì e no. Il processo comincia molto prima di Marchionne, anche perché, nel 1993, con l’accordo governo-sindacati, questi, su pressione del governo “amico”, avevano determinato la loro prossima debolezza contrattuale. È in quel momento che cominciano due cambiamenti epocali: la moderazione salariale e il precariato. Il precariato riduce il potere contrattuale dei lavoratori anche quando l’economia va bene, perché si forma un subdolo esercito di riserva di semi-occupati. La moderazione salariale rende i lavoratori non partecipi degli aumenti di produttività. Basta guardare la quota dei salari e degli stipendi nel reddito nazionale che da allora è scesa di quasi dieci punti. Ciò significa che la politica sindacale, di fronte all’indurirsi delle condizioni di politica economica, accetta lo scambio, che i sindacati pensavano fosse positivo, tra bassi salari e occupazione, ma l’occupazione che ne risulta è precaria: bassi salari e occupazione precaria determinano la peggiore situazione possibile per il sindacato. E da lì che nascono le conseguenze che oggi vediamo. Infatti, prima che la Cina diventasse un produttore mondiale di quasi tutto, si riuscivano ancora a mantenere condizioni decenti nelle grandi imprese, sia pure con un sindacato debole; ma da quando l’Estremo Oriente (e anche l’Est europeo) ha dimostrato di poter produrre gli stessi nostri prodotti con un decimo del salario, con metodi orribili di organizzazione di lavoro, si vedono due possibilità all’orizzonte: o si fa la concorrenza sulla base dell’innovazione, sapendo che non dura moltissimo perché quei paesi sono bravi e copiano tutto (ed è la stessa cosa che avvenne con il Giappone negli anni Venti, si chiamava “pericolo giallo”); oppure ci si adegua. Ma siccome adeguarsi completamente al modello cinese non è possibile, si sceglie la via mediana, cioè la Polonia, che non è proprio la Cina, ma dove i salari sono comunque molto più bassi dei nostri e non c’è nessuna difesa dei lavoratori (il sindacato ha liberato la Polonia dal comunismo, ma è stato travolto dal suo stesso successo). Marchionne ha posto un problema culturale, certo. Non potendo stare in Cina, ha deciso di stare nel punto più vicino dal quale fare concorrenza all’Estremo Oriente, e ora chiede all’Italia di adeguare la propria legislazione sulla protezione sociale, i salari, e i diritti sindacali al livello raggiunto oggi dalla Polonia.


Quindi non si tratta di una “cinesizzazione” dell’Italia, ma di una “polonizzazione”…

Sì. Quello di Marchionne è un compromesso. La superficialità della concezione di questo imprenditore si vede subito. Del resto lui è un finanziere, non un imprenditore, e del rischio ha una concezione bancaria. Pensa che se si opprimono i lavoratori sia sul salario sia nelle condizioni di lavoro, al livello della Polonia, produrrà buone macchine a basso costo: elementare! Ma non sa che produrrà macchine pessime (cosa che è già successa). La sua superficialità sta proprio nell’immaginare che la qualità del lavoro sia indifferente alle condizioni di lavoro. L’altro lato della sua cultura è che Marchionne pensa che il lavoratore sia un suddito e che, essendo tale, non abbia diritti così inalienabili come quelli che avevamo pensato dovessero avere i lavoratori in quanto cittadini – siamo lontanissimi da Adriano Olivetti. Adesso stiamo aspettando che nei prossimi dieci anni la Polonia diventi un paese prospero, con una forte presenza di lavoratori sindacalizzati, e allora noi stessi potremo riprendere la via della partecipazione dei lavoratori a un processo produttivo non stupido. C’è un altro aspetto importante da ricordare: la caduta del Muro ha avuto un’influenza decisiva. Infatti, i paesi dell’Est, insieme al comunismo, hanno rifiutato tutta la tradizione socialista, democratica e sindacalista che partiva dal 1848. È impressionante, ma è così. E prima che questi paesi ricostruiscano una cultura europea – tenendo conto che l’Unione Europa non esiste dal punto di vista dei diritti dei lavoratori, essendo basata sul principio di concorrenza – ci vorrà molto tempo. Se questo salto indietro culturale ha un effetto negativo sulla politica, ne ha uno terribile sul sindacato. In Italia, il sindacato non solo si è illuso, rendendosene conto solo troppo tardi, che una politica di moderazione nei confronti del datore di lavoro potesse essere un incentivo all’occupazione e quindi essere uno strumento per aumentare la propria forza contrattuale, ma ha subìto la concorrenza proveniente dall’insufficienza del sindacato dei paesi dell’Est europeo.


Mario Tronti afferma che l’origine dell’Europa unita sta nel piano Marshall ed è questa l’impostazione che prevale anche oggi. Secondo lui, è questa la ragione per cui l’Unione Europea è economica e non politica.

