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cura.magazine Anno 6 Numero 16 primavera-estate 2014



Richard Sides

Anna Gritz

in conversazione con Anna Gritz



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO CURA. N.16
2014


Cover by: Elad Lassry

INSIDE THE COVER
Elad Lassry
words by Tim Griffin

PORTRAITS IN THE EXHIBITION SPACE
Jan Hoet and the museum as contemporary sculpture
by Lorenzo Benedetti

SPACES—Study Cases
Objectif Exhibitions Antwerp
Vincent Honoré in conversation with Chris Fitzpatrick

TALKING ABOUT
From the preface to the exhibition… (part I)
by Jean-Max Colard

SPOTLIGHT
Anthea Hamilton
in conversation with Ruba Katrib

SPECIAL PROJECT
Parker Ito
words by Liv Barrett

SPOTLIGHT
Richard Sides
in conversation with Anna Gritz


LAB
a project by Michele Abeles
and Margaret Lee

SHOW AND TELL
Diego Perrone
text by Cecilia Canziani

LAB
Cell Phones
a project by Tilman Hornig

ARTISTS WORDS
Art Inside Us
text by Ian Cheng

SPOTLIGHT
George Henry Longly
in conversation with Nicoletta Lambertucci

THE EXHIBITION ROOM
a project by Sara Cwynar
words by Nicholas Brown
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012

Illusione o paura?
Gavin Wade
n. 11 primavera-estate 2012


Whi will wipe the blood from our hands
2013, installation view
Courtesy the artist and Carlos /Ishikawa, London

the omega point just ate his brains
2013, installation view
Courtesy the artist and Carlos /Ishikawa, London

the omega point just ate his brains
2013, installation view
Courtesy the artist and Carlos /Ishikawa, London

La poliedrica produzione di Richard Side – che include video, installazioni, suono, performance e collage – dà origine a un lavoro unitario, in cui l’artista porta in superficie personaggi e nozioni di coscienza astratti dal complesso e composito ambiente sociale nel quale si trova a creare. Questa intervista è stata realizzata durante i giorni e le settimane che precedono lo spostamento di sede di Woodmill GP, uno studio d’artista e uno spazio espositivo che Sides dirige insieme a un gruppo di altri artisti nel sud di Londra.

A.G. Hai da poco concluso un insieme di lavori realizzato in tre parti e presentato in tre diversi contesti: la tua mostra di Master al Royal College of Art, dal titolo He tried to be a nice guy, but it just didn’t work out (2012); la mostra Stop Killing My Buzz (2012) alla Zabludowicz Collection; e infine la tua recente personale da Carlos/Ishikawa intitolata the omega point just ate his brains… (2013). Un corpus di opere che hai concepito – come tu stesso hai dichiarato – a partire dal tuo interesse nei confronti di un certo personaggio, protagonista, o forma di coscienza. Puoi dirmi di più a proposito di questa tua ricerca e come il concetto di coscienza viene presentato nel tuo lavoro?

R.S. Innanzitutto, l’idea di personaggio assume per me due significati – da un lato si ha un personaggio laddove gli oggetti assumono la valenza di simboli antropocentrici, capaci di rivelare la coscienza umana, come per esempio la voce registrata; dall’altro immagino la presenza dell’oggetto come un personaggio di per sé, come qualcosa che non abbia nulla di antropocentrico. Si tratta di una posizione piuttosto confusa, ma credo che abbia a che fare – in un certo senso – con la messa in scena di una crisi esistenziale. Qualora dovessimo prendere in considerazione l’argomentazione ontologica orientata verso l’oggetto, allora come potremmo mettere insieme le due prospettive nel concetto di “coscienza non-umana”, mentre stiamo già mettendo in dubbio i rispettivi mondi semi-indipendenti? Trovo stimolante quest’idea della messa in scena.

A.G. Qui il termine della messa in scena è interessante. Senza voler andare così a fondo da identificare nella tua pratica una particolare strategia definita da un ‘metodo’, i tuoi lavori sono comunque attraversati sempre da una certa carica o tensione, accentuata dall’inserimento di piccoli dettagli o indizi come frasi e citazioni, ritagli di giornale attentamente selezionati e dall’uso di suoni e colori, in grado di plasmare un personaggio come un’atmosfera o un flusso di coscienza.

R.S. Sì, e penso a questo come alla realtà dell’‘altro’, a un personaggio, allo stesso modo in cui in molti film veniamo manipolati per provare maggiore immedesimazione e in cui particolari scenografie assumono valenze specifiche. Per esempio, recentemente ho rivisto Heat, un film di Michael Mann del 1995, e ho trovato molto interessante il fatto che il film, in un secondo momento, abbia innescato un’ondata di eccitanti rapine armate.

A.G. Intendi nella realtà o in film successivi?

R.S. Nella realtà. Mi fa pensare che forse certe cose sono troppo provocatorie per una fruizione di massa.

