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Flash Art Italia (1999 - 2001) Anno 34 Numero 226 Febbraio/marzo 2001



Artertainment

Marco Senaldi

Dal grande vetro al grande fratello - Essere e Schermo



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John de Mol

Chris Burden

Georgina Starr, Crying, 1993 u-matic videotape 3.52 minutes

Si tende a dimenticare il fatto che Rudolf Schwarzkolgler, nelle sue azioni degli anni Sessanta, ha quasi sempre utilizzato come soggetto il suo modello prediletto, Heinz Cibulka.
Eppure, questa constatazione ci permette di oltrepassare il falso mito di uno Schwarzkogler autolesionista dedito a un'arte suicida: la bodyart nella sua estrema espressione, quella dell'azionismo, nonostante l'apparente violenza dei contenuti e la brutalità delle immagini, ha introdotto una duplice distanza nell'azione diretta, che non sempre era svolta in prima persona dall'artista, ma sempre era attuata per essere riprodotta fotograficamente o in video. Per mettere la cosa in termini un po' più diretti, possiamo dire che è un errore concepire la bodyart - la più radicale tra tutte le espressioni artistiche intese a distruggere la linea demarcatrice tra arte e vita - come un'arte della verità "immediata", come un'esperienza irriflessa e spontanea, non solo per l'aspetto cerimoniale di tutte le performance, ma anche per la costante presenza attorno all'evento di tutti i dispositivi adatti per salvarne la memoria.
Questo risultava chiaro anche all'epoca stessa in cui ebbero luogo le prime azioni: sotto gli occhi dei presenti avvengono appunto le esibizioni nude e dirette del corpo con tutti i suoi prolungamenti; ma l'occhio nudo degli spettatori che fanno circolo è prontamente doppiato dai molti occhi meccanici o elettronici degli apparecchi fotografici e delle camere che coi loro clic e il loro tenace ronzio fanno da sottofondo.
In altre parole, la presenza della "mediazione" non si ritrova nell'arte performativa solo a livello di documentazione dell'evento stesso, ma ne fa parte integrante. Il che è ancor più vero quando si considerano gli svolgimenti di alcune performance famosissime, come Seed Bed di Acconci (in cui l'artista si masturbava sotto una piattaforma sopraelevata della Sonnabend Gallery, mentre ogni suo gesto era rimandato in diretta su un monitor posto nello spazio espositivo) o il fatto che molti dei bodyartisti abbiano trovato naturale proseguire la propria attività nell'ambito del video o del cinema (Valie Export, Carolee Schneemann, Rebecca Horn) - fino ad arrivare alle dichiarazioni recenti di Marina Abramovic, che considera legittimi i rifacimenti delle sue performance da parte di altri dato che "una performance dovrebbe essere... soggetta all'interpretazione ed eseguita come si desidera".
Più l'evento-performance tende verso la "vita vissuta", più esprime la mediazione degli strumenti impiegati per catturarlo; così come oggi, più gli artisti che impiegano il video tendono ad esaltare il medium, più debbono riempirlo di vita vissuta.

Who is Big Brother?

