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Count-Down (1998 - 2000) Anno 3 Numero -2 maggio-novembre 2000



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Riccardo Palma



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Silvia Malcovati e Massimo Randone
n. -3 Giugno 1999

PENSARE L'ESATTEZZA
Luigina De Santis
n. -5 Giugno 1998


"Ceci tuera Cela", ad ogni rivoluzione mediatica il problema di una scomparsa dell'architettura ad opera dei mezzi di informazione si ripresenta puntuale. Ogni volta, però, l'architettura sopravvive e anzi, a dispetto della sua paventata smaterializzazione, si fa sempre più pesante, più grande, più monumentale. Basta confrontare un odierno stadio con una di quelle cattedrali in cui Victor Hugo temeva la scomparsa ad opera della stampa per capire come la leggerezza intesa in quanto immaterialità sia difficilmente inscritta nel destino dell'architettura. Parafrasando Dalì che nel commentare le sculture di Calder diceva: "il minimo che si possa pretendere da una scultura é che stia ferma", non é forse così sbagliato pensare che il minimo che si possa pretendere da un'architettura é che sia pesante. E' difficile infatti ritornare oggi a prevedere una fine dell'architettura per mano dei minuscoli microchips dei computer e degli impalpabili fasci di dati che in essi transitano, ma semmai, come giustamente scrive Carpo più sopra, possiamo pensare ad edifici "pesanti" che diventano improvvisamente "leggeri" perché divenuti ormai inutili contenitori di ciò che non ha più volume. Possiamo pensare, dopo decenni di saccheggio del territorio urbano e rurale, allo "svuotamento" come operazione di alleggerimento, come rarefazione, come costruzione di spazi "per levare". Oggi il "meno" può veramente essere un più, come del resto spesso é successo nella storia della città quando gli sventramenti, le grandi operazioni urbanistiche barocche ma anche ottocentesche hanno inteso il progetto urbano quale operazione essenzialmente "sottrattiva" che vedeva nel vuoto non un'assenza ma una forma. Ma se Michelangelo poteva credere in una presenza "vera", "pura" e "giusta", nascosta nelle venature del marmo, presenza che doveva essere rivelata dallo scalpello in qualche modo "demolitore", oggi togliere, abbattere, rendere più "leggeri" città e territori, significa forse non tanto distruggere il superfluo o il "brutto" per liberare finalmente il "vero" territorio o la "vera" città, per farne una sorta di fotografia ad un dato momento della storia o riscoprire un mitico stato originario. Piuttosto, di fronte a un territorio che é sempre stato plurale, stratificato, complesso, l'opera di demolizione sembra più simile alla dis-locazione degli oggetti - che letti tutti assieme producono il caos dello spazio contemporaneo - in ordini diversi, sovrapposti, non necessariamente comunicanti o coerenti tra loro. Il demolire assomiglia più allo scavare, al sezionare, separando le cose per riconoscere le similitudini, gli ordini, le figure che esse costantemente nascondono fino a quando le guardiamo tutte assieme. Nell'"eterno presente" dei nostri territori si fa paradossalmente spazio la possibilità di una sorta di "archeologia della contemporaneità" che come la vera archeologia, non pensa a togliere gli strati per giungere finalmente a quello "giusto", ma agisce sapendo che tutti gli strati sono importanti ed è quindi importante distinguerli, sfogliarli, elencarli, costruirne la visibilità adagiandoli su un "piano di consistenza" sul quale possono essere "letti" e abitati (anche perché può sempre capitare come è successo a ?Schleiman?, di credere di trovare Troia quando lo strato ad essa corrispondente lo si era già sorpassato da un pezzo!). Perciò il problema della leggerezza dell'architettura nella città e nel territorio contemporanei non sembra tanto riposare nell'uso di tanto vetro per le facciate o nel calcolo di pilastri e volte più sottili, ma forse proprio nell'operazione, concettuale ma anche tecnica, della "messa in piano". Nel passaggio eminentemente cartografico che sposta, l'architettura, dal mondo degli oggetti "pesanti" a quello "leggero" degli infiniti layersche la carta contiene, si produce una leggerezza che sembra coincidere con la sfogliabilità e quindi con la pluralità delle "letture" con le quali possiamo progettare il territorio; con la possibilità cioé di accumulare una sopra l'altra, molteplici figure, molteplici strati, senza mai avere il problema di scegliere quello "giusto". Una "leggerezza" che, allontanando il "peso" di una verità unica e assoluta può fare spazio addirittura ad una "lieve"e, forse, salutare, ironia. Se quindi diradare e abbattere significa anche allocare o dislocare le cose in "piani" differenti, separandoli e allontanandoli tra di loro, problemi come quello delle palazzine abusive diventano problemi prettamente giudiziari legati ad un reato contro l'ambiente e la collettività che non devono però esaurire le mosse di una possibile strategia di alleggerimento del territorio. Questa strategia passa necessariamente per la constatazionz - così drammatica per i geografi contmporanei, ma forse così produttiva per chi si occupa di progetto - dell'impossibilità di distinguere il territorio dalla sua carta, l'oggetto della sua rappresentazione. Per chi progetta dentro questo territorio-carta abbattere significa "fare spazio" ma anche (automaticamente) "fare spazio a qualcos'altro" perché sotto una carta ce n'é un'altra e un'altra ancora, all'infinito; perchè i "mille piani" di cui è fatto il territorio in virtù della loro "sottigliezza" e "leggerezza"non si arrigheranno mai il diritto di dire, finalmente e una volta per tutte, che cosa esso sia. Come tutti sanno, del resto, in pasticceria la torta considerata più leggera, più lieve e più fragrante é proprio la Mille-fogli.