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cura.magazine Anno 5 Numero 13 inverno 2013



Laura Reeves. Ritorno alla realtà

Adam Carr



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO cura.13 – Winter 2013

PART I — CURATING


INSIDE THE COVER
OLIVER OSBORNE
words by Isobel Harbison

PORTRAITS IN THE EXHIBITION SPACE
ALEXANDER DORNER WHEN SPACE BECOMES ART
by Lorenzo Benedetti

SPACES—STUDY CASES
ANTHONY HUBERMAN
THE ARTIST’S INSTITUTE, NY
by Vincent Honoré

PANEL
LAYERING & COUNTER-POSITIONING
Designer James Langdon interviewed by Gavin Wade

TALKING ABOUT
ZOO–TOPIA — ZOO ARCHITECTURE AS TAXONOMIES OF NATIONAL REPRESENTATION
by Eszter Steierhoffer
images by Candida Höfer

PART II — EXPLORING

LAB
LUCA FRANCESCONI
A PUMPKIN IS A PUMPKIN IS A PUMPKIN
words by Giovanni Carmine

SHOW AND TELL
BETTINA BUCK
TO BE CONTINUED
by Cecilia Canziani

LAB
RE-PRODUCTIONS
text and works by Mark Barrow

SPOTLIGHT
AURÉLIEN FROMENT
DE DEBUILDING
by Julien Fronsacq

LAB
THE UNIVERSITY AT THE OTHER END OF THE VOICE
a poem by Roger Van Voorhees

SPOTLIGHT
LAURA REEVES
BACK TO REALITY

by Adam Carr

THE EXHIBITION ROOM
UNHAPPY READYMADE
IMAGINARY SHOW OF FICTIONAL
ARTWORKS. VOL. 1
by Valentinas Klimašauskas
images by Virginija Januškevičiūtė

PART III — READING

BOOKS
COMMITTING TODAY: GUERRILLA ART ACTION GROUP
by Raimar Stange

THE FOX
REVISITING THE FOX (1975-1976), PART II
by Felix Vogel

BIOGRAPHIES

AGENDA
edited by Costanza Paissan
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012

Illusione o paura?
Gavin Wade
n. 11 primavera-estate 2012


Laura Reeves, Dad’s bycicle, on-going

Laura Reeves, Dad’s bycicle, on-going

Laura Reeves, Dad’s bycicle, on-going

Adam Carr: Il tuo lavoro utilizza prevalentemente fotografie trovate e ruota attorno a questioni legate alla registrazione del passato. Potresti spiegare come sei arrivata a tali scelte e quali interessi ti hanno spinto a servirti di questo materiale?

Laura Reeves: I fattori che mi hanno portato a usare in maniera continuativa le fotografie trovate sono diversi, ma il mio interesse in questo campo risale principalmente alla mia infanzia. I miei genitori conservavano nella credenza del soggiorno di casa un album fotografico risalente all’inizio degli anni Sessanta. Ho un ricordo molto vivido di quando lo tiravo fuori ed esaminavo ogni pagina e ogni singola immagine, il procura fumo del cuoio consumato, che ha qualcosa di legnoso, ai nastrini sfilacciati che lo tenevano insieme. Buona parte delle foto si erano staccate dalle pagine originarie e io mi divertivo a ricostruire le trame perdute di quell’album maltrattato. Forse nutrivo una sorta di nostalgia per qualcosa che non avevo mai vissuto né conosciuto. Mio padre aveva sviluppato tutte quelle fotografie da solo in una camera oscura casalinga e per me avevano sempre avuto qualcosa di magico e alchemico. Le macchine fotografiche per lui erano molto importanti, non solo come strumento per registrare la storia familiare, ma anche come hobby, passione, tradotti quasi in un racconto autobiografico della sua vita. Sono sempre molto cauta con questo genere di nostalgia, perché rischia di essere considerata un po’ troppo sentimentale, ma mi sono resa conto che è importante e non si riduce per forza a qualche stucchevole centrino su un tavolino del salotto ma può essere qualcosa di più, qualcosa di divertente e tragico. Molti altri eventi fortuiti hanno attirato la mia attenzione sulla fotografia, come il giorno che, marinando la scuola, ho trovato la foto strappata del volto di un uomo e l’ho messa nel portafoglio, o quando mio padre proiettava le diapositive mostrando a me e mia sorella immagini della collezione di cactus di mio fratello.

A.C. Qual è stato il tuo primo lavoro che combinava e metteva insieme questi interessi?