Scambiare Cibulka per Schwarzkogler è un po' come prendere Schwarzenegger per Verhoeven, o Pietro Taricone per John de Mol. Se anche i nemici più integralisti del Grande Satana televisivo hanno ormai imparato a conoscere il bulletto protagonista del Grande Fratello, pochi conoscono chi ha ideato la trasmissione che sta alla base del format italiano. L'autore, John de Mol, è un olandese che ha costituito una società creativa, la Endemol (acronimo dei nomi de Mol e del socio Joop van den Ende) quasi in obbedienza alle regole dettate dalla business art già all'inizio degli anni '90 (con mostre storiche come Business-Art-Business, 1993, al Gronigen Museum di Groninger - non a caso in Olanda - il cui catalogo era contenuto in una scatola da pizza).
De Mol ha al suo attivo idee come The Bus, format tv incentrato anch'esso sulla convivenza, a cui però deve aggiungersi il nomadismo e la sopravvivenza; in questo caso in fatti si tratta di riprendere un gruppo di 16 persone che viaggiano per sedici settimane su un autobus a due piani. Ancor più indicativo è Chains of Love, un esperimento basato sul senso non metaforico del "legame". In sintesi, una ragazza sceglie cinque ragazzi che le piacciono; tutti e sei devono però vivere incatenati l'uno all'altro per una settimana.
La ragazza elimina un ragazzo al giorno, fino a quando l'ultimo sarebbe teoricamente il suo favorito.
Infine Big Brother: per quest'ultimo, de Mol sostiene di essersi ispirato al progetto scientifico Biosphere, un esperimento americano teso a ricreare in un ambiente chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. Tuttavia, mentre Biosphere era interessato a verificare la possibilità di vita in un ecosistema autosufficiente, Big Brother focalizza l'attenzione sulle dinamiche umane, considerando come "ambiente" un gruppo ristretto di persone, cinque uomini e cinque donne.
Questo gruppo accetta di vivere per cento giorni entro una situazione domestica, senza relazioni con l'esterno se non mediate dall'autore o dai suoi assistenti, senza poter comunicare con nessuno all'infuori degli altri nove compagni. La vita del collettivo e le dinamiche relazionali che si instaurano durante la convivenza vengono riprese ventiquattr'ore al giorno, e trasmesse su uno dei maggiori network televisivi nazionali. Inoltre, l'operazione è strutturata come un gioco a eliminazione, perché ogni due settimane ogni concorrente deve entrare in una camera appartata e indicare quale degli altri intende candidare all'eliminazione. I due o più concorrenti che vengono nominati sono poi sottoposti al giudizio del pubblico che, telefonando, decide chi deve uscire dalla casa di Big Brother.

"It's not me, It's you"

Il dibattito che Grande Fratello ha scatenato dipende dalla sua estetica.
Proprio come occorre dire che il merito della body art non è consistito tanto in un recupero del corpo, ma nel mediarne la verità tramite il video, si può sostenere che Grande Fratello abbia introdotto la verità performativa nel flusso televisivo. Grande Fratello è principalmente una performance mediale: per chi sta "dentro", in quanto sistema di relazioni umane; per chi guarda, in quanto non può fare a meno di relazionarsi a questa relazione. La scarna semplicità del format ostenta visibilmente quella situazione insieme psicologica e culturale che è stata definita, in opposizione allo stadio dello specchio, stadio-video. Mentre il primo indica il momento in cui il bambino, riconoscendo la propria immagine riflessa, diventa consapevole della propria identità, nello stadio-video il soggetto diventa consapevole della propria dis-identità, del fatto di non essere mai completamente se stesso, di essere eternamente più e meno-di-se-stesso. Le cose vanno un po' come quando, in un autogrill o in un altro luogo sorvegliato dalle telecamere, guardiamo il monitor di controllo e scopriamo che quella figura sullo schermo, che ci appare contemporaneamente nota ed estranea, siamo noi. In Grande Fratello accade la stessa cosa: non siamo di fronte a uno spettacolo con cui ci viene chiesto di identificarci, a divi che ungono da modello, siamo davanti ad altri noi, siamo davanti a noi stessi come altri - il salotto della Casa e il nostro soggiorno di casa si somigliano in modo preoccupante nella loro differenza, differiscono nella loro somiglianza.
La struttura della trasmissione inverte tutte le differenze, rovescia tutte le distanze: il reale diventa reality-show, il mediale diventa immediato e il vissuto immediatamente è televisivo; infine, rende paradossalmente vero il vecchio slogan secondo cui "tutto ciò che è privato è politico" - in una fase storica in cui la polis coincide con l'audience, ossia in cui "tutto ciò che è politico è privato" (caso Lewinski docet).

