Si fa presto a dire pubblico, ma se si intende qualcosa di collettivo, accessibile o diffuso, il soggetto per questi aggettivi ha una certa responsabilita'. Roberto Daolio risponde ad alcune delle tante domande circa l'arte pubblica a conclusione del seminario organizzato a Bologna nell'ambito di gap; un'iniziativa rivolta a quei giovani artisti che in futuro potrebbero proporre i propri progetti negli spazi urbani.
Intervista a Roberto Daolio
a cura di Gabriella Arrigoni
Si è appena concluso il seminario organizzato a Bologna nell'ambito di gap - giovani per l'arte pubblica : quali sono state le direttive del dibattito, i nodi più discussi? Cosa è emerso da questa serie di incontri su un tema che sta diventando sempre più all'ordine del giorno, ma che necessita ancora di veder definiti i propri obiettivi e il proprio campo d'azione?
Si è trattato in primo luogo di informare, in quanto il seminario era rivolto ad una categoria di giovani che in futuro potranno anche proporre i propri progetti di arte pubblica o di arte negli spazi urbani; il discorso pertanto è stato impostato su esperienze svolte da me e da Mili Romano (assieme o separatamente) e gestito liberamente nei suoi sviluppi.
Io mi sono soffermato anche sul piano di un'informazione di carattere storico, con un breve e sintetico excursus nella storia dell'arte negli spazi pubblici, arte e ambiente, e arte relazionale, soffermandomi su alcune figure di riferimento e con particolare attenzione ai concetti di autorialità e condivisione. In secondo luogo, ho presentato un'esperienza curatoriale personale, che è quella di Ad'Area d'Azione ad Imola: nata circa 6 anni fa, il progetto nelle intenzioni iniziali voleva incidere su una realtà urbana di provincia ma piuttosto ricca anche di spazi museali, e muoversi quindi anche all'interno del museo, determinando la volontà precisa che il museo non rimanesse qualcosa di isolato dal contesto cittadino.
C'è stata a lungo una certa confusione a proposito dell'arte pubblica, spesso associata, ma senza coincidere, ad esperienze di arte relazionale, di urbanistica, di arredo urbano, di arte ambientale. Assumendo una prospettiva storica, dove si potrebbe individuare la vera radice della public art, il suo primo punto di partenza?
Nella mia ricognizione storica sono partito da alcune esperienze italiane degli anni Settanta, per poi soffermarmi su una lettura che parte dal concetto di site-specific, prima ancora che di arte sociale, collocando il punto d'avvio in uno spazio molto vicino alle esperienze delle Strutture Primarie e del Minimalismo, per poi muoversi anche all'interno della Land Art, dell'environment, fino ad arrivare ad una definizione di passaggio tra il discorso sull'arte che occupa uno spazio e il considerare l'intervento dell'artista non più come un linguaggio autoreferenziale, ma destinato a dialogare con altri saperi, e a collegarsi - anche se forse è ancora un'utopia - con l'architettura e l'urbanistica.
Se il punto d'avvio è legato ad esperienze site-specific, legate ad interventi sul territorio, sullo spazio, considerato anche nei suoi aspetti fisici e morfologici, com'è avvenuta la transizione ad un discorso invece prettamente community-specific?
l passaggio è avvenuto allargando il campo ad altre problematiche che appartengono non solo al sentire comune ma anche ad una pratica immateriale - pensa al peer to peer, alle relazioni virtuali che le nuovissime generazioni impostano anche come una visione del mondo, nell'idea di una sorta di comunità virtuale che si incontra anche realmente. Diventare community vuol dire condividere un'azione che non si può nemmeno definire politica, ma piuttosto di relazione sociale; spesso infatti non c'è la percezione di un'azione politica vera e propria, com'era nelle rivendicazioni degli anni '70.
L'obiettivo sociale può essere invece inteso nel senso di comunità, partendo da presupposti che siano condivisi con la committenza e soprattutto con la cittadinanza (ad esempio progetti di riqualificazione urbana), e non calati dall'alto. Si tratta, insomma, di creare una preparazione e una condivisione su uno schema progettuale.
