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Count-Down (1998 - 2000) Anno 1 Numero -5 Giugno 1998



PENSARE L'ESATTEZZA

Luigina De Santis

Conversazione con Vincenzo Vitiello



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Italo Calvino

uesto contributo è l'esito di una conversazione, della quale conserva tutta l'immediatezza. Pù che raccontare il colloquio e le sue parole, ho preferito rielaborarne la registrazione, smontandola, segmentandola e strutturandola secondo le tappe del procedere discorsivo. Le domande, perciò, sono venute meno, trasformandosi in titolazioni a posteriori in un sorta di toponomastica del tracciato di quel percorso, riarticolato in una schematica mappatura delle stanze le cui porte ha di volta in volta dischiuso. L'idea di una topologia, ovvero di una spazializzazione dei concetti, ne ha suggerito le quattro sezioni tematiche da rileggere in differenti successioni. E, con leggerezza, il percorso testuale, plurimo nelle differenti connessioni tra i quattro nodi problematici, è stato sovrapposto ai percorsi fisici tra le trame viarie della città di Vienna, che, come la fantasia piranesiana connessa alla Roma di Freud, diventa emblema della spazializzazione della storia e del suo sapere.

Un poeta o della parola.
Calvino ha condizionato la mia riflessione sull'esattezza in poesia soprattutto per quanto ha scritto in "Palomar", che ritengo la sua opera più alta... Io ho lavorato essenzialmente sulla poesia tedesca e ultimamente sto rimeditando l'opera di Paul Celan. Lì ho avuto il senso preciso di cosa si possa intendere con "esattezza" della parola poetica. Richiamandomi anche a ciò che dice Calvino in "Palomar", la parola poetica è sempre estremamente precisa, esatta. È una parola che individua la cosa nella sua determinatezza specifica. Contro le affermazioni della vaghezza, dell'indeterminatezza, dell'indefinitezza del linguaggio della poesia, bisogna rivendicarne il carattere estremamente specifico, determinato, direi, al limite, concreto. Proprio perché così determinata, così specifica, così individuata, al limite così semplice, la parola poetica indica quella cosa e soltanto quella cosa. Essa ha la capacità di acquisire come aura, come orizzonte della determinatezza specifica, tutto quanto possiamo definire come indeterminato e come vago, come infinito. Nella sua specificità determina proprio l'orizzonte della vaghezza, possiamo dire l'orizzonte dell'infinito, l'orizzonte dell'indeterminato.
Vorrei ricordare la definizione che Platone nel "Cratilo" dà non delle cose ma dell'essenza di tutte le cose: (vnh kai schma. Fvnh = suono; kai schma = e schema, il disegno, il contorno. Suono, ma non nel senso onomatopeico, né della musica intesa idealmente, alla maniera di Schopenauer, bensì suono analogo alla "voce" che esce dal petto dell'atleta quando lancia il martello, suono che accompagna, anzi che è, il gesto stesso, dove il gesto è la figura del corpo. L'emissione della voce, infatti, non implica un interno come l'anima, ma è il "dentro" del petto; è insomma corpo, corporeità. Quel fiato, quel suono, quella (vnh, per l'appunto, si disegna come unità di suono e corpo, (vnh kai schma. Ed allora è tipico della parola, della (vnh, dare lo schma, il disegno, l'incisione precisa: la figura, come ciò che viene determinato. E, ovviamente, la figura se determina qualcosa, lo determina nell'indeterminato. Ancora, per usare la lingua di Platone, dovremmo dire che la vera parola poetica è quella che orizei to aoriston, quella che definisce l'indeterminato. Nel momento in cui, per seguire una suggestione di Rilke, diciamo le "cose semplici": "l'albero, la casa, tutt'al più colonne", noi determiniamo l'indeterminato. La determinazione dell'indeterminato, ovviamente, non allontana l'indeterminato. La voce nega il silenzio e insieme lo richiama. Fa del silenzio lo sfondo della parola, lo sfondo che è necessario alla parola, che necessita alla sua determinazione. Quindi non è che la parola poetica sia vaga, contro la parola scientifica che è invece determinata. Semmai la parola poetica è più determinata della parola scientifica, proprio perché si ritaglia, ovvero schematizza, nel silenzio, nell'indeterminato, nell'indefinito, il suo spazio: lo spazio delle cose, singole-determinate.

