Arte e Critica Anno 21 Numero 80 primavera 2015
Il contesto è metà del lavoro
BAU BAU, LA PERSONALE ALL’HANGAR BICOCCA DI MILANO, CURATA DA ANDREA LISSONI, È OCCASIONE PER UNA RIFLESSIONE SUL LAVORO DI CÉLINE CONDORELLI, AUTRICE DI LAVORI POLISEMICI NEI QUALI IL CONTESTO E LE RELAZIONI DIVENGONO PRATICA E MODELLO DI PRODUZIONE
MS: Mi interessa molto il tuo approccio al lavoro e il modo in cui lo sviluppi attraverso una pratica che comprende diverse discipline. La mia curiosità è nata durante una conversazione con Peter Fend su Support Structures. Puoi introdurre il tuo modus operandi e spiegare su cosa verteva Support Structure?
CC: Il mio lavoro riguarda il modo in cui il nostro incontro col mondo materiale passa attraverso la fiducia che riponiamo in esso, e il fatto che tutta l’azione umana abbia luogo fra innumerevoli strutture di sostegno generalmente date per scontate, che quindi tendono ad apparire quasi invisibili. Cerco di riflettere su come certe cose, relazioni, condizioni, vengono rimosse dal presente così come lo vediamo, e su come questo fenomeno sia spesso collegato a forme di soppressione, a cose che non si vogliono vedere e che vengono spinte in secondo piano. In generale l’idealizzazione degli oggetti si basa sull’esclusione delle condizioni che in primo luogo li sostengono, ciò che chiamerei impalcature. Un’analisi degli oggetti mostra sempre il coinvolgimento di tutti quei congegni e meccanismi supplementari – o come li si vogliano chiamare.
Ho approfondito questo interesse nel progetto di collaborazione a lungo termine Support Structure (2003-2009), con l’artista-curatore Gavin Wade. Considero il sostegno come una relazione essenzialmente politica, di alleanza e responsabilità, in grado di offrire una struttura utile a indagare il modo in cui viviamo e lavoriamo in collaborazione, attuando il cambiamento nel mondo. Il progetto Support Structure, dopo essersi sviluppato in dieci fasi e nel corso di sette anni, si è concluso come una rubrica di lavoro e nella sua configurazione originaria. Organizzata esplicitamente come un curriculum – conducendo Support Structure attraverso un processo di apprendimento – questa impresa collaborativa multi-parte è giunta a naturale compimento con le sue due fasi finali, l’inaugurazione dell’organizzazione artistica Eastside Projects da una parte, e la pubblicazione del manuale e antologia Support Structures dall’altra. Eastside Projects ha sviluppato la sua narrazione e, nei cinque anni di vita, ha definito un forte profilo nazionale e internazionale; ha inoltre riformulato le relazioni lavorative che in primo luogo le hanno dato vita: sebbene io e Gavin continuiamo a lavorare insieme, non lo facciamo alla maniera di Support Structure, ma come direttori dell’organizzazione.
Tuttavia qualcosa rimane. Le questioni sollevate dalla nozione di strutture di sostegno riguardano non soltanto un insieme di problematiche che ruotano attorno al display, ma anche le forme di associazione, e il più elevato potenziale di ciò che è collettivo e comune, che risiede nel lavoro affettivo così come in quello intellettuale. La necessità di lavorare insieme, di inventare possibilità e realtà che non sono ancora state cooptate o sfruttate, è ciò che definisce anche le relazioni di amicizia. Le amicizie generate dal progetto in effetti durano, e per molti aspetti sono diventate per la mia pratica un modello di produzione – di lavoro e di vita. Le strutture di sostegno intese come processo e metodologia implicano un modo di fare le cose che crea stretti legami e connessioni tra le persone, ma anche con cose, idee, luoghi, istituzioni, pubblicazioni. I progetti in questo modo parlano attraverso una moltitudine di voci e propongono qualcosa che ognuno non può fare o dire da solo, offrendo di conseguenza più della parte cumulativa delle loro componenti e frammenti. L’amicizia che propongono è sia una pratica che una posizione.
MS: In riferimento a Robbe Grillet, Gérard Genette parlava di un’assenza di narrazione che dipenderebbe non da una finzione intenzionale, ma da un realismo più stringente. Questo aspetto è parte del tuo lavoro?
CC: Cercherò di rispondere a questa domanda attraverso la pragmatica del mio lavoro. Trovo che spesso le narrazioni che affiancano le immagini che vengono diffuse, i sottotesti che le rendono leggibili, siano distorte o persino del tutto sbagliate. Sebbene non designerei affatto la mia pratica come giornalistica, do molta importanza al fatto di scoprire e considerare le condizioni esistenti, a livello sociale, spaziale, politico, e storico, e sottoscrivo la massima di John Latham che “il contesto è metà dell’opera”. La nostra comprensione del contesto include distorsioni e finzionalizzazioni del presente come anche del passato, e talvolta è interessante prendere sul serio una premessa inventata. Ad esempio, quando qualcuno ti dice, in riferimento a una città come Alessandria, “Non è rimasto niente”, ciò apre un enorme gap tra la risposta oggettiva e ragionevole “certo che sì, la città ha cinque milioni di abitanti”, che potrebbe essere un modo di rigettare tutti insieme l’affermazione, e l’altra opzione, che sarebbe quella di prestare attenzione a questa affermazione, ascoltando quali condizioni indica una frase del genere, e quali altre realtà essa chiama in causa. Sappiamo che narrare, travisare, commettere errori può produrre veri e propri eventi storici. In qualche modo, come artista, sono coinvolta nel modificare documenti, elaborare utopie, costruire schemi immaginari sul futuro, e in questo modo partecipo attivamente alla produzione del reale. Nel mio lavoro, vengono usate innumerevoli storie e situazioni reali molto più improbabili di altre cosiddette immaginarie. Il progetto non è tanto una versione finzionalizzata di eventi reali, quanto una narrazione, una costruzione che consente una diversa comprensione di condizioni esistenti e la loro re-immaginazione – come quella di futuri possibili.