Nei progetti di arte pubblica appare sempre decisivo il ruolo della committenza: come avviene l'interazione tra le istituzioni e gli artisti o chi propone un progetto; tenendo anche conto del fatto che spesso tali progetti tendono a porsi come "alternativi" rispetto allo status quo e di conseguenza in possibile antitesi con gli enti pubblici stessi che li dovrebbero sostenere? Potresti soffermarti in particolare sulla situazione bolognese?
A Bologna ci sono stati soltanto dei tentativi che hanno attinto dall'etichetta di arte pubblica senza esprimerne la vera natura, il committente può essere pubblico o privato, ma si tratta soprattutto di convogliare delle energie su un piano strategico di condivisione e di modificazione, anche degli apparati - produttivi e soprattutto progettuali; dal momento che interventi sulla città o sulle sue aree marginali non possono essere lasciati al caso. Occorre individuare dei mediatori culturali che incidano non tanto dal punto di vista della trasformazione dell'ambiente, ma più che altro nel convogliare energie.
Troppo spesso ci si concentra sulla questione del transitare, e quasi mai sull'abitare, che costituisce invece una problematica d'urgenza e che coinvolge tutti: si abita una città con tutti i connotati del termine, instaurando abitudini, trovando forme identitarie precise. Quindi il dialogo dovrebbe essere la modalità giusta d'approccio, senza dimenticare che il sapere dell'arte dovrebbe partecipare della vita e diventare un sapere non solo specialistico, oppure, proprio in quanto specialistico, condiviso. L'attenzione dell'artista e la sua pratica quotidiana quindi dovrebbero rispondere ad esigenze da avvertire, da segnalare, da impiantare anche nel contesto urbano.
Quali esempi di eccellenza ti vengono in mente per quanto riguarda il resto del territorio italiano, seppur sporadici e isolati?
Dal punto di vista metodologico, per esempio, si possono individuare alcuni interventi realizzati da Alberto Garutti a Roma, a Siena, e a Bergamo, nei quali, essendo un artista affermato e autorevole, ha avuto una via privilegiata, almeno dal punto di vista dell'attenzione ricevuta. Inoltre anche a Torino ci sono state esperienze significative, come quella di Nuovi Committenti, che purtroppo però non hanno fatto scuola. Insomma, c'è stato un ottimo inizio, e poi un po' di dispersione, che ha fatto rimanere questi episodi dei casi a se' stanti.
Anche in Toscana con la galleria Continua ci sono state esperienze significative, anche se prevaleva sempre la volontà di lasciare un segno importante sul paesaggio, ma in un'ottica più distante da un discorso sociale e progettuale, nonostante anche questo tipo di interventi possano generare mutamenti anche di natura antropologica.
Cosa succede invece all'estero? Ha senso individuare delle differenze sostanziali tra le pratiche nostrane e quelle europee o statunitensi nell'approccio all'arte pubblica, anche in virtù di una storia e di un percorso abbastanza dissimili?
La situazione all'estero non è particolarmente più avanzata che in Italia, se non escludiamo alcune esperienze olandesi, anche se nei Paesi Bassi c'è un approccio meno attento ad un valore "estetico", e più agganciato all'intervento pubblico e vicino all'architettura e all'urbanistica. Le spinte maggiori vengono proprio da urbanisti ed architetti, che hanno adottato e quasi normalizzato questo tipo di procedura artistica, invece di considerarla, come spesso accade, come una cosa a parte da includere nel progetto solo in un secondo momento. Qualcosa è stato fatto anche nel nord della Germania, ma il problema si pone ogni volta che si ha a che fare con una committenza pubblica che agisce sul rapporto ambiente-città in maniera forzata.
Abbiamo già accennato all'idea di autorialità, che nell'ambito dell'arte pubblica si trova spesso soggetta ad una ridefinizione dovuta a pratiche processuali, condivise e collettive in cui, ad esempio, i cittadini partecipanti possono influire in maniera decisiva sulla riuscita finale dell'opera, o in cui si tratta della messa in atto di progetti sorti in risposta ad un'esigenza avvertita dalla cittadinanza. Del resto, l'arte pubblica richiede modalità "espositive" specifiche, senza dubbio differenti rispetto alle mostre tradizionali.
