Attraversare le contingenze allargando le prospettive

26/07/2010
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Oltre il tuo naso un dito


In un luogo insolito nel cuore di Milano, a un passo dalla rassicurante Pinacoteca di Brera, si è da poco conclusa una mostra che ha insieme inorridito e sedotto. Si è svolta soprattutto al di sotto di un edificio nobiliare settecentesco dimenticato.
Ci riflette Giada Cattaneo che ha potuto osservare dall'interno le reazioni di spettatori ed esperti svolgendo il ruolo di mediatore culturale. L'isola dei porci di McCarthy ha messo alla prova il perbenismo milanese, in attesa del dito di Cattelan volto a "rompere l'ovvietà dello spazio urbano e uccidere i nostri pregiudizi"...



Portrait of Paul McCarthy by Paul McCarthy


Pig Island: Daddies Tomato Ketchup Inflatable, 2001.


Veduta della mostra, nella foto Pirate Party, 2005. Paul McCarthy - Damon McCarthy.


Pirate Party, 2005. Paul McCarthy - Damon McCarthy.


Pig Island, veduta dell'installazione Dreaming, 2005.


Pig Island: Houseboat Party, 2005. Paul McCarthy- Damon McCarthy.


Pig Island, Paula Jones, 2010.


Pig Island, 2003-2010, veduta dell'installazione.


Pig Island, veduta dell'installazione F-Fort Party, 2005. Paul McCarthy - Damon McCarthy.


Il cuore pulsante dell’economia lombarda, la città della moda, del design e del commercio, la metropoli che lavora… A Milano si discute sui progetti avveniristici dell’Expo, su opere ed interventi di elevato valore urbanistico e architettonico per la città, e spesso sono solo d'intoppo beni storici che già fanno parte del patrimonio comunale. Sembrano far parte di quei ricordi imbarazzanti che contrastano con le scelte del presente, parti di un sogno che non si raccontano, dita nel naso, cenere sotto il tappeto.
Anche a Milano esiste la tendenza pacificante a rivestire la “realtà” con uno strato di perbenismo ed ipocrisia, come si fa nelle piccole città di provincia, almeno fino a quando la realtà non fa morbosamente “spettacolo”; televisivo ovviamente.

Una mostra da poco conclusa a Brera, luogo storico del fermento artistico milanese, ha aperto uno spiraglio sul lato oscuro e viscerale del “carattere cittadino”, quello che non parla di efficienza ma riguarda il rimosso. Si tratta di Pig Island - L’isola dei porci, la prima importante mostra personale italiana dell’eclettico Paul McCarthy, realizzata per iniziativa della Fondazione Nicola Trussardi con la curatela di Massimiliano Gioni.
Si è svolta all’interno, o forse sarebbe più corretto dire al di sotto, delle mura di uno dei monumenti dell’incompiuto milanese: Palazzo Citterio, un edificio nobiliare settecentesco celato nel cuore della città e dimenticato.
Lo storico edificio venne acquistato dal Comune nel 1972 quando era in preda all’impeto di creare progetti per la “Grande Brera” e, praticamente, fu abbandonato a sé stesso. Poi fu oggetto di un intervento di ristrutturazione ideato dall’architetto britannico James Stirling alla fine degli anni ’80 e così nacquero le sale sotterranee in cemento armato che avrebbero dovuto ospitare grandi eventi culturali e gli archivi della Pinacoteca di Brera. Aperto con una mostra su Alberto Burri seguita da un'esposizione sugli Ori di Taranto, il Palazzo venne chiuso subito per problemi di normativa.
Il merito della Fondazione Trussardi, che per ogni esposizione cerca di far riscoprire un posto insolito ed eclissato di Milano, è stato quello di aver aperto le porte di Palazzo Citterio mostrando le sue potenzialità scandalosamente inutilizzate.
A differenza dei luoghi espositivi scelti dalla Fondazione per le mostre passate, l’edificio ha molto poco di quell’aura che caratterizza solitamente i palazzi aristocratici. Chi ha visitato l’esposizione solo per la curiosità di scorgere l’interno di quel posto - chiuso da decenni - e si aspettava di ammirare stucchi o affreschi settecenteschi, è rimasto deluso.
I piani “nobili” sono pericolanti e inagibili, tutto l’allestimento è stato concentrato nei moderni piani interrati del Palazzo che conservano la ruvidità del non finito unita al fascino del rudere sventrato dal tempo.
È un luogo meraviglioso nella sua decadenza: sembra quasi che viva di vita propria, che soffra delle sue crepe, respiri tramite i suoi antri, che segretamente ascolti lo spettatore dai suoi orifizi e sussurri il suo dispiacere, il suo trauma da abbandono, come un grande organismo vivente. L’impressione è che ogni angolo metta a nudo la collettività che ha lasciato che si compisse uno scempio, nello stesso modo in cui le opere di Paul McCarthy svelano come la società preferisca rifiutare la “bruttura” della contemporaneità piuttosto che ammettere di farne pigramente parte.
Palazzo Citterio e il lavoro di McCarthy comunicano con lo stesso linguaggio, insieme palesano l’orrido del presente scoprendo il lato che vuole essere tenuto nascosto della medaglia.
Quale luogo migliore poteva essere scelto per la personale dell’artista americano? E cosa ci ha parlato di più di noi fra la sua produzione artistica e quell’incredibile edificio bistrattato?
Gli ampi spazi grezzi del Palazzo hanno “interagito” e si sono adattati perfettamente allo stile crudo delle opere dell’artista enfatizzandone le peculiarità.

