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Count-Down (1998 - 2000) Anno 2 Numero -3 Giugno 1999



IL PASSO DEL TORERO nospheratu

Silvia Malcovati e Massimo Randone

La critica militare di Achille Bonito Oliva



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Achille Bonito Oliva

La figura della lateralità come categoria del pensiero artistico contemporaneo
intervista ad ABO

M/R: Achille, nella presentazione del tuo L'ideologia del Traditore, rispondendo ad Edoardo Sanguineti, hai appena sostenuto che la critica non esiste, ma esiste il critico. Dove si colloca il critico rispetto all'opera?

B.Oliva: Io mi sono posto sempre questo interrogativo, la critica serve o la critica sparecchia?

M/R: Allora la critica viene 'prima' dell'opera (imbastendo il quadro teorico a cui gli artisti afferiscono), oppure è un polo dialettico che si delinea 'durante' lo sviluppo dell'opera (fungendo da antitesi e coscienza) o infine viene solo 'dopo' fungendo da strumento di rilettura e riflessione?

B.Oliva: Questa domanda, se la critica serve o sparecchia, me la posi già nel '72 (quando parlo di date parlo sempre di date di pubblicazioni, di pensiero teorico supportato dalla scrittura), allora io ho pubblicato a puntate su Domus la mia teoria sul sistema dell'arte, su quella catena di sant'Antonio che si compone di artista-critico-gallerista-mercante-collezionista-museo-mass media.
L'interrogativo se la critica serve o sparecchia, era (allora) diventato internazionale, come tutte le ideologie di allora, ed era entrato in un circuito che non temeva il recinto, la cornice.
La critica viene prima, durante o dopo ... il problema non è quello 'del piacere delle macerie', quanto piuttosto il problema è di come articolare le rovine. Starobinski diceva che non c'è niente di più struggente di una colonna antica distesa per terra, però questo vuol dire come diceva Nietzsche, che bisogna partire da una situazione di distruzione per poter poi ricostruire. Quindi l'ambivalenza del pensiero e dell'arte consiste in questo spazio, dove tu neghi, affermi, confermi.

M/R: Tornando alla questione della critica, tu hai accennato a Duchamp che sposta la questione da una intuizione, da un'idea...

B.Oliva: Dall'oggetto al concetto!

M/R: Appunto, e quindi si affranca dalla perizia tecnica, materiale, del saper dipingere o saper scolpire l'opera, dalla sua manualità, per concentrarsi sulla sua concezione, sul suo portato critico. Tu come critico-teorico, con precise idee sull'arte ma non necessariamente dotato di strumenti tecnici per realizzarle, ti senti produttore come dire 'allografico' di opere pensate in prima persona ma realizzate da mani altrui?

B.Oliva: No, io ho dato corpo alla critica attraverso teorie, libri e mostre, a volte anche attraverso il protagonismo, la performatività della mia stessa figura. Il grande critico non bluffa legittimando artisti modesti, crede nella propria autonomia ma crede anche nell'autonomia dell'arte e quindi indica artisti di qualità, anche lavorando in prospettiva, sulle loro potenzialità non del tutto espresse. Quando io ho cominciato a teorizzare nel '72 i cinque artisti della trasavanguardia, loro usavano ancora tutti la fotografia, venivano dalla narrative-art (che era già un uso soggettivo autobiografico della fotografia) ma non erano pittori. Feci una mostra nel '75 a Roma che si chiamava 'Disegno-trasparenza', (sul disegno non come propedeutica per l'opera ma fine a stesso), sul recupero della manualità, ... però è chiaro che sono stato stimolato dalle opere degli artisti stessi.
Il problema è questo, che ognuno di noi ha bisogno di una sponda, (penso all l'erotismo); l'arte non esisterebbe se non ci fosse il mondo e la critica non esisterebbe se non ci fosse l'arte; però questo vuol dire anche una forte autonomia culturale, riconoscimento di specificità che diventano complementari in una condizione di divisione intellettuale del lavoro.

M/R: Tu hai accennato alla 'critica performativa', all'ingerenza fisica del critico nella critica come ad una precisa modalità dell'esporre il pensiero; viene in mente per esempio Le Corbusier che ha costruito sulla ripetizione delle proprie 'conferenze-comizio' internazionali una propria forma di comunicazione teorica; vi sono però anche altri organi di comunicazione, più o meno tradizionali della critica: dai testi saggistici ai testi espositivi, dalle colonne di giornale al video ...

B.Oliva: Io che, come sapete, sono stato uno dei primi intellettuali a transitare sui mass-media, all'inizio l'ho fatto per misurare il mio stato di salute, per uno spirito del gioco; poi l'ho considerato un mezzo di verifica di ciò che teorizzavo nel recinto serio dei saggi e delle mostre, senza però mai abbassare il livello.

M/R: Quindi un pensiero indifferente ai mezzi comunicazione, indifferente all'intuizione di McLuhan per cui la scelta del mezzo è già la scelta del messaggio?

B.Oliva: E no! Tanto è vero che io (sono) ho teorizzato la mostra come medium autonomo. Prima la mostra veniva vista solo come uno spazio esecutivo, per me la mostra invece è un mezzo di comunicazione in sé, un linguaggio propositivo autonomo, che induce un livello di riflessione parallelo a quello per esempio saggistico... Ci sono varie componenti, lo spazio, l'opera, l'installazione, il percorso ...

