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DROME magazine Anno 8 Numero 20 primavera-estate 2012



Donato Piccolo

Silvano Manganaro

Dalla scienza all’arte e ritorno, incontro con Donato Piccolo, per capire cosa si nasconde dietro un uragano in miniatura



arti/culture/visioni


SOMMARIO DROME magazine n. 20
- the CATASTROPHE issue



copertina /cover: Beth Hoeckel


PRÉLUDE
INTRO Jaap Scheeren, Meffre & Marchand, Giorgio Barrera, Fabrizio Giraldi

LA CATASTROFE, QUI-E-ORA / CATASTROPHE, HERE-AND-NOW by Francesco Muzzioli // FERNANDO PRATS by Antonio Arévalo // TORNADO & FLOODING by Teresa Macrì // DONATO PICCOLO by Silvano Manganaro // FRANCESCO SIMETI inspired by DROME // DUNCAN WYLIE by Tea Romanello-Hillereau // CAHIER DE CUISINE / MORENO CEDRONI curated by Sada Ranis // synusi@blog CHUN-TE // shooting DE RERVM NATVRA by Valentina Eleonora Costa CATASTROFE, O CARA / ANAGOOR / DEWEY DELL / CODICE IVAN / RICCI/FORTE / TEATRO SOTTERRANEO / PATHOSFORMEL by Francesca Cogoni // SHELTER FROM A CATASTROPHE // portfolio ALI KAZMA // ARMAND BEHAR inspired by DROME CATASTROPHE BALLET / SISSEL TOLAAS / MICHEL POIVERT / JANA WINDEREN / MASSIMO BOTTURA curated by Augusto Petruzzi // LA CATASTROPHE NELLE PAROLE / CATASTROPHE INSIDE WORDS by Barbara Polla // CHERNOBYL excerpts from Francesco M. Cataluccio // TANKOGRAD by Elena Dal Forno // CHRISTIAN BOLTANSKI by Tea Romanello-Hillereau // MAT COLLISHAW by Régis Durand // shooting THE RIDERS OF THE APOCALYPSE by Paulina Otylie Surys // METTI IN SCENA LA CRISI / THE CRISIS ON STAGE by Silvano Manganaro // SANDRO MELE by Silvia Marsano // MARTHA COLBURN by Micol Di Veroli // FESTA E CATASTROFE / FEAST AND CATASTROPHE by Daniele Vazquez // PIERPAOLO CAPOVILLA inspired by DROME // PAUL SAKOILSKY by Mike Watson // DAVID DE TSCHARNER by Laetitia Chauvin // ABBIAMO ROTTO / WE BROKE UP by Peijman Kouretchian // D SIGN by Valeria Corti // NOTE SULLA FERTILE DECADENZA ROMANA by Clara Tosi Pamphili // BLACK IS THE NEW BLACK by Mirella Longo // GARETH PUGH by Francesca Cogoni // shooting MÉLANCHOLIE DE LA FIN by Sofiane Boukhari

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Donato Piccolo photographed in his New York studio by Manfredi Gioacchini for DROME magazine

Donato Piccolo
Dream Machine, 2010
galvanized iron, silicon membrane, smoke machine, liquid smoke, led, electric motor, sensor, 150 x 130 x 130 cm
photo by Thomas Nitz
courtesy of Mario Mazzoli Galerie, Berlin

Donato Piccolo photographed in his New York studio by Manfredi Gioacchini for DROME magazine

L’artista ha sempre avuto con le macchine un rapporto complesso e, in alcuni casi, controverso. L’arte era techné e il pittore, lo scultore o l’architetto utilizzavano tutti gli arnesi disponibili per affrontare al meglio il proprio lavoro. Leonardo, addirittura, ne inventava di proprie, alcune impossibili e visionarie, altre immediatamente utili all’arte e all’osservazione (da scienziato) del mondo. Con il Novecento, la macchina - e la tecnica - si sono fatte quasi nemiche e sono diventate “celibi”, sgangherate, ostili o inquietanti, per poi tornare ad interessare l’artista nella sua forma perfetta e integrata: una tecnica che si è ormai fatta tecnologia e che una mente acuta, conoscenze specifiche e sensibilità riescono a far parlare di noi e dei nostri “tornado interiori”.

