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Cross (1999 - 2000) Anno 1 Numero 3



Psycho Segnali di una storia attuale

Giacomo Agosti

Segnali di una storia attuale



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Una quindicina di anni fa era usuale - almeno in Italia e in Francia - accostare i termini di “cinema” e “pittura”. Il cosiddetto “effetto dipinto” proiettava un raggio incrociato tra schermo e tela e stimolava la ricerca di reciproche citazioni.
Oggi le strategie di avvicinamento si sono fatte più complesse, grazie alla diffusione dei video e delle videoinstallazioni. Inoltre alcuni artisti (soprattutto americani) sono passati direttamente dietro la macchina da presa per realizzare film a soggetto.
Era inevitabile che tutto questo non lasciasse indenne la riflessione cinematografica. L’attenzione a una cultura, che comprenda tanto gli autori dei film quanto i loro spettatori, tanto quello che si vede sullo schermo quanto quello che si passa nella sala, è ormai diffusa e costituisce un terreno di discussioni e approfondimenti ulteriori. Nelle considerazioni che seguono ho cercato di prendere in esame la memoria di un film ancora oggi molto popolare, soffermandomi sul meccanismo dei ricordi del pubblico. Dai materiali comuni ho evidenziato poi il modo in cui l’esperienza di Psycho è stata rivissuta da alcuni artisti, più e meno famosi. I loro dubbi, le loro incertezze, le loro curiosità sul film riflettono abitudini comuni anche agli spettatori più occasionali. Psycho è veramente “dentro” noi tutti.
Durante la ricerca sono sopraggiunti due nuovi episodi. Le celebrazioni del centenario di Hitchcock hanno sollecitato svariate iniziative: al Museum of Modern Art di Oxford si è tenuta una mostra intitolata Notorious. Alfred Hitchcock & Contemporary Art, dove - oltre all’ormai mitico 24 Hours Psycho di Douglas Gordon - sono stato esposti, tra gli altri, i lavori di John Baldessari, Pierre Huyghe e Cindy Sherman. Nel frattempo è uscito in Italia il controverso Psycho di Gus Van Sant.
Come momento di ragionamento condiviso non solo dai visitatori delle mostre d’arte ma anche dagli spettatori delle sale, il film di Van Sant mi è parso lo spunto di partenza più appropriato per il discorso. Come “clone” colorato di un originale in bianco e nero, è stato lo stimolo per inserire l’articolo all’interno di questo numero di Cross.

1. Una delle migliori qualità del nuovo Psycho di Gus Van Sant consiste nell’offrire alle sale un intero spettacolo costruito sull’esibizione della conoscenza dell’originale hitchcokiano.
Nonostante il trailer cinematografico prometta infatti una “scoperta” del mondo di Norman Bates nei termini del linguaggio video, quello che ci aspetta è un film a soggetto dai tempi inusualmente lenti, che siamo in grado di decifrare solo sulla base dei ricordi della versione di Hitchcock (la colonna sonora sembra identica, la sceneggiatura, il numero e la costruzione delle inquadrature sono molto simili). Gus Van Sant ha dichiarato che non si tratta di un “rifacimento”, ma di una “riproduzione” (nel solco - gli esempi sono suoi - di Duchamp e Warhol). Ha spiegato poi cosa significhi la riproduzione di un lavoro complesso come un film, che coinvolge componenti diversamente manipolabili (gli attori, i costumi, le scenografie, la fotografia, la sceneggiatura, la colonna sonora). Infine ha segnalato i materiali sui quali si è basato per il lavoro, che oltre allo studio della pellicola originale, ha comportato una serie di colloqui con i collaboratori superstiti e l’analisi degli storyboard 1.
Così la pretesa “unicità” della pellicola (il film “di Hitchcock”) si è definitivamente rotta, riportando alla molteplicità delle tessere preparatorie (l’apporto di Joseph Stefano per i dialoghi, quello di Saul Bass per la grafica, quello di Bernard Herrmann per la musica e via dicendo). Su un altro versante, il lavoro di Van Sant conferma di avere preso a soggetto, ad argomento, non la trama del vecchio film di Hitchcock, ma lo stesso film di Hitchcock “in sé”.