MS: Il libro di Toni Negri, Arte e Multitudo, contiene una lettera a Giorgio Agamben in cui egli parla dell’idea di rimettere i piedi sulla materialità del vero. Egli afferma che se sperimentare il sublime ci ha indicato la strada, il fattore decisivo consiste piuttosto nel passaggio alla pratica, nel fatto di volere che la nostra emozione diventi azione, l’etica materiale di una decisione [...]. In questa differenza fra il dar nome e il discriminare l’essere sta il passaggio dalla teoria all’etica, ed è anche il superamento del postmoderno. Come concili astrazione e realismo nel tuo lavoro? Jacques Rancière parla del rapporto tra strutture sociali ed estetica. Qual è la tua posizione a riguardo?
CC: Risponderò a entrambe le domande – che considero essenziali, fondamentali – con una citazione da Claude Lefort, il quale sosteneva che “…nessuna determinazione economica o tecnica e nessuna dimensione di spazio sociale esiste fin quando non gli viene data forma. Dare loro forma implica sia dargli significato (mise en sens) che metterli in scena (mise en scène)”1.
MS: La mostra all’Hangar Bicocca si intitola bau bau. Puoi spiegarci come è nata e di cosa si compone l’istallazione creata in collaborazione con il Polo Tecnologico Pirelli di Settimo Torinese?
CC: La mostra presso l’Hangar Bicocca, curata da Andrea Lissoni, mette insieme lavori dell’ultimo decennio; è strutturata attraverso la separazione tra giorno e notte, sviluppata in molteplici articolazioni. Giorno e notte corrispondono direttamente a una parte della mostra alla luce del giorno – attraverso l’apertura di una enorme finestra nel muro dello spazio – e a un’altra parte dietro una tenda, e dunque caratterizzata da maggiore oscurità e simile alla notte. Ovviamente così strutturata la mostra cambia nel corso degli orari d’apertura (fino alla mezzanotte), e verrà alterata dal mutare delle stagioni entro la sua chiusura prevista per maggio. Ma questa divisione è anche connessa a due materiali, il cotone e la gomma, che creano una linea di pensiero e di ricerca dietro molti dei lavori in mostra. In questo modo il buio e la luce sono entrambi aspetti immediati, percettivi e fisici della struttura: nero e bianco, gomma e cotone, notte e giorno. È stato anche un modo di regolare la scoperta di condizioni esistenti, il che costituisce un aspetto fondamentale della mia pratica; ciò in questo caso corrisponde in primo luogo al contesto fisico e sociale dell’Hangar Bicocca, inclusa l’area di Bicocca che diventa parte della mostra con la vista all’esterno dalla finestra accostata all’insegna neon lampeggiante bau bau, (in tedesco “costruzione”, che lampeggia proprio sotto il grande cantiere all’esterno), la ricerca condotta presso l’archivio Pirelli, inserita nell’atlante/indice della mostra che in realtà è ciò che Support Structure (Red) contiene, e infine il lavoro fatto presso la Fabbrica Pirelli di Settimo Torinese.
Il progetto parte da un interesse per le materie prime, in questo caso la storia affascinante dell’albero della gomma – che è trasposto nella mostra come materiale nero in relazione al bianco del cotone (su cui ho sviluppato una serie di lavori).
La Fabbrica Pirelli è uno dei contesti-scenario dello spazio espositivo, è anche un luogo in cui una certa trasformazione della materia avviene attraverso le mani di persone il cui lavoro si traduce in pneumatici che a loro volta attraversano la superficie del globo. La fabbrica mi ha permesso di accedere a questo processo di produzione per costruire oggetti che raccogliessero tracce della produzione stessa. È un grandissimo privilegio essere ammessa all’interno di un mondo così specializzato e affascinante, e potere lavorare a fianco a un così sofisticato sistema di produzione – ma in effetti come artista sono impegnata nella trasformazione della materia, che è in primo luogo la motivazione che sta dietro a questa collaborazione.
Il nuovo lavoro/installazione realizzato presso e in collaborazione con la Fabbrica Pirelli di Settimo Torinese, si chiama Nerofumo (in inglese Carbon Black), che è il nome di un derivato nero ad alta concentrazione usato comunemente come pigmento, e anche un ingrediente chiave necessario per la fabbricazione degli pneumatici. L’installazione è stata creata nella fabbrica Pirelli insieme ai suoi operai ed è il risultato di piccoli interventi nel processo di produzione esistente, sviluppati attraverso il dialogo con le persone che in primo luogo l’hanno reso possibile. L’opera prende in considerazione tanto la trasformazione dei materiali in un pneumatico quanto lo sforzo complessivo degli individui e delle rispettive azioni, associati in un oggetto che successivamente attraversa il mondo lasciando tracce di quel lavoro collettivo. Percorso fatto di pneumatici alterati e delle loro impronte, Nerofumo funge sia da registro di questo viaggio sociale e materiale sia da strumento di navigazione nella mostra.
Nota
1. Claude Lefort, Democracy and Political Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1988, p.11