Donato Piccolo (Roma, 1976), dal suo studio di New York, ci parla del suo lavoro, di teorie scientifiche, di corpi e menti e, anche, di “catastrofi positive”.

DROME: Riguardo al tuo lavoro si è parlato di “caos regolarizzato o regola che diventa caotica”, cosa che tende a mettere in corto circuito, o comunque guardare con altri occhi, il rapporto arte-scienza. Oggi fai l’artista a tempo pieno, ma sei stato anche programmatore al CNR: come vedi la relazione tra le due discipline? Sono in realtà così distanti? La scienza, secondo te, è effettivamente portatrice di certezze come la maggior parte della gente crede? E l’arte è davvero il suo opposto?

DONATO PICCOLO: La scienza e l’arte sono sempre andate di pari passo nella storia dell’evoluzione dell’uomo, nella ricerca costante dello sviluppo umano. Il mio lavoro raggiunge risultati completamente differenti da quelli scientifici, nonostante abbia anch’esso una base sperimentale ed una curiosità di fondo che ne arricchisce i contenuti.
Stare al CNR per me non è stato un lavoro, ma uno sperimentare delle possibilità linguistiche differenti. In quel periodo ho approfondito il rapporto tra la macchina, intesa come cervello robotico comunicante, ed una logica tesa alla ripetizione dell’errore. L’errore è la parte fondamentale di un concetto per cui in una teoria scientifica c’è sempre, e deve esserci, il concetto di errore. I miei lavori prendono molte volte spunto da teorie come quella della reversibilità, per cui un elemento ritorna al suo stato originale ogni qual volta lo si mette in dubbio, o come quella del caos che tu hai citato, per cui l’ordine diventa il suo “opposto necessario”, oppure come la teoria della rottura spontanea della simmetria della natura, o la teoria Nambu Jona-Lasinio, ecc.
Tutte queste teorie sembrano appartenere ad un altro mondo, sembrano talmente distanti da non poter non solo essere capite ma neanche minimamente pensate. In realtà, sono molto più vicine a noi di quello che pensiamo perché appartengono alla nostra quotidianità, sono intorno a noi ed agiscono e reagiscono ad ogni nostra azione, ad ogni nostro spostamento, ad ogni nostro respiro, ad ogni nostro pensiero, ad ogni nostro sentimento.
Ma, comunque, per rispondere alla tua domanda, di “certezze” non si parla, non si sa nemmeno se quel che vediamo sia reale o frutto della nostra erronea elaborazione di dati. Non diamo certezze, ma creiamo parametri di pensiero che possano essere confutabili con il tempo. E di tempo per capire questo, per la verità, ne utilizziamo molto.

D: Il tuo interesse per i fenomeni fisico-naturali, la tempesta, l’uragano… mi fa pensare a forze distruttrici che tu tendi a riprodurre e imbrigliare. Cosa ti interessa di questi fenomeni e perché replicarli “in laboratorio”? Da cosa parti?

DP: Guardando fuori troviamo quello che in fondo è dentro di noi. Le forze della natura sono la manifestazione esterna di quello che accade nella nostra mente. Ciò che distingue questi due aspetti, come pensava il filosofo Brentano, è l’intenzionalità, l’idea che la coscienza sia sempre intenzionale. Una tempesta, un uragano, un tornado, una raffica di vento, un maremoto, riprodotti all’interno di un determinato spazio sottolineano il contrasto tra la coscienza umana e l’ordine delle cose. I presupposti dell’arte, in fondo, sono quelli di entrare più profondamente dentro le cose, di liberarsi di stereotipi visivi e filtri che ostacolano la visione del mondo. Perciò, il termine “replica” dei fenomeni non è del tutto appropriato, perché questi non sono più fenomeni naturali, ma diventano sculture di aria, forme create da particelle di gas, ed è, in un certo senso, come giocare con la materia, capirne la composizione e scomporla, rendere un’opera immateriale ma nello stesso tempo reale.

