PUBBLICO DI MERDA!

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Indice :

1 Scopri tutti gli appuntamenti e i contenuti speciali della rassegna

2 AGRODOLCE

3 SPECCHIO RIFLESSO

4 PELLICOLE

5 Introduzione al primo focus: AGRODOLCE

6 SORRIDI!

7 La fotografia è un elettrodomestico spettacolare

8 Terra di mezzo

9 Lo spettatore come cavia

10 Marco Giusti, testo introduttivo al lavoro Audience di Marco Calò

11 PUBBLICO DI MERDA!




(Non è ancora domani) La pivellina, Tizza Covi, Rainer Frimmel, 2009



La bocca del lupo, Pietro Marcello, 2009



Jaguar, Jean Rouch, 1967



Moi, un noir, Jean Rouch, 1958



Nanook of the North, Robert J. Flaherty, 1922



No quarto da Vanda, Pedro Costa, 2000



Face (Screen Tests series), Andy Warhol, 1965



Sacro Gra, Gianfranco Rosi, 2013



Tir, Alberto Fasulo, 2013

Conversazione tra Fabrizio Bellomo (artista e curatore della rassegna Prosecco e pop corn) e Rinaldo Censi (studioso dell'immagine - esperto di Filmologia, storia e Filologia del Cinema) sui film proposti durante il terzo e ultimo focus della rassegna, PELLICOLE.

FABRIZIO BELLOMO:
Ciao Rinaldo provo a partire con qualche spunto...
In questa rassegna mi interessava mettere PELLICOLE come ultimo focus; il primo AGRODOLCE ha analizzato gli atteggiamenti dell'uomo di fronte alla camera (fotografica o video) il secondo SPECCHIO RIFLESSO ha analizzato lo spettatore mentre guarda/vive la rappresentazione e quest'ultimo l'uomo cosciente di rimettere in scena se stesso attraverso la rappresentazione cinematografica.
“La Bocca del Lupo“ di Pietro Marcello, “La Pivellina“ di Tizza Covi/Rainer Frimmel e “No Quarto da Vanda“ di Pedro Costa sono tre film accomunati da uno stesso dato: la rimessa in scena delle vite reali delle persone rappresentate.
C'è un testo che continua a ossessionarmi http://bit.ly/1gEY2zt
Uno di quei testi che continui a sottolineare fino a quando non ti accorgi che è stato inutile perché lo hai sottolineato tutto, in questo testo ci sono diversi concetti molto interessanti come...
«I molti di noi che cominciarono ad applicare un metodo di osservazione alla realizzazione di film etnografici, si trovarono a prendere come modello non il cinema documentario che si conosceva dai tempi di Grierson, ma il cinema drammatico a soggetto in tutte le sue incarnazioni, da Tokyo a Hollywood. Questo paradosso risultava dal fatto che dei due il film a soggetto aveva un maggior atteggiamento d’osservazione».*
Penso sia molto interessante vedere come il cinema d'osservazione abbia preso e prenda ancora oggi spunto dal cinema a soggetto. Tu cosa ne pensi ?

RINALDO CENSI:
Caro Fabrizio, non saprei. Però la frase che hai inserito sopra sul fatto di fare film di osservazione partendo da un soggetto, anche di stampo hollywoodiano, mi fa pensare alle cose che ha realizzato Jean Rouch: alla sua idea di cinema del contatto, una cine-antropologia condivisa. Condivisa nel senso che c'è una struttura su cui si lavora insieme e che si contruibuisce a mettere in scena.
Le persone filmate in poche parole sono coscienti di quello che Rouch sta facendo, hanno presente la struttura, il dispositivo non è nascosto. Penso a film come "Jaguar", o come "Moi, un noir" o "La chasse au leon avec l'arc".
C'è una precisa consapevolezza di ciò che verrà filmato e come: ciò non toglie che le riprese possano mantenere - anzi devono mantenerlo - un margine di indefinito.
Un errore, qualcosa che accade improvvisamente in maniera inaspettata: tutti questi elementi hanno la medesima importanza degli altri, anzi, proprio questi strappi mostrano una sorta di "verità" colta sull'atto.
Ma in fondo, probabilmente anche Flaherty si è mosso un po' così con "Nanook of the North". Ci sono momenti in quel film di totale messa in scena, e di finzione e altri di totale sorpresa, che emerge proprio da quel concetto di "osservazione" che stiamo utilizzando.
Alla fine forse si tratta proprio di scegliere un approccio verso la realtà delle cose che vengono filmate. Quello che sto dicendo porta anche dalle parti di Renoir, penso a Une partie de campagne, in particolare.