Pig Island è stata una mostra che ha diviso, sorpreso e, a volte, sconcertato il pubblico, così come il luogo che l’ha ospitata. Gli ignari turisti delle vie di Brera, affascinati dai tesori rassicuranti della Pinacoteca, quando sono arrivati ai bordi del beffardo circo della contemporaneità made in USA rappresentato da McCarthy, all’interno di un contenitore dalle sembianze post belliche, hanno subito un trauma.
L’arte di Paul McCarthy è una grande giostra cinica e disincantata, fatta di sesso, vizi e trasgressioni. È una casa degli orrori dell’attualità dove vengono fatti a pezzi gli stereotipi culturali e sociali americani, ma anche quelli nostrani. È una Disneyland per adulti in cui le attrazioni sono personificate da politici e celebrità di silicone, maschere di loro stessi.
L’artista lavora sul suo inconscio e sull’inconscio collettivo. Attratto dal lato spettrale e misterioso dei Luna Park, gioca con il versante tetro e grottesco della realtà. Lo stesso percorso espositivo della mostra milanese è stato studiato espressamente dall’artista perché ricordasse i percorsi obbligati delle attrazioni disneyane: un tragitto che si sviluppava in una sola direzione, con un’entrata ed un’uscita distinte e che portava il visitatore gradualmente sempre più nel profondo di Palazzo Citterio, del lavoro dell’artista e di sé stesso.

Il primo impatto era il brutale rumore dei video che raggiungeva il pubblico prima ancora di varcare la soglia del Palazzo, preludio della discesa agli inferi nei piani interrati della mostra. Entrare in contatto con le opere di McCarthy induce ad una stimolazione non solo visiva o intellettiva, ma emotiva, viscerale: non a caso la Fondazione Trussardi si è preoccupata di avvisare i visitatori che alcune opere potevano ledere la loro sensibilità, e suggeriva ai genitori con prole al seguito un percorso dimezzato per la tutela delle menti under 14.
Ma la violenza cruda e gratuita cui i media hanno abituato under e over 14 non è forse più spaventosa delle sintesi grottesche e delle ciniche parodie cui ci sottopone McCarthy? Forse no...
I suoi video, realizzati con una fotografia da telenovela durante infinite sessioni d’improvvisazione, senza una scenografia e con i personaggi calati in una sorta di estasi performativa e liberatoria, immergono in una regressione emotiva. Una forma di psicodramma, un’istigazione ad esorcizzare in modo catartico il volto oscuro della società americana, corrotta, ipocrita, superficiale, densa di falsi miti e tabù (non meno della nostra che ad essa si ispira).
Paul McCarthy ha qualcosa di freudiano da cui emerge un’infanzia mai finita: è un omone di 65 anni dall’aspetto bonario, con uno sguardo curioso e smaliziato, capace di provocare e indispettire, facendo leva sulle debolezze inconsapevoli delle persone “ordinarie” e “mature”. È nato a Salt Lake City, nello Utah, patria dei mormoni. Ma non gli interessano né fanatismo religioso né senso del pudore, forse però è proprio il contesto da cui proviene che lo ha spinto alla creazione del suo mondo sfrontato, anarchico e carnevalesco.
Il gioco è parte fondamentale del suo lavoro, e lui ne è consapevole: gioca abilmente e non si stanca di aggiungere il carico.