L.R. Mentre facevo visita ai miei, sono riuscita a trovare da un rigattiere una raccolta di quasi 400 diapositive appartenenti a una coppia sconosciuta. Osservare la vita di qualcun altro sollevava così tanti interrogativi. Tutto si è concretizzato in un progetto di due anni intitolato Richard and Beryl (2010-2012), in cui sono andata a visitare molte delle località raffigurate nelle diapositive, dove la coppia aveva viaggiato nei primi anni Sessanta. Il processo consisteva nell’esplorare il passato attraverso il presente e cercare di tracciare collegamenti viaggiando a ritroso nel tempo.

A.C. Ciò che hai appena detto sull’esame del passato attraverso la lente del presente sembra fondamentale nel tuo lavoro, ma anche coerente con l’idea dell’artista come detective, e più in generale con il tentativo di trovare un senso nel passato e nel modo in cui il passato si sviluppa nel presente. Hai descritto Richard and Berylcome progetto, per via della durata della sua realizzazione, ma forse anche perché comprende più di un’opera. Potresti descrivere ognuno dei singoli lavori, parlare di come si legano gli uni agli altri, ma anche della loro relativa autonomia?

L.R. Penso che stia tutto in quello che hai detto sull’artista come detective: avevo così tanti indizi che mi veniva spontaneo pescare cose dall’archivio strada facendo. All’inizio del lavoro ho trasformato le immagini in un testo descrittivo che si presentava in forma di libro, poi una selezione delle immagini è stata trasformata in una proiezione di diapositive. In quest’opera non era necessario che il pubblico capisse da dove venivano le immagini. Quando sono passata dalla semplice esplorazione dell’archivio alla visita effettiva delle destinazioni dei loro viaggi, mi è sembrato naturale che il lavoro prendesse la forma di Seaside Postcards (2012). Raccoglievo cartoline e le portavo a casa per poi elaborarle in modo da inserire al loro interno delle immagini di me stessa. Si potrebbe quasi considerare un souvenir dell’intero progetto. Il turista è alla ricerca dell’insolito e dell’inconsueto, ma finisce per farsi reificare dalle fotografie e dalle immagini da cartolina. Sono tante le questioni da affrontare con un archivio così esteso: abbiamo la narrazione, il turismo, la fotografia e molto altro, e penso che sarebbe stato strano se ne fosse venuto fuori un unico lavoro.

A.C. Al momento stai elaborando un lavoro che comprende le fotografie scattate da tuo padre nelle sue gite in bicicletta per il Regno Unito. Il processo originario e i valori formali delle fotografie rappresentano per certi versi un riferimento involontario all’Arte Concettuale, che sembra rispecchiare l’idea di usare fotografie trovate, o piuttosto la tua capacità di trovare nelle immagini un significato che, pur essendo effettivamente presente, non corrisponde a un’intenzione iniziale o deliberata. Me lo fa pensare anche quanto hai raccontato prima su tuo padre che mostrava le diapositive della collezione di cactus di tuo fratello: senza dubbio si potrebbe pensare alla pratica di John Baldessari, Ed Ruscha e Douglas Huebler, soprattutto ai loro lavori in serie, al loro uso di oggetti quotidiani e sistemi preesistenti e anche al loro basarsi su regole e parametri per la realizzazione delle opere. Quello che ho appena detto sull’aspetto accidentale del tuo materiale di partenza ha un rapporto con ciò che diceva Duchamp dei suoi ready-made: “Opere d’arte che non sono opere d’arte”. Potresti spiegare il lavoro in cui hai utilizzato le fotografie di tuo padre e l’idea di ri-presentarle, ri-contestualizzarle e ri-collocarle?