Ho un’impressione diversa. Il piano Marshall è semplicemente la traduzione del pensiero di Keynes: umiliare i vinti riduce anche il benessere dei vincitori, e perciò bisogna ricostruirli. Questo fa un’enorme differenza, perché, diversamente dalla Prima, dopo la Seconda Guerra Mondiale si spegne il revanscismo tedesco. Seconda questione, anche questa importante: si tende a fare in modo che anche in Europa, per avere la pace sociale, prevalgano condizioni di piena occupazione e ciò parte, sia pure fatto Stato per Stato, dalla liberalizzazione del commercio internazionale (in Italia, con Ugo La Malfa Ministro del Commercio Estero, fine anni Quaranta). La liberalizzazione serve ad aprire i mercati esteri all’Europa, e soprattutto a ridurre il protezionismo e l’autarchia, autentiche fucine di totalitarismo. L’America ci ha dato i fondi per ricostruire l’industria, ma noi ancora non avevamo redditi sufficienti per comprare i nostri prodotti e quindi li vendevamo all’estero, in particolare agli Stati Uniti.
Questo meccanismo dura ancora oggi: l’Europa continentale si basa su un modello di crescita fondato sull’esportazione. Il mercato comune dà luogo a un beneficio che è l’indubbia crescita europea. Tutto questo poi si trasforma in Unione Europea che rimane però sostanzialmente un’unione economica, e non diventa mai un’unione politica, perché gli Stati Uniti non hanno mai voluto un contraltare politico potente come sarebbe potuto diventare un vero Stato europeo. Durante gli anni della Cortina di Ferro, tutti i governi europei si sono adeguati a un’idea di Europa che era solo economica e, a dispetto del Manifesto di Ventotene, mai politica. Se l’Unione fosse stata infatti un’entità politica, sarebbe stata neutrale, e gli americani non volevano una potenza neutrale tra loro e l’Unione Sovietica.
Quando è crollata l’Unione Sovietica, allora sì, si sarebbe potuto parlare di un’Unione Europea, tanto è vero che è stato fatto l’Atto Unico prima e poi la moneta unica. Ma nemmeno allora si è fatto uno Stato. Tra l’altro, se si istituisce la Banca Centrale Europea che emette moneta, ma non le si mette accanto un ministro economico europeo, la Banca Europea non serve, è una mera istituzione di controllo, che svolge solo il compito della cosiddetta stabilità dei prezzi.
Vorrei rilevare ancora un altro aspetto, di solito sottaciuto: lo Stato sovrano manifesta la sua sovranità emettendo moneta e finanziando così i disavanzi degli stati. Questi disavanzi sono strutturali; è infatti inevitabile che gli stati abbiano un disavanzo, perché una parte molto considerevole della loro spesa non dà luogo a un reddito monetario (lo Stato Sociale, la giustizia, la difesa, la sicurezza); quindi, non potendo aumentare le tasse indefinitamente, è l’emissione monetaria, fatta con buon senso, che impedisce che il debito pubblico si impenni. Una volta che la Banca Centrale è diventata indipendente e autonoma – a partire da Reagan e Thatcher – tutto ciò è stato cancellato: è cresciuto il debito pubblico e gli stati si sono indeboliti.
Ma allora viene da chiedersi: nel 1989, quando gli stati sono deboli perché non potevano più finanziarsi con l’emissione di moneta, perché, nel fare l’Unione Europea, non si è fatto, insieme a una Banca centrale indipendente, un Governo europeo, anche soltanto economico? A quel punto, l’Europa, diventando sovrana, avrebbe potuto battere moneta.
Questo non è stato possibile. Così oggi abbiamo stati membri deboli senza che si sia prodotta l’Europa necessaria per fare in modo che gli stessi stati, auto-esautorandosi, formassero uno Stato europeo forte. La mia impressione è che questa evoluzione, o involuzione, derivi a sua volta da una cultura dominante che, a partire dal ’68, ha ancora paura della rivolta dei lavoratori e che comunque non può consentire che esista una forza sindacale altrettanto potente della politica, e dunque si inventa ogni strumento possibile per subordinare gli interessi e i diritti dei lavoratori. Una forma di grande repressione sociale. Anche la debolezza dello Stato nel finanziare i propri servizi è il riflesso di questa repressione. Quanto meno Stato Sociale esiste, infatti, tanto meno liberi sono i lavoratori. Apro una parentesi: tutti coloro che parlano di “nuovo welfare”, di “welfare mix”, un po’ privato e un po’ pubblico, sono inconsciamente reazionari. Lo Stato non deve provvedere, deve assicurare diritti, come dice Beveridge. A mio parere, dunque, l’indebolimento dello Stato nazionale è stato voluto, come pure la non trasformazione dell’Europa in uno Stato sovrano. L’equilibrio sociale era stato messo in grave difficoltà durante gli anni Settanta in tutta Europa e perfino negli Stati Uniti – troppo potere alle classi subalterne, avrebbe detto Gramsci – e quindi la reazione è stata forte.
Ora, con la crisi, il quadro è mutato ma la cultura dominante in economia è precisissima: Keynes è morto! Che cosa rimane? Che il debito pubblico deve essere finanziato con la riduzione della spesa pubblica. Che il risparmio è pubblica virtù, mentre è virtù privata, perché quanto più alto è il risparmio, tanto meno benessere c’è in giro. Che esiste capitale dappertutto e non più lavoro – quando tutti parlano perfino di capitale umano vuol dire che non c’è più conflitto tra capitale e lavoro.