D: Il suono, in molti tuoi lavori, ha una funzione fondamentale. Come e perché la parte uditiva ha un ruolo spesso così importante?

DP: Nei miei lavori il suono è immagine, si priva della sua identità per diventare forma. Credo che il mio lavoro trasporti il suono in un’altra direzione e fruibilità; il suono non è importante quanto la trasformazione, o la derivazione, che questo può assumere attraverso l’immagine. Il suono è un impulso per far nascere qualcosa. Ricordiamoci che i fisici attraverso il suono emesso nell’universo stanno cercando di dare una storia a tutto quel che si è creato milioni di anni addietro. Nei miei lavori il suono serve solo per facilitare o amplificare la lettura di un contenuto ma esso, il suono, non è una finalità estetica, è piuttosto uno stato percettivo, un impulso mentale, come una scintilla che cerca di generare uno scoppio. Immaginiamo una nota che ritorna sempre indietro per un fenomeno che i fisici chiamano “retroazione positiva”, ed i musicisti più comunemente “feedback”, potrebbe essa lasciare un’immagine del suo percorso nell’aria? Bisognerebbe sentire un’opera visiva e guardare una sinfonia. Allora si darebbe un significato a quel che stiamo dicendo.

D: I tuoi “effetti atmosferici in vitro” li hai associati a uno “stato mentale” o, comunque, al corpo umano… in questo modo, il rapporto uomo-natura-tecnologia assume delle insolite prospettive che definirei quasi metaforiche. Nei tuoi lavori su che piano metti questa relazione con il corpo?

DP: Il corpo e ciò che lo circonda in fondo convivono nella stessa dimensione e sono limitati entrambi da forze gravitazionali che oscillano in una dimensione di pieno e vuoto o, semplicemente, di “incastro”. Ecco, mi piace il termine incastro perché mi fa pensare che tutto abbia un legame profondo ed inscindibile. Il corpo è stato soggetto dei miei primi studi, non per un motivo particolare ma perché era la cosa che avessi più vicino e che ho sperimentato molto, cercando di capirne i limiti e, al di là di questi, ho scoperto lo spazio. Lo spazio reale e mentale. Contemporaneamente, ho pensato al concetto di tempo. Diciamo che questi due aspetti sono importanti per delineare una direzione, quella dove stiamo andando... Un fisico mio amico, Alfonso Sutera, mi dice sempre che gli strumenti più importanti per uno scienziato sono una riga ed un orologio, coordinate essen­ziali per individuare la posizione delle cose.

D: Tentare di controllare la natura (cosa che l’uomo cerca di fare da sempre) è una reazione al fatto che quest’ultima ci atterrisce? Ma anche la scienza, e quindi l’uomo, sono arrivati ad un punto che potremmo chiamare di “sublime terrore tecnologico”, anche il potere della tecnica e le conquiste della tecnologia hanno raggiunto un livello tale da infondere paura… Nei tuoi lavori percepiamo entrambi gli aspetti. Ci avviamo, secondo te, verso una catastrofe generale?

DP: Il concetto di catastrofe è fondamentale ed essenziale per attuare un cambiamento. Ha quindi, a mio avviso, un valore positivo, di rinascita. Bisogna arrivare alla tragedia delle cose affinché queste acquistino tutto il loro significato profondo. Dietro delle cose apparentemente terribili si nasconde la bellezza del mondo: immaginiamo la nascita di un bambino, una cosa drammatica, perché cruenta e dolorosa ma, in realtà, è un miracolo, l’evento più bello del mondo. È della catastrofe che si nutrono le forme della na­tura, quindi essa, la catastrofe, non ha un senso negativo. Lo stesso Aristotele dava al termine un significato positivo, in quanto descriveva un cambiamento repentino del modello della tragedia classica da cui prendere esempio. Le catastrofi, in secondo luogo, hanno una causa naturale, ma potrebbero essere anche determinate dall’uomo o da qualunque effetto riconducibile a lui o alla natura stessa. Immaginiamo il famoso “effetto Butterfly” per cui un particolare evento viene causato da un altro lontano e sconosciuto, come un battito di una farfalla che può causare un uragano dall’altra parte del mondo.