A.G. Mi sembra che, nel tuo lavoro, non si tratti solo di creare un personaggio, ma che la tua pratica indaghi molto di più il modo in cui si sviluppa un’identità in senso più generale. Essa tratta quelle componenti che rendono noi ciò che siamo – ha a che fare con l’attività decisionale. In particolare mi riferisco a un’intervista, in cui mi sono imbattuta recentemente, fatta allo scrittore Leonard Michaels, in cui egli dichiara che “il pensiero politico conservatore è integrato alla biologia”.(1)

R.S. Sì, il prendere decisioni è una delle questioni più difficili che dobbiamo fronteggiare in quanto esseri umani. Noi prendiamo decisioni spesso ignari delle conseguenze, eppure sono queste a dare forma alla nostra identità. La domanda che trovo interessante è: fino a che punto veniamo manipolati? Come riflettiamo le nostre realtà soggettive?

A.G. Forse questo è un buon momento per parlare del PAWG file.

R.S. Il PAWG file è un raccoglitore ad anelli in plastica marrone, presentato recentemente in mostra da Carlos/Ishikawa. Era pieno di materiale stampato, di cui circa la metà costituita da immagini di “Phat Ass White Girls” tratte da Internet.

A.G. È curioso il fatto che non molte tra le persone venute a vedere la mostra siano riuscite a vederlo, in realtà. Veniva facilmente ignorato, quasi nascosto come una rivista sottobanco.

R.S. Forse, ma poteva anche essere la prima cosa in cui ci si imbatteva non appena si entrava in mostra. Era posto proprio accanto alla porta, vicino a una macchinetta del caffè che le persone erano invitate a usare.

A.G. Il formato del raccoglitore ad anelli assumeva un’accezione amministrativa e la sua posizione accanto alla macchinetta del caffè accresceva la sensazione di trovarsi in un ufficio contabile; ma allo stesso tempo esso era collocato nel posto in cui vengono generalmente disposti gli articoli sugli artisti e i comunicati stampa. La catalogazione ossessiva delle immagini all’interno del raccoglitore potrebbe essere interpretata come una strategia di canalizzazione di stimoli, generalmente bandita dalla sfera pubblica?

R.S. Mi piace l’idea. Per un breve periodo, mentre preparavo la mostra, ho creduto di aver perso la testa. Come se avessi riplasmato il mondo in qualcosa di così futile e senza significato da tagliare tutte le associazioni a quelle forme di valore che, nella mia vita, sono solito attribuire alle cose. Non che fosse una cosa da matti, ma semplicemente il risultato mancava d’intensità. Spesso provo questa sensazione quando penso al fatto che siamo stati messi in trappola dal capitalismo, dall’ipocrisia, dai doveri ecc., ma non sono un attivista e così posso non pensarci. Trovo ci sia un grado di comfort nelle situazioni ostili. Non in senso sociale, ma nel senso di come ci confrontiamo fisicamente con il mondo.

A.G. Questo tipo di confronto ha luogo nel tuo lavoro su molti livelli, su un livello formale, così come esperienziale, morale e di contenuto.

R.S. Uso il conflitto per creare intensità. Talvolta questo può sembrare cupo e aggressivo, ma personalmente non penso a quello che faccio come a qualcosa di necessariamente negativo o altro. Ho la sensazione che in questo consista la mia strategia di scollegarmi da me stesso, e che a un certo punto ho desiderato raggiungere lo status di ‘artista’ per favorire questo processo. Forse, ciò dipende anche dalla posizione in cui mi trovo al momento, che prevede l’interrogare me stesso sulla mia propria convinzione nell’arte e nelle arti. È una cosa che mi provoca dipendenza, e sono attratto da questa dipendenza in quanto è il mezzo che mi consente di cercare qualche tipo di rilevanza… Mi interessano anche i sistemi perché sono generalmente ideologici e in molti modi diversi, motivo per cui vi è una relazione tra di essi e i collegamenti che mi piace fare tra le cose – tutto questo implica una gerarchia, di cui l’arte non dovrebbe far parte. I migliori atti creativi sono come della buona spazzatura.

A.G. Sono curiosa di sapere di più a proposito del tuo rapporto con la spazzatura – la buona e la cattiva spazzatura. Mi sono divertita a leggere la conversazione tra te e Steve Bishop pubblicata nel comunicato stampa della recente mostra To clear the bush of your garden (2013) alla David Dale Gallery. La conversazione inizia con questa frase: “L’idea di ‘liquido nel fondo della spazzatura’ o spazzatura in generale è stata probabilmente la prima cosa su cui noi due abbiamo avuto un’intesa sincera”. E poi parli della relazione tra spazzatura e teorie del complotto. Questo mi ha ricordato L’incanto del lotto 49 di Pynchon, e un passo in particolare del libro in cui Pynchon parla dell’imbottitura di un vecchio materasso come “memoria di un computer del perduto”, un posto che ha mantenuto “le tracce di ogni sudore causato da incubi, di vesciche strapiene e abbandonate a se stesse, di polluzioni consumate viziosamente, lacrimevolmente”(2). La spazzatura pare un codice decifrabile solo con un esame minuzioso. Credi che questo valga anche per la tua arte?