M/R: ... e la televisione è un pulpito allargato, o promuove una riflessione autonoma sulle cose dell'arte?

B.Oliva: Io credo che la televisione non sia soltanto un pulpito allargato... insomma, la televisione che cosa ha dato? La performatività; quella condizione per cui tutto si affida all'indicazione del soggetto (più che dell'oggetto), sia egli un critico o un artista; tutto si affida alla segnalazione critica di quel soggetto performativo, al fatto che il critico divenga ...

M/R: Un garante?

B.Oliva: Si, ... ma perchè performativo? Perché la televisione è performativa? Perché non trasmette messaggi, ma trasmette presenze.
Allora la mia tempestività, il mio protagonismo ha dato performatività alla critica. I miei modelli sono stati Sant'Ignazio da Loyola, che ci ha indicato i precetti per passare alla santità, quindi per l'artista all'immortalità, Maradona che è quello che mi ha insegnato a tenere sempre la palla al piede, e Andy Warhol. Il fatto mi pare proprio molto indicativo: cioè (che) l'allargamento nel sociale dell (cornice ) 'intervento fuori dalla galleria fino ad arrivare ai mass-media significa forte identità culturale, capace di confermare il valore di ciò che il critico sostiene. Penso per esempio a ciò che Andy Warhol ha fatto (anche) con dei gruppi musicali, (penso d)a Lou Reed a David Bowie ...
E' chiaro che all'inizio io sono stato visto come un destabilizzatore, una presenza scomoda; scomodo per i critici, per gli artisti esclusi, ma anche per gli artisti inclusi perché il mio protagonismo dà presenza ad una figura che prima era laterale: il critico, servo di scena dell'arte. E quindi diventa antagonista, a volte in rotta di collisione con il narcisismo dell'artista.

M/R: A proposito di narcisismo, tu hai partecipato da protagonista alla critica militante degli anni '70, una stagione di koinè culturali, di visioni ideologiche, di partecipazione ai temi ed agli obiettivi delle varie rivoluzioni in atto. E vi partecipi oggi, in chiusura di secolo, in un clima del tutto opposto, fondato sulla difesa del self, dell'io singolare, dell'hospitalitas di molteplici mondi possibili ...

B.Oliva: Io ho svolto sempre il ruolo del critico militare più che militante, nel senso che ho sempre praticato un lavoro teorico ed operativo in cui ero, oltre che l'arma, anche il bersaglio, sempre in vista; e ho dato visibilità e responsabilità al mio ruolo, anche in dissenso con quello che è il riferimento dominante. Non dimentichiamo che in quegli anni si teorizza l'arte povera, l'arte come guerriglia, (finita poi a metà degli Anni '90 nelle boutique degli stilisti...). Allora l'arte come guerriglia significava l'arte povera in sintonia con il momento del dissenso giovanile. Io, già nel mio primo libro, 'Il territorio magico', uscito contemporaneamente al libro sull'arte povera, faccio una lettura antropologica dell'arte, introduco artisti che non citano il materiale naturale ma il materiale culturale... Negli anni '70 c'era quest'ottimisimo, da una parte il dissenso giovanile che pensava di dare una spallata al sistema e dall'altra, l'arte...

M/R: L'ultima domanda la rivolgiamo più al conoscitore di cose dell'arte che al critico. Nel 'Dedalus' Joyce affronta il tema della formazione intellettuale di un giovane poeta (secondo la tradizione del Bildungsroman) e si concentra sulle scelte poetiche ed ideologiche che un artista deve affrontare in gioventù. Tra i numerosi interrogativi, ve n'è uno molto schietto e straordinariamente non covenzionale (Anno Domini 1914!) che ti rivolgiamo: Stephen, il protagonista, si chiede:
"Se un uomo, intagliando con frenesia un pezzo di legno, ne trae l'immagine di una mucca, è quest'immagine un'opera d'arte? E se non lo è, perché?"

B.Oliva: Diciamo che l'arte essendo produzione di catastrofe linguistica, quindi lettura di un codice, deve modificare la convenzione del vedere. Allora se questa mucca sviluppa una perturbazione e crea anche il sospetto di uno spostamento iconografico allora può produrre un'epifania, un disvelamento.
Quindi diciamo che l'arte del passato sono tutte le opere pubblicate nei libri di storia dell'arte e che l'arte del presente è ciò che l'artista produce ed il critico seleziona. Ma vi è anche un altro tragitto, che è come passare dalla gravità terrestre ad uno spazio siderale, in cui certi lavori si producono inaspettatamente ed avranno la forza di uscire dall'attrazione terrestre e permanere.

M/R: Quindi l'arte è uno spostamento?

B.Oliva: Uno spostamento in avanti, con tutti i valori della lateralità, una specie di passo del torero. Passo che conserva l'erotismo e il pathos di Nospheratu il quale affermava nei suoi incontri con le 'Vittime': 'Voi del villaggio non conoscete lo stato d'animo del cacciatore!'. Nel nostro caso naturalmente Nospheratu non è un critico sardo, semmai la nominazione di una posizione critica che seleziona la 'Vittima'. Vittima che non è un'oggetto precostituito, ma l'opera d'arte colta nelle sue rotte dinamiche, e giudicata positivamente come fonte inesauribile.