Come risponde il sistema dell'arte alla messa in discussione di molti dei suoi tratti caratteristici? Quali nuove strategie può adottare?
Non vedo una grande distonia rispetto all'autorialità in fondo. E' evidente che le modalità espositive vengono messe in crisi, in maniera radicale, in quanto si tratta di impostare un progetto che non si presta affatto ad ambienti espositivi tradizionali e che si basa sulla condivisione. Se per esempio si ipotizza un intervento in un museo, si ha a che fare con una situazione già bloccata, mentre il sapere, lo sguardo, l'occhio, l'intenzione dell'artista possono modificare questa fissità, sebbene comunque la museografia abbia fatto passi da gigante ultimamente in questo senso.
Tutto questo diventa una forma di arte pubblica che può affermarsi in maniera più facile perchè si accosta ad una realtà preesistente e già riconosciuta. E' questione di molteplicità di punti di vista, attraverso cui si possono trovare delle chiavi di lettura che riportano ad una sensibilità più vicina a noi e al nostro tempo.
Ad Imola per esempio anni fa abbiamo avuto esperienze di questo tipo, con artisti che hanno abitato il museo di Palazzo Tozzoni: Sabrina Mezzaqui vi è poi intervenuta solo in alcune parti, rendendo visibile oppure annullando le prerogative museali, esaltandone i contrasti e impostando un nuovo modo di vedere e di leggere il contesto. E proprio l'edizione di quest'anno di Area d'Azione a Imola, ha ripreso lo stesso principio di movimento e di attivazione di tre musei: ancora Palazzo Tozzoni, la Rocca Sforzesca e il Museo di San Domenico, con interventi site-specific, installazioni, performance, video e suoni di C. Chironi, M. Moscardini, G. Oberti, M. di Giovanni, G.D. Sozzi, nark bkb, C. Pergola e P. Riparbelli.
Tornando al progetto gap, in autunno è prevista una serie di workshop sul territorio bolognese: ci puoi dare qualche anticipazione su come si svolgeranno?
I workshop sono in fase di programmazione e di definizione. Saranno sicuramente condotti da diversi artisti italiani e dovrebbero essere operazioni che coinvolgeranno i cittadini in varie forme. La cosa più importante dovrebbe essere registrare un'autentica e reale condivisione del pubblico e della committenza
Cosa ti senti di affermare se ti chiedessi un piccolo bilancio provvisorio sul contributo di gap sulla questione public art?
Spero che possa diventare un contributo effettivo in grado di incidere sulle modalità di approccio, cambiare l'atteggiamento propositivo, passare all'azione dopo la riflessione.
Bisogna vedere anche che tipo di responsabilità si possono assumere gli organizzatori di gap, in quanto fanno parte di un progetto-giovani (Iceberg) e questo porta sempre con sè il rischio di ridurre le ricerche ad un piccolo comparto specialistico... Tuttavia mi sembra di poter essere ottimista al riguardo: in quanto sulla base di alcune esperienze ancora in corso (come quella di Container, al Quartiere S.Donato a cura di Mili Romano e di Gino Giannuizzi) è stata impostata una precisa e puntuale metodologia operativa che ha iniziato a funzionare e soprattutto che può costituire un'ottimo punto di riferimento per lo sviluppo di gap.
gap gIOVANI PER L'aRTE pUBBLICA
lABORATORIO pERMANENTE aTTIVO bOLOGNA
gap e' un progetto del Comune di Bologna - Giovani Artisti
in collaborazione con GAER - Coordinamento Giovani Artisti Emilia Romagna, l'Assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna e il POGAS
Ufficio giovani artisti - Comune di Bologna, Cultura e rapporti con l’Università
Via Oberdan, 24 - 40126 Bologna
tel 051 2194614 / 051 2194663
fax 051 268636
http://www.iceberg.bo.it
giovaniartisti@comune.bologna.it
Il comunicato del gap / Forum del 16 e 17 maggio 2008 all'Accademia di Belle Arti Bologna
Gabriella Arrigoni è storica dell'arte contemporanea e curatrice.