R.S. La spazzatura suscita in me molte idee. Può assumere un ruolo compositivo – il modo in cui le cose, al suo interno, sono assemblate e presentate, spesso digerite e contaminate; è una cosa che ci circonda ma che spesso non è desiderabile. Intesa come codice capace di trasmettere le informazioni di un consumo eccessivo, rivela una natura dissonante che risulta pertinente al discorso artistico, e costituisce così un punto importante nella conversazione con Steve. Per esempio, ci siamo trovati a filmare gli angoli di pozze e laghi in cui galleggiavano rifiuti mezzi consumati, animati dal moto dell’acqua – avanzi di pesci, confezioni di cibo, giocattoli, alghe, lattine. Tutti questi scarti sono pervasi dal ricordo di cose che siamo in grado di comprendere attraverso diversi codici o che non abbiamo mai compreso, funzionando come ready-made del linguaggio. Trovo che il potenziale di tutto questo sia davvero grande. È come se cominciassi a crederci nella stessa misura in cui mi ci interrogo su; costituisce un forte impulso difficile da comprendere. Ma per me, forse, l’arte cerca di rivelare nuove verità – cose che non prendiamo spesso in considerazione; in modo simile, le teorie del complotto sono una di quelle pratiche culturali che esaminano a fondo stracci di prove, nel tentativo di svelare una nuova verità per cui la memoria presente in ciò che è stato scartato e la teoria divengono utili l’una all’altra.

A.G. Il termine collage è stato spesso usato per descrivere il tuo lavoro. Molti dei frammenti che vengono assemblati nelle tue opere, come ritagli di giornale, estratti da registrazioni e filmati YouTube, possiedono tuttavia già il carattere di pezzi di collage nel momento in cui entrano nel lavoro. In quanto parti di un’opera, si trasformano in qualcosa di nuovo e a volte diviene difficile differenziare ciò che è nuovo da ciò che è stato trovato e recuperato. In gioco vi è una strategia di appiattimento o annientamento, che pare andare contro lo spirito del collage. Come descriveresti quello che accade ai materiali quando entrano a far parte del lavoro?

R.S. L’intento alla base dell’annientamento risale forse alla spazzatura e alle realtà soggettive. Disporre parti di cose in nuovi modi può essere efficace nella misura in cui tale metodo, secondo me, è in grado di comunicare nel giusto linguaggio evasivo; a volte ricontestualizzare i frammenti, o persino gli interi oggetti, ne riplasma completamente il significato. Voglio dire “mettere a nudo” – anche se credo sia un’espressione naif – una realtà misteriosa, che cerco di rappresentare nel mio lavoro. In un certo senso, le modifiche o il collage in senso lato interrogano la struttura degli oggetti.

A.G. Dato che lavori simultaneamente con l’immagine, il suono e lo spazio, mi chiedevo come questi diversi approcci vengano gestiti nella tua pratica.

R.S. Mi avvicino a tutti loro allo stesso modo e li produco simultaneamente. Quando faccio un video per un’installazione, spesso produco il suono spazialmente e lo ripresento in diverse composizioni audio per varie performance, che poi possono anche esistere in forma video. Spesso creo archivi in cui il materiale viene usato molte volte a scopi diversi, ammettendo così letture contrastanti. Può trattarsi di qualcosa di piuttosto effimero, come un oggetto specifico, una luce rossa o un accordo musicale. Oppure, potrebbe essere una cosa di maggior peso come la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven, ora presente in tre dei miei video e riadattata per sintetizzatore. Essa possiede una sorta di peso culturale e può essere interpretata come un pezzo poetico o melanconico, ma è soprattutto qualcosa che la maggior parte delle persone ha sperimentato e che percepisce come colonna sonora. Analogamente, quando faccio “musica” uso spesso le stesse strutture con diverse impostazioni del sintetizzatore e tempi modificati per esplorare l’idea di temporalità e come questa influenzi la nostra realtà. La delicata ripetizione e alterazione degli accordi iniziali di Born Slippy degli Underworld, utilizzata come simbolo dell’euforia pop, è entrata a far parte dei miei lavori in più di un’occasione.

A.G. Per uno dei tuoi prossimi progetti, stai lavorando a un video documentario su quattro musicisti, alcuni dei quali sono tuoi amici e precedenti collaboratori. Sei in una fase in cui ci puoi dire di più a proposito di questo progetto?

R.S. Sono alle prime fasi della realizzazione di un nuovo video. Questo si svilupperà documentando, in vari modi, gli incontri con Theo Burt, Roc Jimenez de Cisneros, Mark Fell e Lorenzo Senni, che lavorano tutti con suoni sintetizzati, musica fatta al computer e sporadici riferimenti a sottoculture musicali. Non sono esattamente sicuro di come il progetto progredirà, ma trovo stimolanti le corrispondenze tra le loro pratiche. Ancor più affascinante è la relazione tra gli ambienti sonori che loro creano e gli ambienti che occupano domesticamente, geograficamente, storicamente…

1. L. Michaels, The Lost Interview, in “The Paris Review”, N. 841, Spring 2008 –http://www.theparisreview.org/miscellaneous/5847/the lost-interview-leonard-michaels

2. T. Pynchon, L’incanto del lotto 49, 1968, Einaudi (traduzione a cura del traduttore).