2. Se proviamo a chiederci perché l’opera di Van Sant coincide con alcune nostre aspettative, dobbiamo considerare che il ricordo attuale di Psycho è filtrato ormai da quarant’anni di memoria culturale.
Già undici anni dopo l’uscita del film, Robert Smithson confessava che le impressioni ricevute dalla prima proiezione si stavano dissolvendo nella nebbia cinematografica della sua mente:
“Da qualche parte al fondo della mia memoria, giacciono i resti inghiottiti di tutti i film che ho visto: buoni e cattivi, si affollano per formare dei miraggi cinematografici, delle acque stagnanti di immagini che si annullano le une nelle altre. Appena il mio spirito ha preso coscienza dell’astrazione dei film, subito questa nozione è assorbita nel pantano hollywoodiano” 2.
Dal pantano, hollywoodiano e non, sbucavano i ricordi dei film di Satyajit Ray “per una buona dose di noia, se vi piace la noia”, e quelli - inclini a “un sensazionalismo sordido” - di “un cineasta inglese, Alfred Hitchcock, per esempio. Sapete, quell’inquadratura di Psycho, nella quale l’occhio di Janet Leigh emerge dal buco di scarico della vasca, dopo che è stata pugnalata”.
La testimonianza di Smithson, più che suggerire una direzione di stimolo interno alla sua opera (il land-artista delle spirali di pietra che si ricorda del movimento a spirale dell’acqua visto nel film), ci aiuta a entrare nella dimensione di riflessione che riteniamo più pertinente.
I ricordi di visioni intrecciate, prima sul grande schermo, poi (ma a partire da quando?) su quello televisivo, allargate - negli ultimi quindici anni - con la disponibilità delle videocassette, hanno concorso a “espandere” Psycho secondo le previsioni di Youngblood 3.
Ma a rendere riscontrabili le emozioni di Psycho hanno provveduto anche, dal 1974, le migliaia di fotogrammi stampati da Richard Anobile nel volume della collana “Film Classic Library” 4. Questi canali di informazione visiva scorrono paralleli agli sforzi interpretativi della critica, soprattutto anglosassone e francese 5, alle ricerche sulla storia della lavorazione del film (il libro di Rebello è del 1990), e alla divulgazione di sue parti, preparatorie o terminali.
Mentre Saul Bass riprendeva a disegnare i titoli di testa per i film (tra gli altri, quelli di Martin Scorsese), veniva fatta oggetto di studio la sua collaborazione sia per la sigla che per lo storyboard di Psycho (è sua la parte relativa alla scena della doccia) 6. Nel frattempo, le esecuzioni sempre più frequenti della suite tratta dalla musica del film definivano il ricordo di Psycho sul piano sonoro, valorizzando al massimo il compito drammatico degli strumenti ad arco 7.
Una gamma così articolata di materiali derivati dal film ha indotto a ripercorrere in vario modo l’esperienza cinematografica di Psycho. Accanto alle possibilità di studio propriamente dette, da più di dieci anni assistiamo infatti a tentativi di ricostruzione di alcune delle strategie visive del film, maturati nell’ambito artistico delle installazioni.
L’avvicinamento delle “opere aperte” alle tematiche dei film e ai condizionamenti del contenitore cinematografico è un fenomeno più complesso e cronologicamente precedente (peraltro, in mancanza di repertori tematici e organicamente mirati 8, si è costretti a procedere sulla base di segnalazioni occasionali). Il “sonoro” dei film di Hitchcock - tanto il parlato quanto l’accompagnamento musicale - era già utilizzato nelle “azioni” di vent’anni fa. Non stupisce, quindi, che il gruppo milanese Studio Azzurro prevedesse la diffusione del “sonoro” di Psycho in una videoambientazione concepita per gli oggetti della collezione Memphis nel 1982 (Luci di inganni). Ogni prodotto disegnato da Sottsass e dai suoi collaboratori era rispecchiato e amplificato in un monitor retrostante: in certi casi lo spettatore era costretto a “spiare all’interno di ogni schermo, attraverso l’apertura e la chiusura degli sportelli”, come un nuovo Norman Bates 9.
Dieci anni dopo - nel 1992 - , al Museo di Israele a Gerusalemme una giovane artista, Sigal Primor, presentava un’installazione dal titolo La provocazione antartica (The Antarctic Challenge) 10. Questa volta l’invito rivolto al visitatore e al lettore del catalogo consisteva nel rileggere la vicenda della prima parte di Psycho, fino alla morte di Marion, alla luce di un doppio sistema di riferimenti: la storia dell’esposizione del Grande vetro di Duchamp e il viaggio esplorativo di Scott in Antartide.
I presupposti di alcune di queste associazioni sono piuttosto prevedibili per un’artista contemporanea (la violenza su Marion rimanda a quella ricevuta dalla sposa duchampiana, la violenza nella doccia a quella nel museo), mentre è più interessante l’avvicinamento “antifrastico” tra il viaggio femminile verso la morte e quello maschile nel continente ignoto. Ma la cifra omogenea viene dalla traduzione concreta del progetto, che - seguendo la tradizione tassodermica di casa Bates - consiste in una sorta di imbalsamazione dei vari elementi. I fotogrammi del cadavere di Marion, insieme alle foto del viaggio di Scott, sono stampati su grossi bottoni imbullonati in una parete foderata di pelle sintetica, mentre una piccola doccia innaffia un bacino contenente le piante dei musei dove era stato visibile il Grande vetro .
L’anno seguente (1993) un altro trentenne, lo scozzese Douglas Gordon, esponeva per la prima volta l’opera che l’avrebbe reso celebre, 24 Hours Psycho, costituita da una proiezione della videocassetta del film a un ritmo talmente rallentato da durare una giornata intera. Secondo il racconto di Gordon, all’origine del suo lavoro ci sarebbe stata una curiosità maturata di fronte al televisore e soddisfatta grazie al videoregistratore. Nelle vacanze di Natale del 1992 l’artista, rivedendo Psycho in televisione, si accorge di un’inquadratura di cui non aveva memoria. Così, aiutandosi col ferma-immagine, ripassa la videocassetta del film, sottoponendolo a una lettura attenta e temporalmente dilatata 11.
La sua installazione rovescia le curiosità sul pubblico e lo invita a prendere posto in un contesto particolare. Seduto su poltrone “sgonfiate”, steso a terra o disposto a un’occhiata sfuggente, lo spettatore di 24 Hours Psycho si trova di fronte a un’ininterrotta successione di fotogrammi, la cui durata di esposizione - due al secondo - permette una lettura individuale, come nelle pagine del libro di Anobile. A sottolineare la nuova condizione concorre l’assenza di qualunque elemento sonoro (verbale e musicale), che resta confinato nella memoria del visitatore 12.
Grondante di visioni, dilatato nei vari mezzi di comunicazione, Psycho è il “contenuto” del lavoro di questi due artisti come del film di Gus Van Sant. Sull’originale di Hitchcock si possono proiettare le grandi paure esistenziali o, indifferentemente, le piccole curiosità individuali. Le stesse che ci fanno notare le variazioni nel rifacimento a colori odierno: il buco nel muro - che serve a Norman per spiare Marion - non è più coperto da una Susanna al bagno, ma da una riproduzione del Verrou di Fragonard.

