L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Cross (1999 - 2000) Anno 2 Numero 4



Stairway to Madness

Manlio Benigni

l’archivio come follia



ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

13365 Whole Relativity of the Cosmos
Tatsuo Miyajima
n. 4

Dizionario
Gene Gnocchi
n. 4

Psycho Segnali di una storia attuale
Giacomo Agosti
n. 3

Variazioni sul banale. Appunti sui fast food
Sean Snyder
n. 3

Until Nothing Can Reach Us
Emmanuelle Antille
n. 3

Twilight Jizoing
Tsuyoshi Ozawa
n. 3




“Io affermo che la biblioteca è interminabile (…).
Gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine
(che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)”.
Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele, 1941

“Non credo esistano molti tra i miei lettori
che possano sostenere di aver ascoltato sette o otto ore
al giorno di Led Zeppelin dal vivo, ogni giorno,
per cinque settimane consecutive. Io sì”.
Dave Godwin, Introduzione a
The Illustrated Collector’s Guide to Led Zeppelin
(Compact Disc Edition), 1994

Tutta la memoria del mondo recitava il titolo del documentario di Alain Resnais in viaggio per biblioteche non ancora (1956) invase dagli angeli wendersiani, quel Resnais che appena un anno prima aveva sconvolto Cannes catalogando gli orrori del nazismo in Notte e nebbia.
Più spesso l’archivista è un kamikaze votato al fallimento, come in un’enorme silloge babelica, magari vegliata dal saggio generale-bibliotecario dell’Uomo senza qualità di Musil, che non può leggere nulla perché ciò comporterebbe un disequilibrio scarsamente obiettivo e scientifico nella scienza dell’archiviazione, o dal folle sinologo Kien, il “bosco resinoso” della saggezza confuciana che brucia insieme ai propri libri in Auto da fé di Elias Canetti. Forse la contabilità dei morti di Danilo Kis confina con il registro ultraterreno di Dalkey in Flann O’Brien. O magari archiviare oscilla tra la creazione dei mondi del Prospero shakespeariano e il disincantato censimento della stupidità umana, come imparano a proprie (folli) spese Bouvard e Pécuchet. In ogni caso, se per archiviare fanno comodo le mani iperveloci del burattinaio di Essere John Malkovich di Spike Jonze, la curiosità può giocare brutti scherzi attraverso la porticina dell’Altra parte di Alfred Kubin.
Ma chi distinguerà tra archivio e collezionismo, tra ordine e disordine, tra norma classificatoria e follia collezionistica? Bisogna riconoscere che il culto maniacale delle statistiche sportive è fenomeno eminentemente americano (i record di punti dei cestisti Jabbar o Malone che interruppero la partita per i doverosi applausi del pubblico, il record di fuoricampo di Babe Ruth divenuto tormentone nei Peanuts…). Ma è indubbio, per chi scrive (e non solo, mi auguro) e di mestiere archivia dati, il piacere tra onanismo e liturgia provato a sgranare come rosari formazioni di calcio o basket e discografie, classifiche e family trees musicali (in cui è specializzato l’inglese – nomen omen – Pete Frame). Lo sport più che pratica effimera del presente diviene così l’eternità congelata in una figurina di Andreas Brehme o Spillo Altobelli, in un 15/21 da tre di Ardessi, nei 100 punti americani di Wilt Chamberlain o negli 87 italiani di Carlton Myers.
Quando poi gli eroi del cuore deludono, ci si può consolare rievocando la Beneamata dei 58 punti su 68, inventarsi immaginarie carriere di mirabolanti campioni, o praticare l’arte visionaria di confezionare discografie e vite immaginarie, come Riccardo Bertoncelli, che giusto un quarto di secolo fa inventava il favoloso Red Woods di Crosby, Stills Nash & Young per sopperire all’insopportabile accidia lisergica dei quattro bisticciosi cantautori. La beffa, provvista com’era di titoli e persino testi inventati ma più-californiani-della-California, riuscì tanto bene da costringere i responsabili della casa discografica dei quattro a emettere una circolare di smentita ufficiale, e ispirare molti anni dopo il titolo di un eccellente bootleg d’epoca.