Chains of Art

Ma che rapporto c'è tra l'arte contemporanea e questo genere di prodotti televisivi?
È sintomatico che molte delle critiche rivolte al Grande Fratello un po' da tutte le parti sarebbero indirizzabili senza sforzo alla maggior parte dell'arte contemporanea degli ultimi cinque decenni: il fatto che sia stato definito "un massacro psicologico" fa pensare alle massacranti performance di Abramovic (Rythm 1 e 2, in cui si imbottiva di psicofarmaci), o
di Chris Burden (che per Five Days Locker Piece, 1971, si fece rinchiudere per giorni in un armadietto); l'accusa di mettere in piazza i sentimenti personali fu già rivolta a Sophie Calle (in L'homme au carnet pubblicò su un quotidiano nomi e foto da un'agenda trovata casualmente); infine, il fatto che possa portare l'individuo sulla soglia della crisi di identità è anche una delle caratteristiche dei lavori di artisti come Yasumasa Morimura o di Luigi Ontani.
Se consideriamo anche solo l'esperimento di una trasmissione tv come Chains of Love, si vede bene come anche un prodotto televisivo non è alieno dalla cultura in cui si inscrive, e che l'opinione secondo cui la tv tende a far degenenare il dibattito critico e ottunde le coscienze, è forse da rivedere. Chains of Love infatti rimonta al concetto di legame come vincolo, d'affetto, sociale, economico, che nelle nostre società si afferma in maniera sempre più metaforica, e per questo meno facilmente individuabile. Materializzando il vincolo in forma diretta, sotto specie di catena, Chains of Love non fa che riprendere alcuni elementi del discorso artistico già archiviati nella storia della performance: Marina Abramovic e Ulay che per un certo numero di ore restano seduti e legati reciprocamente dai capelli, o che rimangono in bilico in posizione di equilibrio pericoloso, lei stringendo un arco di cui lui tiene la corda con la freccia pericolosamente incoccata, non fanno che anticipare le performance mediate dal video nel lavoro di Matthew Barney, che tra i suoi eroi eponimi introduce il mago Houdini, celebre appunto per riuscire a liberarsi da qualsiasi legame nelle condizioni più sfavorevoli (sott'acqua, fra i ghiacci, chiuso in una cassaforte, ecc.), o quei personaggi a metà fra masochismo estremo e sadismo che riducono il loro giro vita a pochi centimetri grazie a cinture di contenzione sempre più strette, fino a deformare il proprio corpo. Ma forse la performance che più di tutte ricorda da vicino Chains of Love è One Year Art/Life Performance, un'opera i cui autori furono i poco noti Linda Montano e Tehching Hsieh, che nel 1982 decisero di rimanere legati da una corda di tre metri per un anno. Partendo dal presupposto che tutto ciò che facciamo sia arte (affermazione che risale a Kaprow), questa performance aveva, nelle parole dei due artisti, il compito di elevare ad arte anche i momenti negativi che si possono verificare quando,
restando legati materialmente a un'altra persona, i nostri momenti di privacy vengono negati - ma c'era anche lo scopo di dimostrare che non siamo mai soli, che siamo sempre legati all'altro anche quando pensiamo di no.