3. Nell’intervista rilasciata a Stephen Rebello, Gus Van Sant ha affermato di avere introdotto un cambiamento importante nelle scenografie del film: non ha voluto far ricostruire la casa Bates secondo il modello originale derivato dai quadri di Hopper. Quell’immagine infatti sorride sinistramente nella mente di tutti, e accoglie senza variazioni i visitatori degli studi Universal a Hollywood come a Orlando. Quell’immagine, conclude Rebello, è “un’icona pop”. Forse, aggiungeremmo noi, la casa dei Bates non è l’unico feticcio che dalla lontana pellicola in bianco e nero sia entrato nell’immaginario popolare contemporaneo. Gli spot e i sequel degli anni Ottanta hanno ravvivato cromaticamente altri momenti del film (la sagoma vista attraverso la tenda della doccia, l’occhio del voyeur applicato al buco del muro), fornendone dei derivati già pronti, che vanno a colmare i nostri bisogni e i nostri ricordi.
Ma è vero anche che la regia hitchcokiana di Psycho perseguiva una linea particolare nella valorizzazione degli oggetti. L’enfasi infatti era ottenuta partendo da una ricerca di quotidianità visiva, che alludeva a un mondo familiare (i motel), e addensando poi sui singoli elementi una rinnovata carica drammatica, specialmente nella direzione dell’erotismo e della violenza. Si pensi - come ci informa Rebello - all’accoglienza contrastata della scena iniziale, con Janet Leigh in reggiseno, e dei singoli dettagli del bagno (tendina, vasca e cesso) dove Marion troverà la morte.
Sono altri segnali, che dalla luce sullo schermo - o dentro il video - tendono a raggrumarsi nei contorni di oggetti tridimensionalmente definiti. Ed è anche per questo, forse, che facendo scorrere Psycho, si ha l’impressione di vedere raccolta tanta iconografia del nuovo realismo degli anni Sessanta, dagli accrochage con i reggiseni di Oldenburg ai collage con gli accessori della stanza da bagno di Wesselmann. Altre volte, invece, sono apparizioni più attimali, come la natura morta della colazione non toccata da Marion - e degna di Spoerri - o come l’insegna al neon del motel Bates, che è accesa da Norman durante una conversazione con Arbogast ed è visualizzata da Hitchcock senza una ragione apparente.