Allora possiamo riscrivere l’Articolo 1 della nostra Costituzione…

È già stato riscritto. Chiunque parli di capitale umano sta riscrivendo la nostra Costituzione.


In tutto ciò i sindacati ce li siamo giocati e non li ritroveremo mai più…

Non completamente, grazie al cielo. Il problema del sindacato è che quando c’è un governo di destra perde, e quando c’è un governo di sinistra perde ancora, sia pure per ragioni diverse. Quindi, il sindacato deve cambiare. Faccio un esempio: quando si è trattato di definire il rapporto tra Stato e sindacato nell’impiego pubblico, che è stata una storia lunga, si è deciso che il mondo del lavoro dovesse essere unitario e che quindi il rapporto di lavoro, nel settore pubblico, non dovesse essere differente da quello del settore privato. Così, Stato e sindacato si sono messi d’accordo, firmando un contratto poi ratificato dalla legge. Ecco dunque nascere il concetto che, in fondo, il lavoro pubblico è uguale a quello privato.
Quali sono le conseguenze di una situazione del genere? Paradosso: se le condizioni contrattuali del settore privato decadono – precarietà, bassi salari – non c’è ragione che non accada lo stesso nel settore pubblico. Così, anche nel settore pubblico, il lavoratore diventa subalterno al suo padrone politico, e si sgretola la capacità dell’amministrazione pubblica di essere indipendente dal potere politico. A questo punto, interviene di nuovo lo Stato che abolisce la contrattazione e risolve tutto con l’esercizio dell’autorità. Faccio un altro esempio: un cambiamento economico importantissimo, che comincia sempre con Reagan e Thatcher e poi continua con Clinton in America e da noi, è quello che coinvolge il sistema bancario.
Il sistema bancario, da sempre, è un servizio pubblico. O meglio, dovrebbe esserlo. Perché è un sistema, appunto: è quella cosa che crea depositi dando prestiti. Una banca fa un prestito, chi l’ottiene lo spende, chi guadagna dalla spesa deposita in banca e il sistema bancario può continuare a fare prestiti indefinitamente: così la banca crea moneta, ed è regolata dallo Stato che è il sovrano della moneta. Da vent’anni ormai, il sistema bancario non esiste più. Esistono tante banche che, come imprese private, possono fare tanti prestiti quanto è il loro capitale, mentre prima il capitale era irrilevante. Come fanno le banche a prestare, se non hanno capitale? Se lo inventano, creano titoli. Ecco l’origine della grande crisi finanziaria.


Ma perché le banche hanno smesso di fare rete?

Perché non si voleva che ci fosse creazione di moneta da parte dello Stato e non si voleva che ci fosse controllo da parte dello Stato sulla creazione di moneta fatta dalle banche. Perché bisognava essere liberi! La libertà per le banche significa che la banca è uguale a qualsiasi altra impresa e quindi, come qualsiasi altra impresa, può fallire. Solo che non si può considerare la banca in questo modo perché il suo fallimento porta con sé il fallimento dell’economia, non solo di se stessa. La crisi attuale, però, non ha distrutto l’idea che si possa costruire una società liberale pura, dove lo Stato non abbia più alcuna funzione. Per tornare al nostro Olivetti, in questa nostra società non c’è nessuno come lui: l’obiettivo delle imprese non è quello di costruire prodotti utilizzando le qualità dei loro lavoratori; qui il lavoro non è che una merce, e i diritti sono frutto della ricchezza. È paradossale che il termine più usato oggi per qualificare una società sia quello di “merito”: quando il lavoro è merce, non è da lì che viene il merito. Avevano più ragione i classici a sostenere che il merito è premio a se stesso.


Quindi anche la formazione, la ricerca, la conoscenza non hanno speranza…

Conoscenza e formazione sono Stato Sociale. Se i soldi pubblici non ci sono, sono i privati che intervengono. La formazione privata è già in corso: per esempio, esiste l’ente bilaterale, che è quello che unisce sindacati e imprese per utilizzare parte del salario dei lavoratori (lo 0,3%) in progetti comuni tra imprese e sindacato. Ma quali progetti, in questa situazione, possono ricostruire un’organizzazione del lavoro come prodotto della civiltà?


