Attiv-Azione: Contributo di Massimo Marchetti curatore e critico nonchè pubblico e osservatore di diversi progetti di arte pubblica

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Indice :

1 Attiv-Azione: Confronto con PierLuigi Musarò e Giulia Allegrini

2 Attiv-azione di Mili Romano: "Cuore di Pietra"

3 Wave equation_pratiche di attivazione presenta il talk "Lenti divergenti sulle social practices. Case study Bologna"

4 Lenti divergenti sulle social practices. Case study Bologna-presentazione degli interventi. Introduzione

5 Lenti divergenti-Pillola del contributo Studio Ciclostile Architettura di Bologna

6 Lenti divergenti-Pillola del contributo- Roberto Grandi-docente di SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI-Università di Bologna

7 Lenti divergenti-Pillola del contributo-Emilio Fantin-artista e docente di ARCHITETTURA E ARTE NELLO SPAZIO PUBBLICO-Politecnico di Milano

8 Lenti divergenti-Pillola del contributo Social Street-Via Fondazza Bologna

9 Attiv-Azione: Contributo di Massimo Marchetti curatore e critico nonchè pubblico e osservatore di diversi progetti di arte pubblica

10 Lenti divergenti-Pillola del contributo Dino Ferruzzi per il CRAC-Centro Ricerca Arte Contemporanea-Cremona

11 Wave equation_pratiche di attivazione presenta Wave Equation Workshop

12 Urban cut-azioni nomade-evento conclusivo del wave equation workshop

13 Urban cut - redirect per Wave equation workshop




Occupy Biennale-Biennale di Berlino 2012- foto©Massimo Marchetti

Massimo Marchetti, curatore e critico di Ferrara ma operativo a Bologna, ha risposto alla nostra richiesta di un suo contributo inviandoci un testo con una lettura e un punto di vista totalmente differente rispetto agli altri.
Marchetti, infatti, si è messo dall'altra parte rispetto a chi organizza e crea progetti, donandoci una interessante testimonianza da spettatore e da fruitore di questi progetti, fornendoci così una voce decisamente fuori dal coro che ci permette di avere una riflessione sull'efficacia e sulle metodologie di queste pratiche nella realtà.
Qui il suo testo:


"Credo di non aver mai curato un progetto di arte pubblica nell’accezione che abitualmente le si dà per circoscrivere quelle pratiche in cui chi frequenta spazi non deputati all’arte contemporanea, il pubblico quindi, viene coinvolto come materia stessa del lavoro. Spesso si osserva come sia difficile tracciare un perimetro di questa modalità di fare arte che non risulti alla fine contraddittorio o paradossale rispetto ad altri che non sarebbero altrettanto “pubblici”, e non è raro percepire un’insofferenza verso questa categorizzazione, pur se certificata e storicizzata da corsi accademici e universitari che le sono espressamente dedicati. Coincide con il normale destino di una moda che a un certo punto tramonta, e questo non è un buon segno.

Dal punto di vista curatoriale, il progetto a cui ho collaborato che all’apparenza si è avvicinato di più a questi modelli è stato quello del Musée de l’OHM di Chiara Pergola, dove però io e l’artista abbiamo sempre creduto che quel tipo di lettura – perlomeno nella sua versione più condivisa – sarebbe stata un fraintendimento poiché è un lavoro che intende instaurare un rapporto individuale, uno-a-uno, con il visitatore del museo. Se una delle parole-chiave dell’arte cosiddetta pubblica è “comunità”, in questo caso l’obiettivo è posizionato su un versante diverso. Basta il fatto di provocare al visitatore un incontro inaspettato perché si possa parlare di “arte pubblica”?

Dal punto di vista critico, debbo confessare una certa stanchezza verso progetti che si

autodefiniscono di arte pubblica. Non sono ovviamente i singoli lavori inseriti criticamente in questo filone a posteriori a darmi questa sensazione, ma ciò che trovo discutibile è la tendenza ad autodefinirsi a priori come “specialisti” di una modalità artistica così fluida, che comporta un’inevitabile irrigidimento. Come tutte le cose che si protraggono un po’ troppo oltre le ragioni che le hanno fondate – e sto pensando al clima dei primi anni Novanta – anche nelle formule dell’arte pubblica l’accademismo è estremamente diffuso a livelli che dovrebbero esserne ben al di sopra, e lo si può constatare dalla distanza che separa le volenterose premesse dall’attenzione distratta verso i risultati raggiunti. Quindi credo che il problema sia il fatto di aver instaurato delle formule in cui si prepongono delle intenzioni, delle tesi da dimostrare, dei meccanismi di innescare. In pratica, di incorporare al lavoro la sua stessa interpretazione: “nel pomeriggio si svolgerà un’azione di arte pubblica in cui verranno coinvolti i passanti/gli spettatori/ ecc. nella costruzione di un momento comunitario ecc.”
Se in definitiva ciò a cui si ambisce è l’abbattimento dello steccato tra arte e vita, troppe volte sembra che porre l’enfasi sulle intenzioni possa proteggere un lavoro dal confronto con i propri limiti, inglobandolo di nuovo in uno spazio a se stante. Un altro aspetto che genera stanchezza è l’insistenza con cui si propongono incontri o tavole rotonde sull’arte pubblica, come se la necessità di confronto tra visioni ed esperienze si avvitasse in una pratica retorica o in un mantra utile per rassicurare la comunità dell’arte sull’importanza sociale di queste pratiche. Mi pare invece che non si sia discuta sufficientemente dei progetti “falliti” loro malgrado: un bagno di realtà dovrebbe essere la verifica privilegiata per chi si dichiara “artista pubblico”. Chiedersi ogni volta
con schiettezza se il pubblico che in quella certa occasione ha accettato di partecipare lo ha fatto davvero spontaneamente, per inerzia o per semplice simpatia; chiedersi quale fosse il risultato che ci interessava, quali i valori estetici. Claire Bishop analizza in modo rigoroso le ambiguità che si nascondono dentro all’apparato critico dominante per la lettura di queste operazioni, e sottolinea come le ragioni estetiche siano quasi sempre state eluse nel giudizio che se ne dà, come se metterle in cima alle preoccupazioni dell’autore significasse un impoverimento o un malinteso del senso della propria azione che avrebbe invece finalità esclusivamente etiche. Questa sottovalutazione delle ragioni dell’arte sembra avere tutti i difetti dell’ideologia."


Questa l'attiv-azione di Marchetti, che crediamo possa essere un punto di inizio per una riflessione sull'efficacia di queste pratiche.