1 Cfr. S. Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho . Con un’intervista a Gus Van Sant, Il Castoro, Milano, 1999.
2 Cfr. R. Smithson, “A cinematic atopia”, in Artforum, 1971, poi Robert Smithson. Une rétrospective. Le paysage entropique 1960-1973, catalogo della mostra, Musée de Marseille-Réunion des Musées Nationaux, Marsiglia, 1994, pp. 204-205 (la traduzione è mia).
3 Cfr. G. Youngblood, Expanded Cinema, Dutton, New York, 1970 (una parte del libro è tradotta in Experimental cinema, catalogo a cura di A. Lissoni e D. Gasparinetti, Link Project, Milano-Bologna 1999).
4 Cfr. Alfred Hitchcock’s Psycho, a cura di R.J. Anobile, Pan Books-Macmillan, Londra, 1974.
5 Cfr. All about Alfred Hitchcock-Bibliographie, a cura di H.J. Wülff, Maks, Münster, 1983-1988.
6 Cfr. “Saul Bass/La testa dei titoli”, in Taormina Arte ’94 , catalogo a cura di F. Calogero, Taormina, 1994, pp. 201-213.
7 Si ricordino almeno l’incisione della London Philharmonic Orchestra diretta dallo stesso Herrmann (Great Hitchcock movie thrillers, Decca, 1969), e quella della Los Angeles Philharmonic Orchestra diretta da Esa-Pekka Salonen (Bernard Herrmann. The film scores, Sony, 1996).
8 Cfr. La stanza degli specchi. Arte e film dal 1945, catalogo della mostra a cura di K. Brougher e R. Siligato, Nuova Argos, Roma, 1997.
9 Cfr. Studio Azzurro. Percorsi tra video, cinema e teatro, a cura di V. Valentini, testi di P. Rosa, Electa, Milano, 1995, p. 19.
10 Cfr. Sigal Primor. The Antarctic Challenge, catalogo della mostra, Museo di Israele, Gerusalemme, 1992.
11 Cfr. A. Taubin, “Douglas Gordon”, in Spellbound: Art and Film, catalogo della mostra, Hayward Gallery, Londra, 1996, pp. 68-75.
12 La divaricazione tra suono e immagine è diventata una prerogativa delle installazioni cinematografiche di Gordon. In uno dei suoi ultimi lavori (Feature Film), basato su un’altra opera di Hitchcock (Vertigo) accompagnata dalla musica di Herrmann, lo schermo presenta due proiezioni in contemporanea: il film rallentato e senza suono, e la ripresa dei momenti di una nuova registrazione della colonna sonora sotto la direzione di James Conlon.