L.R. Il lavoro consiste in una serie di 36 fotografie analogiche scattate da mio padre attorno al Peak District e altre zone della Gran Bretagna in periodi diversi. Ogni fotografia corrisponde a un paesaggio o a una località turistica, la bicicletta è da qualche parte nell’immagine, mentre mio padre non compare mai. Le immagini sono tipicamente british, ma in un’accezione molto poetica, non secondo i soliti luoghi comuni su tè e pasticcini. Non so ancora di preciso quanto mio padre fosse consapevole del fatto che stava fissando queste regole per sé stesso. Forse la serie rappresentava una specie di autoritratto perché lui non aveva la possibilità di fotografarsi da solo. Forse la cosa rilevante di queste fotografie sono le limitazioni della tecnologia dell’epoca, che lo hanno portato a realizzare qualcosa di più interessante delle semplici immagini turistiche. Potrebbero essere queste le regole di cui parli, che gli artisti spesso si impongono nei loro lavori. Sono al tempo stesso eccentriche e semplici. Mi interessa il modo in cui i viaggi sono costruzioni destinate alla memoria, l’unico modo concreto in cui puoi descrivere la memoria. Anche se negli scatti non è visibile né mio padre né nessuna altra persona, in una c’è una involontaria doppia esposizione, in cui mio padre appare come una sagoma spettrale sovrapposta al paesaggio. Lo sdoppiamento, tra l’altro, costituiva una parte piuttosto significativa dei miei lavori precedenti. A parte le fotografie, il lavoro comprenderà anche una conversazione tra me e mio padre. Pensando al tema dell’intenzionalità che hai citato, forse il vero artista è lui, non io.

A.C. L’uso dello sdoppiamento che hai appena ricordato era forse più evidente in una delle tue opere precedenti, in cui avevi usato un archivio e un inventario di lavori prodotti da studenti. In quel caso, era importante la copia e l’uso storico della replica nelle arti visive? Comunque quel lavoro, nel suo uso dell’immagine trovata, andava in una direzione diversa rispetto agli altri di cui abbiamo parlato. Potresti parlarmene?

L.R. The Students of Mr D. Brook è stato esposto al Motorcade/FlashParade, uno spazio di Bristol, nel Regno Unito. Ho allestito quella mostra personale poco dopo il diploma. Mentre lavoravo a Richard and Beryl, alla scuola d’arte avevo trovato un armadietto pieno zeppo di vecchie diapositive del passato, che pensavo fossero appartenute a un professore, mentre poi si è scoperto che si trattava di un tecnico. Le diapositive erano un misto di storia dell’arte, pagine di libri, fotografie personali e studenti che lavoravano nei loro studi. Gli oggetti che ho realizzato non erano semplici repliche, ma piuttosto tangenti che partivano dai lavori degli studenti mostrati nelle diapositive. Quello è stato un lavoro strano da realizzare per diverse ragioni, innanzitutto perché dovevo adattarmi a lavorare in studio, cosa che non considero ottimale per me. Lo studio per me è una specie di mito, ed equivale più che altro a una sorta di ‘magazzino’. Per me il processo equivaleva ad adottare la personalità di qualcun altro. Penso che il lato ironico di questo progetto fosse vedere tutti gli stereotipi della scuola d’arte che erano venuti prima di me, sai, lo studente ‘minimalista’, lo studente ‘naturalista’, lo studente ‘nudo’ e via dicendo, gli stessi modelli che si ripetevano all’infinito. Ho scritto Letter to Mr D. Brook (2012) (il tecnico cui appartenevano le diapositive), lettera che è entrata a far parte della mostra e ho ricevuto una telefonata dal destinatario. Tutti i miei preconcetti sulle diapositive sono stati distrutti quando lui mi ha detto di averle scattate per usarle come materiale promozionale per gli aspiranti studenti, e che si trattava di falsificazioni di quello che facevano davvero i ragazzi, perché molti erano in posa. L’idea dello sdoppiamento di cui hai parlato è diventata molto importante nella mia pratica, ma mi ci è voluto del tempo per arrivare a esserne davvero consapevole. Per certi versi era abbastanza simile al lavoro Richard and Beryl, nel desiderio di uscire da sé stessi per vedere il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro. Sono certa che questa idea delle repliche tornerà e sarà un ambito che rivisiterò, soprattutto nei progetti a venire. Forse si lega a quando facevo calchi all’inizio della scuola d’arte.

A.C. E adesso su cosa ti appresti a lavorare?
L.R. Sto per iniziare un lavoro in collaborazione con Sean Edwards, con il quale lavoro da tre anni come assistente di studio. Il lavoro sarà basato su una conferenza da lui tenuta davanti a una sala piena di studenti. Useremo i miei appunti di quel giorno, che risale a prima di quando ho iniziato a lavorare per lui come assistente e a conoscere il suo lavoro in maniera più approfondita. Avevo persino sbagliato lo spelling del suo nome. Anche se penso che siamo molto diversi in termini di tematiche e di effettiva produzione artistica, lavorando a stretto contatto per tanto tempo si è formata una fiducia e comprensione reciproche. Sono entusiasta di questo lavoro, penso che abbia per entrambi una dimensione riflessiva, anche se non sarà privo di un certo senso dell’umorismo.