FB: La tua risposta, con l'esempio di Rouch, mi da l'occasione di citare altre parti del testo/ossessione da cui ho preso la prima citazione da cui siamo partiti...
«Nel rifiuto di dare ai suoi soggetti loro accesso al film, il cineasta rifiuta loro l’accesso a sé stesso, perché questa è chiaramente la sua più importante attività quando è tra di loro.
Negando una parte sua propria umanità egli nega una parte. della loro. Se non nel suo comportamento personale, certo nel.significato del suo metodo di lavoro, egli inevitabilmente riafferma le origini coloniali dell’antropologia.
Era una volta l’europeo che decideva che cosa valesse la pena di conoscere sulle popolazioni «primitive» e che cosa si dovesse a loro volta insegnare: l’ombra di quell’atteggiamento cala sul film di osservazione, attribuendogli un provincialismo nettamente occidentale».*
Insomma la condivisione del meccanismo del dispositivo con le persone ritratte è, come dici anche tu, uno dei possibili modi di relazionarsi a loro coinvolgendoli come autori nel e del progetto, inoltre tu parli anche dell'errore come spunto, e come elemento in più e qui mi viene in mente un pensiero di Comolli sul concetto di auto-regia che ho già citato in una conversazione precedente, ovvero... «La negazione cinematografica è dialettica.
L'una non esiste senza l'altra, ognuna ha bisogno dell'altro per rilanciarsi, la credenza ha bisogno della coscienza che la minaccia, ha bisogno di questa minaccia per rafforzarsi. Siamo qui in una psicologia dei complici contrari».**

Devo chiederti un'altra cosa In relazione alla prima citazione che ho fatto...tornando alla rassegna Prosecco e Pop Corn anche se sono film in più casi "recitati" quanto "La pivellina", "La Bocca del Lupo" e "No Quarto da Vanda" hanno a che fare con il cinema d'osservazione?

RC: Dunque sì, anche i film che hai citato possono riguardare in modo diverso il concetto di osservazione. C'è quell'inquadratura molto lunga che per me è il film stesso, il suo cuore, verso la fine di La bocca del Lupo.
La telecamera è fissa e si limita a filmare la coppia che parla. Poi c'è uno stacco improvviso. Perché? Ecco, credo che in quel caso Pietro abbia voluto eliminare un errore, qualcosa che è caduto lì all'improvviso. Sono scelte.
Tenere quella parte o eliminarla? E cosa cambia nel film se la tengo o la levo? Il cinema è sempre una questione di scelte.
Il discorso di "No quarto da Vanda" è ancora più complesso perché il film è così lavorato in post-produzione, i dialoghi, le voci off vengono a volte aggiunte, montate: c'è una tale dimensione di "artificio", meglio di "costruzione" (basta leggere la bella intervista a Pedro Costa fatta da Cyril Neyrat, apparsa nell'edizione Capricci del film) che ancora una volta la questione dell'osservazione viene colta in modo diverso. La questione della realtà al cinema a volte è frutto di grandi equivoci.
Ci sono parti di "No quarto da Vanda" davvero "costruite", non parlo delle sequenze: perché anche quelle sono lavorate e limate, provate, modificate… condivise direbbe Rouch. Parlo proprio del montaggio del film.
Un film che dovrebbe essere l'esempio princeps del cinema della realtà, dell'osservazione e che a volte, in alcuni casi, sembra invece totalmente "costruito". E' logico che si lavori su una "realtà cinematografica". Sta poi ovviamente allo spettatore saper cogliere determinati momenti, o certe sfumature.
All'inizio di "No quarto da Vanda", ad un certo punto Vanda è come se si assentasse, fissa un punto fuori dall'inquadratura. Dov'è in quell'istante? Una macchina da presa, una telecamera, possono cogliere questi momenti. Mi chiedo cosa veda un regista in fase di ripresa. Immagino la minima parte di ciò che è contenuto in una ripresa. Costa se ne sarà accorto subito di quella specie di sguardo spostato, fisso nel vuoto?
Il momento rivelatore forse giunge dopo. E' la sua ricaduta durante i rushes. E forse a volte un regista neppure si accorge di certe cose. Ma può accorgersene uno spettatore.
Insomma, si tratta di una tensione tra due spazi, uno di fronte all'altro. Due spazi che si incontrano e a volte si allontanano. Quello davanti e dietro la macchina da presa. Quello dello schermo e quello che spetta allo spettatore.