Ma in queste patologie l’archivio non è forse un tentativo di conferire significato a ciò che in fondo non ne ha? Un affannarsi a classificare oggetti privi di senso (come i libri inventati da Borges), monoliti inattaccabili, superbi come l’obelisco di 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, che guarda caso fa bella mostra di sé, appena più graziato, nella copertina e nelle foto di Presence (1976) dei Led Zeppelin.
Un gruppo-mito miliardario ma clandestino, tanto fuori moda da diventarlo controvoglia, refrattario agli hippie hype quanto ispiratore di un irrefrenabile loose talking, tanto bravi in concerto quanto maldestri nel negarne testimonianze a un pubblico famelico. Da qui la necessità del bootleg, che come il celebre whiskey fatto in casa durante gli anni del Proibizionismo lenisce la scimmia sulla schiena dei fan: gli Zep in Inghilterra sono il gruppo con più dischi illegali di tutti i tempi – 414 titoli, contro gli appena 320 e 317 di Beatles e Stones. Fonte: il distaccato e autorevole “Tight But Loose. The Original Led Zeppelin Magazine”, da cui apprendiamo anche quanto segue: “Il 18 luglio 1999 i due grattacieli gemelli Eve Hill di Dudley – raffigurati sul retrocopertina del quarto disco – sono stati demoliti. L’abbonato Ian Green ha scattato alcune foto pochi attimi prima del crollo, accertandosi con i demolitori che si trattasse effettivamente della località riportata sulla celebre copertina”. Ma questo non basta: un’oscura cover band giapponese riesegue i classici degli Zep con un preciso metodo nella follia: ricreare le scalette dei concerti, come a Earl’s Court 1975 o a Knebworth 1979, con tanto di durata effettiva (è noto che gli Zeppelin potevano eseguire lo stesso brano a lungaggine variabile: Dazed and Confused, su disco 6’26”, arrivò a 26’53” al Madison Square Garden nel 1973, e minacciava di non fermarsi più quando fu caritatevolmente defalcato dalla scaletta live…).
Del resto la jam-band Phish è celebre per rifare album interi di altri gruppi, come Quadrophenia degli Who, e i sempre più folli Blur arrivano al punto di eseguire un concerto di soli lati B dei loro 22 singoli, e poi uno di soli lati A, in ordine rigorosamente cronologico (come dite? dovevano promuovere il cofanetto che li raccoglie tutti?).
La nostalgia produce cloni e prodigi, dai “fastidiosamente autentici” Bootleg Beatles ai Fred Zeppelin, passando per i Björn Again (“ABBA-solutely brilliant”); dai Counterfait Stones, che paventavano concerti imperniati su “The Classic Years of Decadence”, agli innumerevoli “TortElvis”; dai Doors e Pink Floyd rigorosamente australiani (con canguri che stringono la mano al businessman in fiamme sulla copertina di Wish You Were Here o che svolazzano al posto dei maiali nel cielo di Animals) ai più geniali di tutti, i Rutles del Monty Python Eric Idle, con canzoni e ricostruzioni più fab dei Fab, interviste a George Harrison e Mick Jagger, e la proibitissima erba magica degli eterni campi di fragole divenuta tè da sorbirsi in clandestinità (vedi il docufiction The Rutles - All You Need Is Cash, 1978 e il cd Archeology, 1996).
Per sovrammercato, le ultime due decadi non hanno forse esaltato sempre di più la figura del dj, un campion(ator)e dell’eredità musicale, un amanuense per l’era hip-hop? E del tutto non partecipa anche la sottile angoscia che questi stupidi oggetti (di culto) ci sopravvivranno?
A queste domande non saprei rispondere, so solo che nei cassetti di famiglia, dalle pagine polverose di un libro, sono sbocciate classifiche di pugno paterno (1938) con l’Ambrosiana Inter di Meazza in testa al campionato, e conseguente vertigine tra il raggelante “Il mattino ha l’oro in bocca” e il confortante “continuum genetico”, e, dulcis in fundo, che a un concerto di Page e Plant ho incontrato la groupie del mio cuore.