Artertainment
Anche Grande Fratello non solo si inscrive in un ben preciso contesto storico, ma si appropria di un'estetica e la rende popolare. L'estetica del quotidiano, in una società mediale, è quella della bassa definizione; per questo Grande Fratello è stato paragonato al fenomeno altrettanto sconcertante delle camere a circuito chiuso, dei video amatoriali, ma soprattutto delle webcam. Apartment21.com, citato da Wayne Koestenbaum su Artforum (dic. 2000) fra "le dieci cose migliori dell'anno", è un sito in cui era possibile osservare tre giovani che occupavano un appartamento in cambio di una web-sorveglianza 24 ore su 24, non diversamente da quanto è accaduto per l'appendice web di Grande Fratello. Il pubblico è disposto a fare da protagonista, non solo perché può intervenire sul destino dei partecipanti al gioco, ma anche perché i partecipanti stessi non mostrano di avere abilità specifiche ("artistiche") che chiunque non potrebbe possedere.
Ma il tema dell'impiego del pubblico come risorsa estetica non sta forse alla base della stessa nozione di arte contemporanea?
Tutti conoscono le parole di Duchamp a proposito del fatto che sono gli spettatori a completare l'opera degli artisti col fruirla. Grande Fratello sembra fare la stessa cosa, ponendo al di là dello schermo delle persone "comuni": se non accade nulla che non potrebbe succedere al di qua dello schermo, ciò significa che lo schermo ha perso il suo usuale significato di distinzione tra emittente e ricevente, tra verità e finzione - tutte differenze che nell'ambito artistico erano già state poste in discussione nell'opposizione tra arte e vita. Non solo film come Sleep (1963), oltre sei ore di ripresa di un uomo che dorme, ma anche opere come il "pornografico" Blue movie (1968), entrambi di Warhol, per l'uso della camera fissa, l'assenza di tagli e montaggio, e persino la mancanza di un operatore dietro la mdp hanno certo molto a che vedere con il concetto di duplicazione, più che di riproduzione, della vita vissuta tipico del Grande Fratello. Ancora più sottili in questa direzione sono le intuizioni di Bruce Nauman sullo stadio-video (in Video Corridors, 1968, lo spettatore si avvicina a un monitor in cui vede se stesso allontanarsi), o i lavori di Dan Graham in cui "lo spettatore viene integrato nell'informazione": alla Biennale di Venezia del 1976 Graham presentò un ambiente diviso in due da un vetro a isolamento acustico; gli spettatori entravano nei due spazi simultaneamente osservando al di là di un vetro non un'opera d'arte, ma altri spettatori (Public Space/Two Audiences, 1976), che a loro volta venivano riflessi da uno specchio.
Sono opere come questa che hanno ribaltano la logica secondo la quale comunicare vuol dire trasmettere un messaggio da un emittente a un ricevente e di conseguenza sostituito la metafora della tv come "finestra sul mondo", con l'idea di una comunicazione-boomerang in cui la finestra si apre paradossalmente su chi la guarda. Tuttavia, questo tipo di azioni artistiche pongono interrogativi inevitabili quando trovano la loro applicazione nel campo assai più vasto e influente dei mass media. In quel contesto, si dice, le cose cambiano: quello che ha un aspetto di denuncia sociale diventa oggetto di entertainment, e il valore patologico di contestazione dell'esistente rischia di divenire una nuova maschera con cui l'esistente si pone di fronte ai nostri occhi sottraendosi ad ogni possibile critica.

Reality-made

In realtà, ciò a cui assistiamo è il fatto che i sintomi artistici sono realmente divenuti di massa, ossia che effettivamente il divario arte-vita è stato superato, anche se in un senso apparentemente imprevisto. Così, se la "vita" verso cui gli artisti hanno indirizzato le loro indagini era comunque l'effetto di un'elaborazione mediale (fotografia, video, video-performance) la trasformazione in realtà delle loro più segrete aspirazioni si avvera attraverso una ancor maggiore medializzazione - prende corpo e vita nel campo televisivo diventando real life soap. Ecco che allora i giudizi nei confronti del Grande Fratello in quanto trasmissione che omologa le differenze e distrugge l'individuo fanno parte delle considerazioni isteriche di una presa di distanza impossibile e paradossale.
Ancora una volta l'arte si autoesclude dalla vita reale, giudicandola istericamente "non vera" ("Questo non è quello che intendevo!"); oppure ci si affida ai giudizi apocalittici che ci dicono che la realtà è sparita sotto il dominio del reality show. Ma se l'equiparazione fra vita e ready-made è cosa fatta, ciò è accaduto in forza di un'estetica e di una struttura comunicativa che l'arte aveva da tempo anticipato e fortissimamente voluto; è questo ciò che il reality show ha derivato dal readymade prima, e dalla performance poi. È piuttosto logico che il reality show funzioni come lo scolabottiglie di Duchamp, e che chi vi partecipa si trasformi in readymade vivente: ad aver preso il posto dei readymade infatti, non sono solo i poveri peones dei talk-show "inconsapevolmente" sottratti alla cornice interpretativa. Quando Sophie Calle utilizza dei frammenti da ready-life, o Georgina Starr piange per mezz'ora davanti al video, o Tracey Emin trasferisce il suo monolocale in galleria per mesi, esprimono una real life art che riflette non tanto la real life, ma la real life soap. Più che altro, Grande Fratello è una performance da schermo, anzi "da camera" e forse non per caso Taricone & Co. hanno rinverdito i fasti delle anthropométries di Yves Klein (già messe in cinema, ricordiamolo, da Gualtiero Jacopetti nel suo Mondo Cane, prima, e da Robbe-Grillet nel suo Spostamenti progressivi del piacere poi). Grande Fratello non è in fondo che una enorme antropometria catodica.

