Espoarte Anno 14 Numero 80 aprile-giugno 2013
Attraverso la fotografia. Provocazione, rottura, sperimentazione
Incontriamo Nino Migliori nel suo studio a Bologna, l’intervista inizia con una partita a flipper su un pezzo originale degli anni ‘50 perfettamente funzionante. A gioco terminato, con una punta di compiacimento, il Maestro, leggendo il fianco del flipper, dice: «2.636.400, ieri ho fatto il mio record!» (una serie di punteggi sono appuntati a matita, n.d.r.). L’episodio è sintomatico per capire Nino Migliori, il suo spirito, il suo approccio alla vita e alla realtà attraverso il mezzo fotografico sempre messi in discussione e tesi alla rottura esattamente come si mette in discussione il limite di un record tentandone sempre uno nuovo.
Alice Zannoni: È in corso una mostra antologica a Bologna (Palazzo Fava, ndr) sottotitolata La materia dei sogni. Qual è la materia dei sogni di Nino Migliori?
Nino Migliori: Tutto ciò che attira la mia attenzione, che mi induce il sorriso, che mi stimola a progettare, che accende uno stupore, che mi spinge ad una riflessione. In poche parole è tutto quello che mi circonda, è l’esperienza quotidiana che è talmente ricca di suggestioni e suggerimenti che costituisce la scintilla per il fare.
La mostra si chiude con l’installazione Orantes (2012) ma il percorso continua al Museo della Storia di Bologna a Palazzo Pepoli Vecchio con l’opera Scattate e abbandonate e a Casa Saraceni dove è esposta Glass-writing. Idrogramma, entrambe installazioni. Come spieghi il passaggio dalla fotografia all’installazione?
Mi viene spontaneo dire che forse, sin dall’inizio, ho ritenuto la singola fotografia un esercizio per arrivare a qualcosa di altro.
Fin dagli anni ‘50 realizzai delle sequenze, non tanto come riferimento al cinematografico quanto per necessità narrativa. L’installazione è il naturale passo successivo. La prima è del 1973, La macchia. È una composizione formata da 50 stampe serigrafiche a colori fluorescenti, trascrizione pop di una mia fotografia di un Muro, che esposi in una stanza buia illuminata dalla luce nera, una luce di Wood. Ho continuato negli anni ‘80 con quelle realizzate quando facevo parte del Gruppo dei Celebranti, alcune di queste oggi si definirebbero site-specific, e poi ancora altre, fino ad oggi, in base alle necessità, alle sollecitazioni, ai suggerimenti che un argomento mi suscita. Sempre comunque legato allo specifico, al linguaggio fotografico.
A proposito di linguaggio e di necessità di sperimentare in rapporto alla realtà: Arturo Carlo Quintavalle nel testo critico che accompagna il lavoro Segnificazione del 1978 pone questa domanda: «Che senso ha incidere, tradurre, trascrivere, e che senso ha in relazione alla fotografia, alla sua possibilità stessa di esistere, a livello di metodo?». Come risponderesti?
Stai citando un lavoro che ritengo importante all’interno del mio percorso. Volevo rendere palese il mio punto di vista sull’argomento cruciale al quale fai riferimento. Ho pensato di esemplificare una mia opinione sulla fotografia attraverso la fotografia e lo potevo fare, anche in questo caso, smontandola, cioè usando “strumenti” specifici della fotografia quali il contrasto e l’ingrandimento.
Come soggetto sul quale lavorare, ho scelto l’incisione Ecce homo del Guercino, nel primo caso l’ho interpretata ovvero tradotta in quattro modi, per mezzo di una stampa più o meno contrastata: il risultato è visivamente palese, ognuno di loro fa riferimento a quattro modelli culturali diversi. Nel secondo caso ho individuato dei particolari e li ho stampati ingrandendoli, anche in questa seconda analisi, realizzando semplicemente degli ingrandimenti, il senso dell’opera del Guercino è completamente cambiato. Tutto questo per dire che la fotografia è trascrizione del reale e perciò mostra interpretazioni, verità filtrate dalla cultura e dall’ideologia del singolo fotografo o, per dirla come Michele Smargiassi in un suo recente e fondamentale saggio, Un’autentica bugia. Ma allora nel 1978 la mia posizione era considerata eretica, era un’affermazione fuori dal coro.
Note di sperimentazione e rottura ci sono anche nelle foto cosiddette “neorealiste”, qual era in quel contesto l’intenzione della provocazione?
Per me fotografare significava afferrare il mondo, avendo la sensazione di conoscerlo meglio e riappropriarmene tangibilmente. Significava fiducia nella nuova realtà sociale e politica che si apriva con uno spirito positivo: quindi sono fotografie che rappresentano una “piccola” realtà fatta di sguardi, gesti, atteggiamenti. Penso che colgano la semplicità e, a volte, la povertà della vita quotidiana della “gente” comune. Oggi vediamo questo tipo di immagini con gli occhi romantici del “come eravamo”, allora erano immagini di rottura, in contrasto con quelle patinate. Non volevano essere provocatorie, ma semplicemente una scelta di campo, una dichiarazione di intenti. Per semplificare vengono definite neorealiste, in effetti sono il “mio neorealismo”, uno tra i tanti realismi, tanti quanti erano i fotografi.
È palese e scontato che il tuo rapporto con il mezzo sia legato alla tecnologia del mezzo stesso e alle potenzialità di scoprirvi altri codici d’uso e, di conseguenza, di produzione semantica.
La fotografia è legata allo sviluppo della ricerca tecnologica. Se dal 1839, anno di presentazione ufficiale della fotografia, i fotografi si fossero contrapposti a qualsiasi altra innovazione successiva, saremmo ancora fermi al dagherrotipo. Quello che davvero conta è l’idea, il progetto, quello che si desidera raccontare. Infatti per me la fotografia pur essendo un’arte visiva, è molto vicina alla letteratura, è la narrazione di un pensiero che si fa immagine.
Che progetti hai per il futuro?
In cantiere di progetti ce ne sono tanti ed ognuno di loro mi tira la giacca, passo dall’uno all’altro perché la curiosità di verificare se un’idea funziona è così impellente che non ho la pazienza di aspettare. In questo modo mi trovo a lavorare a più progetti contemporaneamente procrastinando la conclusione, insomma ho del lavoro per almeno altri trent’anni.
Nino Migliori è nato nel 1926 a Bologna, dove vive e lavora. La sua fotografia, dal 1948, sviluppa uno dei percorsi più diramati e interessanti della cultura d’immagine europea.
Oggi Migliori è considerato un vero architetto della visione. Ogni sua produzione è frutto di un progetto preciso sul potere della visione, tema, questo, che ha caratterizzato tutta la sua produzione.
Eventi in corso:
Nino Migliori a Palazzo Fava.
Antologica a cura di G. Campanini
Mostra promossa da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna
in collaborazione con l’Archivio Nino Migliori
Palazzo Fava Palazzo delle Esposizioni - Via Manzoni 2, Bologna
Genus Bononiae Musei nella Città - Bologna
18 gennaio - 28 aprile 2013
Nino Migliori
PhotoMed Festival 2013
Sanary-sur-mer, Francia
23 maggio - 16 giugno 2013
Il giardino degli angeli
Casa Carducci
Piazza G. Carducci 5, Bologna
Dal 1 giugno 2013
Photissima Festival
in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia
ai lavori degli studenti sono affiancati quelli dei grandi nomi della fotografia italiana come Nino Migliori, Mario Cresci, Giovanni Gastel.
Centro Culturale Candiani
Piazzale Candiani 7, Venezia Mestre
20 maggio - 15 giugno 2013