Durante i primi giorni della mostra milanese McCarthy si aggirava spesso fra i piani interrati di Palazzo Citterio, si confondeva con il pubblico, lo osservava divertito studiandone le reazioni. La sua arte mostra chiaramente le radici da cui proviene, è americana in tutto e per tutto. Lo spettatore italiano a volte se ne sente estraneo, sembra distaccato dai canoni della sua satira ed evita lo sforzo di comprenderne le modalità rappresentative. È una falsa illusione: che venga apprezzato, ignorato o odiato, è sempre l’artista a vincere la partita.
Le reazioni che riesce a provocare sono le più disparate, sicuramente dipendono dal grado di interesse, apertura e disponibilità dei visitatori, ma dividono anche gli esperti. In mostra si sono visti galleristi, critici e curatori che, a seconda dei gusti personali, hanno riconosciuto il valore dell’artista, altri che se ne sono andati delusi, dichiarando che loro “sono del settore e non amano certi eccessi”.
Fra i comuni mortali c’è stato chi si è indignato gridando scandalizzato: “quella non è arte ma è merda”, e in effetti l’artista spesso allude alle feci per mezzo del cioccolato. C’è stato chi si è impressionato per un po’ di ketchup - simbolo non solo della cultura da fast food, ma del sangue nella migliore tradizione dei film splatter - ed è scappato prima ancora d’aver intuito se si trattasse di allusione al condimento o immagine organica.
Ci sono stati i turisti casuali alla ricerca di un feticcio che hanno scattato una foto in posa accanto a Bush che sodomizza un maiale. Ci sono stati i divertiti dall’irriverenza nei confronti della politica e gli sgamati, che sono arrivati a supporre che se i soggetti delle opere non fossero stati americani, ma ad esempio italiani, non sarebbero mai state esposte.
Ci sono stati gli studenti della vicina Accademia di Brera, scettici o entusiasti, ma pur sempre intenti a sviluppare opinioni. E poi ci sono stati tanti sorprendenti studenti dell’Università della Terza Età, attenti e preparati, pronti a superare con entusiasmo limiti e modelli imposti dalle loro abitudini, i meno bigotti di tutti.

In una città come Milano, votata all’Evoluzione, attualmente interessata da una forte gentrificazione, caratterizzata da una popolazione sempre più multietnica, una città conservatrice e opportunista ma anche no, basta una mostra di Paul McCarthy per dare uno scossone ai falsi principi morali “comuni”? Tutto serve come insegna la teoria dei sistemi.
Non che in passato non ci siano state occasioni importanti con la stessa vocazione, anche se forse meno spettacolari e milionarie. La macchina promozionale della Fondazione Trussardi, le sue trovate e proposte culturali, i luoghi che ha scelto, hanno sempre avuto un esito eclatante anche sul grande pubblico. Con equilibrismi tra lo sfacciato e l'educativo, il trendy e il riflessivo, è sempre stata naturalmente più libera di un ente pubblico.
Comunque, in questa occasione, anche le istituzioni e il gotha milanese si sono messi alla prova, ma in passato si sono avuti clamorosi atti di censura e ostracismo nei confronti di diverse proposte espositive.
Uno dei casi più famosi fu quello sollevato dai “bambini di Cattelan”: appesi, per poco, in Piazza XXIV Maggio, finirono persino sul telegiornale nazionale in prima serata (cosa che ha influito non poco sulla celebrità del nostro). Un altro fu quello della mostra “Arte e omosessualità” che doveva essere ospitata a Palazzo Reale e fu annullata a ridosso dell'inaugurazione. Qui caroselli di politici seppero cogliere i frutti di annunci e smentite.

Ora la città sembra voler apparire più coerente con un’immagine di apertura e progresso: l’Assessore alla Cultura Finazzer Flory ha dichiarato che il prossimo autunno “nove artisti di fama nazionale e internazionale esporranno in una piazza milanese, per rompere l'ovvietà dello spazio urbano e uccidere i nostri pregiudizi”.
Intanto la polemica potrebbe riaprirsi per una retrospettiva che Palazzo Reale dedicherà proprio a Maurizio Cattelan, scomparso dal suolo milanese da molti anni anche se non proprio a seguito dei suoi bambini impiccati. L'artista vince parzialmente la censura: non potrà esibire il cavallo imbalsamato e trafitto da un bastone che sorregge la scritta INRI, considerato non adatto per la vicinanza del Sacro Duomo, ma presenterà il già contestatissimo “dito medio” di fronte alla Borsa, anche se solo per una settimana… un altro monumento per Milano.

Maggiori informazioni sulla mostra di Paul McCarthy Pig Island - L'isola dei porci svoltasi a Palazzo Citterio

Giada Cattaneo si è specializzata in “Gestione dei beni artistici e culturali, economia e gestione degli eventi espositivi” presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha svolto l'attività di mediatore culturale per la mostra “Pig Island – L'isola dei porci” di Paul McCarthy, organizzata dalla Fondazione Nicola Trussardi presso Palazzo Citterio a Milano. Nel 2009 ha collaborato alla progettazione, organizzazione e gestione dei percorsi didattici della Fondazione Hangar Bicocca di Milano. Collabora con UnDo.Net.


Tutte le immagini courtesy l'artista, Fondazione Nicola Trussardi, Hauser & Wirth