A questo punto che tipo di Europa e di mondo abbiamo davanti?

La crisi non ha cambiato la cultura dominante. La crisi c’è e le classi dirigenti non la sanno risolvere perché si sono ormai impantanati in un sistema che non ha alcun equilibrio. Adesso stiamo aspettando che questo sistema dia ancora qualche contraccolpo, finché non arriva qualcuno – speravamo che fosse Obama – che sia capace di contrastare il pensiero dominante, almeno in Europa. Basterebbe che ci mettessimo d’accordo tra americani e europei per determinare un ampliamento dei diritti. Questo significherebbe che in Europa dovremmo avere una maggioranza degli stati principali volta a questo scopo. Invece per il momento si pensa a un’Europa a due velocità in cui la velocità principale è quella della Germania che, in questo momento, è nazionalista. Però il nazionalismo, in un mondo globale, non ha senso. Il problema del nazionalismo tedesco è che potrebbe portare alla chiusura dell’euro, ma questo alla Germania non conviene. Dobbiamo attenderci un cambiamento che però dovrebbe nascere proprio da lì: e non ne vedo la possibilità, oggi. Un’altra possibilità è che i sindacati ritrovino un po’ di unità. Il sindacato tedesco è sempre stato nazionalista, però. Come quello inglese. La base storica non è granché per immaginare qualcosa di veramente europeo, ma la crisi potrebbe indurre le dirigenze sindacali a capire la situazione e a mobilitare i propri membri, superando l’ostacolo rappresentato dal fatto che gli iscritti al sindacato non sono più omogenei politicamente. Se si potesse ricostruire un legame culturale anche minimo tra partiti e sindacati, allora ci sarebbe forse la possibilità che i sindacati si ritrovino, almeno a livello europeo. Come fare a evitare che la Grecia e l’Irlanda riducano il loro Stato Sociale a niente? Mobilitando appunto il sindacato che va in Europa e che afferma con decisione che questo euro non va, a meno che l’Europa non si faccia carico almeno di una parte del disavanzo dei paesi deboli. Basterebbe emettere solo un po’ di moneta in più.
L’Europa comprerebbe il debito dei paesi membri più poveri e poi direbbe a tutti che la Banca Centrale Europea si farà carico sempre di una parte del debito di tutti i paesi, perché questo è il modo in cui emetterà moneta. Sarebbe bello. Solo che il sindacato dovrebbe muoversi. E dovrebbe muoversi anche nella gestione delle immigrazioni, necessarie in Italia come in Europa per via dell’invecchiamento delle popolazioni. Perché, se si trattano gli immigrati come meteci, come è stato fatto, ci si fa del male da soli. Se il sindacato li avesse organizzati tutti, non importa se clandestini o meno, come aveva cominciato a fare la CGIL – unico sindacato in Europa – organizzandoli come i propri, allora non ci sarebbe stata concorrenza sleale degli immigrati nei confronti dei nazionali e forse i salari non si sarebbero abbassati tanto. Sono stati alcuni sindacati e la politica, forse inconsapevolmente, a consentire che in Europa si formassero fratture sociali gravissime.


Ha ragione Sami Naïr quando dice che l’Europa è sempre stata multietnica ma non è mai stata multiculturale…

Verissimo. Ma è anche vero che non si può essere tanto multiculturali da sopprimere, insieme all’Illuminismo, anche i diritti dell’uomo.



Paolo Leon è stato professore di Economia Pubblica all’Università di Roma Tre fino al 2010. Ha insegnato a Roma “La Sapienza”, alla Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione, alle Università di Venezia (IUAV), di Catania, di Bologna. È presidente dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma. Ha lavorato come economista all’ENI, all’Italconsult e alla Banca Mondiale. È stato vice-presidente dell’ENEA. È stato consulente dell’Unione Europea e, in Italia, di vari ministeri, nonché di molte Regioni, Province e Comuni. Ha co-fondato i centri di ricerca CREL, ARPES e CLES (del quale è stato amministratore delegato dal 1981 al 2001). È stato nel consiglio scientifico di Fondazioni sindacali. Dirige la rivista Economia della cultura. Scrive su riviste e quotidiani. Ha pubblicato, tra gli altri, Stato, Mercato e Collettività (Giappichelli, 2003-2007), La domanda di lavoro giovanile (con M. Vazzoler, Angeli, 1982), Economia della domanda effettiva (Feltrinelli, 1981), Sviluppo e conflitto tra economie capitalistiche (Marsilio, 1973), Sviluppo economico italiano e forza lavoro (con M. Marocchi, Marsilio, 1970), Structural Change and Growth in Capitalism (Johns Hopkins, 1967), Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica (Boringhieri, 1963).