FB: Qui (per fare una veloce regressione nelle conversazioni precedenti) a un certo punto, quando parli dello sguardo fisso di Vanda del film di Costa e di come la macchina da presa e il regista possano recepire quel momento e di come il momento rivelatore possa arrivare dopo... mi interessa molto vedere come ti poni delle domande sull'autonomia della macchina rispetto all'uomo-autore molto vicine a quelle che si sono posti diversi autori e teorici della fotografia, Vaccari per esempio; è interessante per me continuare a osservare i parallelismi fra i "due mondi".
Tornando ad andare avanti, forse la cosa che in questo contesto mi interessa di più è provare a capire quanto il concetto stesso di osservazione sia di per se pregno del concetto di recita?
Non esiste la recita senza l'osservazione e non esiste osservazione senza recita - siamo allo specchio - e poi lo specchio è proprio il luogo ideale per recitare, provare le parti, le espressioni facciali da utilizzare durante un'incontro, che sia un provino cinematografico o un appuntamento con un potenziale partner poco cambia mi sa...

RC: Questo non lo so. Però se pensi ai film di Warhol… Anche lì, si è sempre pensato che i film fossero improvvisati. Ed in parte è certamente vero.
Mi è capitato di vedere tempo fa "Face", un film totalmente costruito su Edie Sedgwick. Chi può dire quanto il film sia improvvisato o frutto di un canovaccio già definito? In questo caso la struttura era presente.
Lo ricorda da qualche parte Billy Name, se ricordo bene. C'è Edie al telefono. Edie che fuma. Edie che viene provocata da persone che restano fuori dall'inquadratura. Che cosa fa la macchina da presa in questo caso? Si limita ad osservare delle variazioni che partono da un canovaccio. E verso la fine del film, quando la sua parte sembra finita Warhol non taglia, continua a filmare. E lei sembra sorpresa, non sa più cosa fare. O finge di non sapere più cosa fare? Questo per dire che è inutile distinguere tra documentario e finzione.
Mi scappa da ridere se penso alle classificazioni e alle suddivisioni che ancora esistono nei Festival. Sezione documentario, sezione corti, sezione sperimentale. E dove inserire il film di Warhol? Sono ghettizzazioni che non hanno senso, ma servono a chi detiene il potere, anzi, è quella la vera prova del loro potere. Rinchiudere i film in recinti.
E a proposito di specchi, ce n'è proprio uno nel film. E mi viene in mente che nel primo album dei Velvet Underground c'è un pezzo scritto per Nico (altra attrice di Warhol) che si intitola "I'll be your mirror"…

FB: Il pezzo dei Velvet è per altro accompagnato da un video di Warhol in cui lo specchio detiene di nuovo un ruolo particolare insieme all'occhio della telecamera
http://bit.ly/1la0k9b
Non immagini quanto sia d'accordo con te sul discorso delle ghettizzazioni, anche se c'è da dire che ormai i "film doc" vincono le sezioni principali dei maggiori festival del cinema abbastanza frequentemente, alcuni noti esempi sono "Sacro Gra" a Venezia nel 2013, "Tir" a Roma nel 2013 e lo stesso "La Bocca del Lupo" a Torino nel 2009 o "La Pivellina" candidato come miglior film straniero austriaco agli oscar 2011, mi dispiace più constatare di come forse sia il pubblico il primo a volere tali ghettizzazioni, nella nostra rassegna, quest'ultima parte dedicata ai tre film di cui stiamo parlando è stato il momento meno seguito; al contrario le serate più dedicate alla "video Arte" (uso le virgolette perché appunto distinguere non ha più alcun senso date le enormi commistioni reciproche che ogni cosa ha subito, ricevuto o dato...) sono state le serate più seguite, purtroppo credo perché ci trovassimo all'interno di una galleria d'arte e perché i contatti miei come quelli dell'organizzazione fossero principalmente quelli di un circuito "artistico".
Insomma la mancanza di curiosità credo sia un'altro fattore che determini la ghettizazione dei generi... purtroppo, la spontanea mancanza di curiosità del pubblico che si relega automaticamente e spontaneamente in recinti più rassicuranti - insomma per citare moretti PUBBLICO DI MERDA!
http://bit.ly/1h2xvXi

marzo 2014

note

*Da “Il Nuovo Spettatore”, Anno X, n. 12, dicembre 1989, Realtà dell’uomo. Cinema e antropologia
AL DI LÁ DEL CINEMA D’OSSERVAZIONE
(tit. or. Beyond the observational cinema, in P. Hogkins, Principles of Visual Anthropology, 1975) di David MacDougall
**Jean-Louis Comolli - vedere e potere - lettera da Marsiglia sull'auto-regia