Arte e Forum

Se l'arte e gli artisti vogliono davvero mantenersi al livello della denuncia patologica, non possono avere paura di confrontarsi col campo massmediale. Alcuni artisti, come Arpiani-Pagliarini e Maurizio Finotto, lo hanno fatto. Nel 1997, Arpiani-Pagliarini, col pretesto della gelosia della fidanzata Raffaella per la gallerista milanese di Federico, Emi Fontana, hanno partecipato a Uomini e donne, (Canale 5) il talk-show pomeridiano leader d'ascolti condotto da Maria De Filippi. La vicenda dei due, che unisce l'aspetto privato (Raffaella Arpiani e Federico Pagliarini sono davvero una coppia nella vita) con l'aspetto pubblico del lavoro artistico, non manca di suscitare la curiosità del pubblico in studio. Sollecitata, la gallerista interviene telefonicamente, ma la sua smentita è ambigua. Nel frattempo non si capisce affatto che tipo di arte faccia Federico. Spunta addirittura un diario al quale lui avrebbe confidato i suoi segreti tormenti d'amore, ma l'artista si difende sostenendo che si tratta di un'opera d'arte! Alla conduttrice che chiede a Federico Pagliarini "se scolpisce o dipinge", lui risponde che i suoi "sono soprattutto allestimenti, che sono lavori uno diverso dall'altro. Difficile spiegarlo nel dettaglio con termini generali". Solo molto tempo dopo si verrà a sapere che la loro partecipazione era stata concordata in precedenza con la gallerista, e che tutto l'insieme aveva costituito quella che potremmo definire una performance mediale. Ma è arte questa? L'"indecidibilità" è ribadita da un'altra invasione televisiva del duo: nel settembre 1998, infatti, Raffaella Arpiani porta Federico davanti al giudice di Forum (Rete 4) per chiedere che venga riconosciuta pubblicamente la sua partecipazione al lavoro artistico del fidanzato. Ancora una volta non si capisce esattamente in che cosa consista questo "lavoro": ma Santi Licheri decreta che i due cognomi vengano affiancati in ordine alfabetico e "ufficializza" la società (con più valore che se fosse stato fatto da Artforum!). La Fondazione (Finotto-D'Incà) agisce invece nelle pieghe del palinsesto della pay-tv Tele+, con un breve inserto in cui tutto ciò che lo spettatore ha appena finito di vedere (di solito un film di
grande richiamo) viene spiegato secondo i dettami della "critica delirante" di Dalì - in base ai quali qualunque cosa può significarne qualunque altra. Ne segue una serie di interpretazioni tanto surreali quanto meticolose, la cui credibilità dipende dalla inveterata convinzione che deve essere vero "perché l'hanno detto in televisione". Se nell'operazione di Arpiani-Pagliarini , il destino di ogni cosa deve iscriversi nello stadio-video (sub specie talk o reality-show) l'Arte stessa appare come un ready-made, come una cosa che è insieme più e meno-di-se-stessa. D'altra parte, La Fondazione
dimostra che anche la tv può essere messa tra parentesi e ridotta a una Brillo Box. Il punto però da non perdere è che per effettuare entrambe queste operazioni, e quelle che seguiranno, non basta rovesciare un messaggio che non ci piace, perché se quel messaggio è anche il nostro, occorre farsene carico, rovesciare anche noi, interpretarlo in prima persona. In altre parole questi artisti dimostrano che non è scandaloso se i ragazzi del Grande Fratello giocano con il sacro crisma di Yves Klein, poiché la vera consapevolezza nasce dal fatto che né lui né loro da tempo sono soltanto ciò che credono di essere.

Marco Senaldi è critico d'arte. Vive e lavora a Piacenza.