Un luogo o della topologia.
Per entrare nell'ambito della topologia, uso la via architettonica della descrizione di un luogo: Vienna, una città che secondo me richiede qualche tempo di assuefazione. Quello che immediatamente mi colpì, la prima volta che la visitai, fu la grande capitale. Vedevo, percepivo, "toccavo" la sua antica potenza politica. Mi dava insomma l'idea di qualcosa di estremamente legato al passato, di qualcosa vicino al morto più che al vivo. In seguito, frequentando i suoi luoghi, assuefacendomi ad essa, la mia idea è cambiata: non più un passato che è morto, ma un presente stabile, un presente permanente. Vienna mi è parsa la città in cui si apre una porta e si entra in un certo passato, se ne apre un'altra e si entra in un altro passato, un'altra ancora e si diventa di nuovo abitatori del nostro presente immediato. Mi dà l'idea precisa (l'idea spaziale) di quello che io cerco di pensare come "topologia", cioè la contemporaneità della storia, l'esperienza di una storia costruita a strati, di una storia che amo definire "catastrofica", nel senso che tende al profondo, si volge al basso (kata). Molteplici i percorsi che possiamo fare tra le sue stanze, andando verso un certo passato e poi da quel passato tornando al presente (passato e presente sono contemporanei) ovvero scendendo e salendo attraverso i suoi strati. Qui, l'idea di esattezza acquista una maggiore consistenza, perché ogni porta che si apre, nel momento in cui ci definisce un ambito, ci esclude da altri, si chiude ad altri.
Ricordando Spinoza, voglio ripetere una proposizione che tanto piaceva ad Hegel: omnis determinatio est negatio. Ogni determinazione è la negazione di un'altra; delle altre tutte, anzi È chiaro che noi in tanto possiamo entrare in una stanza, in uno strato della storia, in quanto sappiamo che il resto, le altre stanze, gli altri strati, sono per noi, nella loro totalità, indeterminati. Cioè: la storia ci sfugge sempre, ma ci sfugge nell'atto stesso in cui ce ne impossessiamo. Ogni presente è sempre altro da altri presenti e questo lo capiamo nel momento in cui abbiamo piena nozione del nostro presente. Questo il senso dell'esattezza...

La parola esatta, tra filosofia e poesia.
Con Calvino, penso che l'esattezza sia estremamente difficile e complicata, proprio perché è questo ritaglio dell'indeterminato, questo strappare la parola al silenzio. Perciò sono particolarmente attratto della parola poetica di Celan.... perché è Gegenwort, contro/parola. È continuo sforzo di arrivare alla parola, sforzo portato a piena consapevolezza, non tematica o filosofica, ma poetica: Celan fa della riflessione sul linguaggio poetico, ma in poesia. La sua è una poesia "sulla" poesia. Un suo componimento poetico termina con questi versi: buch-, buch-, buch-, // stabierte, stabierte (Buchstabieren = sillabare: sill-, sill-, sill- // abavo, abavo). La parola è divisa, troncata, si rompe al suo interno e rompendosi è come se fosse investita da un'esattezza al quadrato, tale che l'esattezza diventa poi impossibile. L'esigenza di esattezza portata all'estremo diventa Todestrieb (= impulso di morte). L'esattezza agisce contro se stessa: portata al quadrato, al cubo, frantuma la parola e la fa ricadere nell'abisso del silenzio. Questa è anche la tragedia del nostro tempo, esprime il nostro modo di "esserci" nel mondo, per cui siamo sempre heimatlos: la patria ci è estranea, il mondo non è nostro. La frattura della parola, il suo frantumarsi, la sua rovina è catastrofe, naufragio, fallimento, come dimensione esistenziale tragica. In questo la poesia è pensiero.
Del resto il pensiero ha sempre avuto dimestichezza con la poesia... Prima di Heidegger, già Platone guarda alla parola poetica. Quando, parlando per bocca di Socrate, indica i maestri, gli antichi sapienti, cita Orfeo, Esiodo, Omero... Sono questi i maestri, i Nomoqetai (= i legislatori), coloro che hanno dato la legge ed il nome alle cose e perciò sono più vicini agli dei. La filosofia, invece, riflette sui nomi, è un sapere secondo, nato nella consapevolezza di esserlo. Ma i filosofi non sanno essere umili, nella loro estrema umiltà sono poi estremamente superbi. Lo stesso Platone, dopo aver definito Nomoqetai Orfeo, Esiodo ed Omero, si chiede: "ma non è che costoro hanno commesso il medesimo errore che commettiamo noi, noi dotti, noi filosofi che confondiamo il nostro movimento in cerca delle cose con il movimento delle cose? non sono anche gli antichi sapienti caduti nel nostro errore?"
La filosofia ha questo di particolare (e qui torniamo alla Vienna del pensiero): il filosofo nel momento stesso in cui apre una porta per affacciarsi su di un mondo altro, sul mondo della poesia, vede che questa stanza in fondo non è che un'altra stanza della sua casa. Della sua poli(. È un luogo particolare dello spazio perimetrato dalla filosofia. Significa questo che la filosofia ha un raggio infinito? Io non credo. Se noi prendiamo sul serio l'espressione di Platone, dobbiamo, muovendo da essa, fare un movimento di reazione nei confronti di quell'hegelismo cui siamo portati naturalmente. Voglio dire: la filosofia che apre una porta ed entra in una stanza che credeva di un'altra abitazione e la scopre invece propria, non è il canto o l'elogio dell'infinità della filosofia, semmai della sua finitezza: implica che la filosofia non sa andare fuori di sé. E allora, proprio la consapevolezza che la filosofia ha di questo, il senso della sua finitezza, la porta continuamente ad interrogare l'altro.

