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Flash Art Italia (1999 - 2001) Anno 34 Numero 225 Dicembre 2000 - Gennaio 2001



La Grande New York

Massimiliano Gioni

Nuove Idee e Nuove Frontiere



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Damien Hirst: The Problems with Relationships 1996, Gagosian Gallery, New York

Sislej Xhafa, Benvenuto, Arte all'Arte 2000, Collevaldelsa

Gabriele Picco, Uteroland, Galleria Ciocca, Milano

La mostra di Damien Hirst è forse l'esempio più frastornante di cosa significhi la parola "Arte" oggi a New York. Hirst da Gagosian è prima di tutto una questione di dimensioni: uno spazio immenso di quasi 20.000 metri quadri, una trentina di pezzi, una trentina di scheletri, due teche trasformate in acquari con pesci vivi e coloratissimi, un pupazzo che tamburella meccanicamente le dita sul tavolo mentre maneggia un microscopio, palline da ping pong che rimbalzano in contenitori di vetro, le pareti completamente coperte da carta millimetrata, altri teschi e altre palline da ping pong che ruotano sospese a mezz'aria. Spade, televisori, spazzatura e panini, ottomila pillole colorate accuratamente ricostruite a mano, fino nei minimi dettagli, e poi allineate con perizia maniacale su sottilissime mensole di metallo. Qua e là non so quanti dipinti, di tutte le
dimensioni.
Record di quattromila visitatori in un solo giorno, un hangar noleggiato prima che aprisse la mostra per provare la disposizione dei pezzi, servizio d'ordine in ogni sala, Salman Rushdie, Jeff Koons e Richard Serra tutti presenti all'inaugurazione invasa da una folla da concerto rock ("Quel tipo di inaugurazione in cui due persone perse tra la folla si devono chiamare al telefonino per darsi un appuntamento all'uscita", ha scritto Jerry Saltz, tra le voci più brillanti della critica d'arte newyorkese). E poi: recensioni, quasi tutte
positive, interviste, articoli e ritratti - in The Arts Newspaper, in W, con tanto di foto di Sam Taylor Wood, e nell'immancabile Vanity Fair, con le immancabili foto di Todd Eberle. Di nuovo Jerry Saltz: "Hirst non è affatto finito, né fuori moda: è ancora più grande, forse più discontinuo, ma più in forma che mai. La sua terza mostra personale a New York è incredibilmente corporate, in perfetto stile multinazionale, professionale fino a toglierti il fiato, costruita per intrattenere. Ogni pezzo è grandioso, teatrale, tirato a lucido e piacevole. Arte e denaro sono fusi a livello subatomico: arte ed esibizionismo si mescolano alla perfezione". Theories, Models, Methods, Approaches, Assumptions, Results, and Findings è puro Damien Hirst 2000: i suoi temi ci sono tutti, ma pompati all'ennesima potenza, scagliati nel regno della "iperproduzione", per rubare le parole a un'altra recensione di Roberta Smith. E quindi cadaveri, animali, palloni sospesi, manichini anatomici e il miracolo della vita e l'alchimia della morte trattati con la spregiudicatezza di un pubblicitario. Il tutto rigorosamente ingabbiato in teche di vetro e metallo, che subito ricordano le scatole del minimalismo, le vetrine del NeoGeo, il distacco funereo di Warhol e i riti pantagruelici di Bacon.
Purtroppo qua e là si sente un improvviso calo di tensione: la morte per Hirst è ormai pura simulazione, o, peggio, routine. E si sente la mancanza di quel vecchio pescecane morto stecchito, che qui è stato sostituito dai pesci tropicali coloratissimi, pieni di vita, stucchevoli. In altre parole, di fronte a ogni pezzo si ha il dubbio che Hirst si sia perso in una specie di manierismo, in una parodia di se stesso: si è lasciato la tragedia alle spalle e si è dato alla farsa. Lavora per temi e non per necessità.

In realtà, esprimere solo un giudizio estetico su questa mostra significa perderne il senso profondo: impossibile trascurare Damien Hirst, ma anche impossibile analizzare la sua opera con i soli strumenti della critica d'arte. Famiglie con tanto di passeggino e bambini, turisti, anziane signore a bocca aperta, telecamere per riprendere tutto e tutti, come se si fosse in un parco giochi: questo ormai è il pubblico di Hirst. Un pubblico nuovo, che forse non ha mai messo un piede in una galleria. Proprio per questo, Hirst conserva una certa
grandiosità, anche rivoluzionaria, e si candida forse a diventare il primo artista rock star. Ma a quel punto dovrà lottare contro David Bowie o contro l'Empire State Building. E dovrà decidersi a vendere il catalogo a un prezzo più abbordabile, magari con un CD Rom o almeno un autoritratto in miniatura.

Italiani A New York italiani a new york Mentre Vanessa Beecroft si sposa in cinemascope e Maurizio Cattelan consulta compulsivamente i giornali da Barnes e Noble alla ricerca di pagine per il suo prossimo Permanent Food, una nuova ondata di artisti italiani arriva a New York in cerca di fortuna. Francesco Vezzoli passa in città ogni due mesi: per molti è già una faccia familiare. Informato, determinato, si divide tra Uptown, dove tende le sue imboscate a dive e divi da coinvolgere nei suoi prossimi film, e Downtown, per vedere tutte le mostre. Ora è di ritorno in Italia, e dice che la sua mostra preferita è quella di T.J. Wilcox da Gavin Brown Enterprise. Gabriele Picco è l'ultimo arrivato: ha vissuto per due giorni in una casa occupata con il cesso in cucina, poi è fuggito a Uptown nei pressi della Columbia University: ha incontrato Serrano in un ristorante giapponese, gioca a scacchi a Washington Square e le sue mostre preferite sono Damien Hirst e Matthew Ritchie. Sislej Xhafa ha trovato casa in tre giorni: vive nel Bronx, ed è il primo con una mostra a New York, una collettiva da Apex Art. Mostre preferite: Johnny in Little Albany, i topi e la spazzatura di New York

Massimiliano Gioni è U.S.A. Editor di Flash Art International. Vive e lavora a New York.