Misurare l'esattezza o della topologica.
Io ho sempre inteso la topologia non come una nomotetica universale, ma come un fatto particolare. La filosofia, certo, non può non imporre i suoi nomi, le sue leggi, e tuttavia sa bene che queste leggi sono le sue, sono limitate. Lo spazio della filosofia è quello della poli(, però la filosofia, quando è veramente tale, sa che fuori della poli( c'è la natura, l'irrazionale, tutto quello che della vita non può essere detto.
E qui torniamo all'esattezza. Esattezza è misurare precisamente il proprio ambito, sapendo bene che quello è il proprio ambito: fuori c'è l'indeterminato, l'indefinito... Questa non è soltanto un'esperienza culturale, perché è esperienza di vita. È vivere, ex-sistere, in quella che Enzo Paci chiamava, con Vico, ingens sylva, che ci può sommergere da un momento all'altro, non noi come singoli, ma l'intera poli(, la totalità dell'uomo. Di qui la necessità di un colloquio con la religione, per cui chi voglia davvero pensare, deve porsi nel trittico poesia-filosofia-teologia, dove ovviamente nessuno dei tre termini è primo. Possiamo porli in qualsiasi ordine. L'uomo è tale in quanto ha un rapporto religioso, un ligamen con l'altro, con l'indefinibile indefinito; perciò possiamo dire che è tanto più uomo quanto più è "esatto". Il "Mistico" in Wittgenstein si esprime esclusivamente nella proposizione che ci dice il "come" ma non il "che"; il "che" del mondo è il suo silenzio. C'è una continuità essenziale in cui davvero tutti i filosofi sono contemporanei. In cui davvero tutti i filosofi non pensano la stessa cosa, ma cercano la stessa cosa, ripensando il rapporto tra il determinato (l'esatto) e l'aldilà (l'altro). Una sorta di destino di inesattezza segna le loro ricerche, ma al tempo stesso ne consente sempre di nuove, nel tentativo di disvelare quanto di indeterminato e di indefinito sempre sfugge loro, ponendosi come altro.
In questo l'esperienza costruttiva è emblematica, perché lavora sulla natura e si fonda su di essa. Heidegger quando parla dell'esperienza dell'arte in quanto esposizione della verità fa riferimento al tempio greco. Il tempio è ciò che fa della terra, del nascosto, un mondo. C'è in questo un'inesattezza destinale: mai la terra è portata completamente ad essere mondo. Il tempio è tale, cioè custodisce il sacro, perché, come dice Heidegger, rivela il polemos continuo tra terra e mondo, tra inesattezza ed esattezza per tornare a noi, o, con altri termini, tra identico e altro. Io preferisco dire tra ordine e differenza: tra ordine, che viene stabilito con esattezza, e differenza, che è sempre quello che l'ordine allontana e insieme avvicina, quello rispetto a cui l'ordine è continuamente misurato. La vera misura è sempre misura dell'immisurabile e dell'immisurato. C'è misura solo perché dobbiamo misurare il non misurabile e ovviamente il non misurato, nel continuo rapporto tra ordine e differenza.
Se vogliamo essere fedeli ad un autentico pensare/fare, queste sono le determinazioni fondamentali con le quali continuamente ci misuriamo e contro le quali si scontra la nostra incapacità a misurare. Nel dialogo, ciascuno comunica la medesima esperienza ma dalla profonda diversità del lavoro che svolge. Altrimenti diremmo tutti la stessa cosa ed è inutile guardarsi allo specchio. Se è vero che esiste l'esatto che rinvia sempre all'indeterminato, allora dell'esatto non possiamo più parlare al singolare. Non esiste un solo esatto, che nella sua singolarità determinerebbe l'indeterminato, ma sono plurali le esperienze esatte, che custodiscono l'indeterminato come tale.
Se pensiamo sino in fondo questo, anche l'ambito della logica deve essere completamente rivisitato. E quando dico della logica, dico anche della logica della scienza. Per altro in fisica e in biologia questo sta già avvenendo. Certe esperienze della fisica che relazionano il fenomeno al luogo, mi sembra vadano nel senso di una "logica della contraddizione". Perciò mi piace pensare ad una "topologica": una logica delle cose pensate secondo diverse prospettive. Di qui la mia recente frequentazione delle scienze, nel tentativo di sperimentare in che modo ordine e differenza, nomi a cui ricorro con più frequenza, si determinano nei vari ambiti specifici. Mostrare come queste stesse denominazioni, che in qualche modo hanno un carattere generale, siano poi delle determinazioni essenzialmente particolari, e come diversi siano i loro nomi nei vari ambiti del sapere. Diversamente, usare un termine generale sarebbe condannarlo ad una vaga genericità.
1 Vincenzo Vitiello, professore di Filosiofia teoretica presso l'Università di Salerno, si è occupato in particolare dei rapporti tra pensiero dialettico ed ermeneutica, in studi su Kant, Hegel, Heidegger e Nietzsche, molti dei quali tradotti in tedesco e spagnolo. Tra i suoi lavori più recenti: Topologia del moderno (1992) e La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione (1994). Dirige con Massimo Cacciari, Sergio Givone e Carlo Sini la rivista "Paradosso".