Afferma Fabrice Gygi in questa conversazione con Barbara Fässler. Lei lo incalza con una fila di domande molto dirette per capire in che senso il suo lavoro "evidenzia il valore universale dei meccanismi del potere", lui non ci casca mai: "Nessuna posizione, nessun messaggio" però... "Occorre diffidare". La mostra dell'artista all'Istituto Svizzero di Milano coincide con quella di Cattelan e ce n'è anche per lui: "non conosco il progetto, ma in questi casi diventa molto importante sapere chi paga, chi da l'autorizzazione, chi sta dietro..."
Una conversazione con Fabrice Gygi.
A cura di Barbara Fässler
Le installazioni di Fabrice Gygi – artista ginevrino, classe 1965 – ci fanno sprofondare in una situazione di strana ambiguità e d’inquietante disagio. Ci troviamo in una mostra di “design” di mobili, oppure siamo finiti per sbaglio in un deposito militare di uno Stato totalitario sconosciuto? Questo arsenale di strumenti serve forse alle forze dell’ordine per tenere sotto controllo le insurrezioni di una popolazione infuriata, oppure fa parte di un rifugio dove si sono nascosti dei ribelli clandestini?
Le strutture ci lasciano nel dubbio: Gygi preferisce dichiaratamente non svelare la sua posizione. Infatti, i suoi oggetti minimalisti, di un’estetica semplice, ma efficace, rinunciano a qualsiasi decorazione: sono archetipi del potere che nascono da un’osservazione precisa della realtà. Fabrice Gygi si dichiara iperrealista e, attraverso le sue sculture, evidenzia il valore universale dei meccanismi del potere.
Nella sede milanese dell'Istituto Svizzero di Roma, lo scultore ginevrino espone due installazioni del 2007, che parlano di un aspetto apparentemente meno violento del potere. «Meeting Room» e «Conference Room» sembrano rappresentare il mobilio di una Sala Riunioni, di una Sala Conferenze di una multinazionale, oppure di un Consolato.
Solamente al secondo sguardo, ci si rende conto dei dettagli, che invece, fanno emergere un’atmosfera di violenza sottile e manipolatrice. L’accesso alla Sala Riunioni è bloccato da una barriera anti-folla in acciaio laccato e i microfoni montati sul leggio del conferenziere si rivelano essere torce delle forze di sicurezza. Ciò che assomiglia a un microfono è stato privato della sua funzione di amplificare un discorso e serve, invece, a illuminare il personaggio che si mette in scena davanti al pubblico, il quale non è stato invitato alla riunione e dunque non può partecipare alle decisioni. Inoltre alla conferenza stampa non si sentirà nessun discorso: ci si dovrà limitare ad ammirare l’immagine esteriore del potere che si manifesta sul palcoscenico.
Barbara Fässler: Fabrice, la sede di questa tua prima mostra personale in Italia non è nè una galleria, nè un museo ma uno spazio culturale che rappresenta la Svizzera in Italia. In passato hai già avuto occasione di rappresentare il tuo Paese alle Biennali del Cairo, di São Paolo e di Venezia, quindi hai una certa esperienza… Questa posizione non ti fa paura? Non temi di perdere il tuo sguardo critico?
Fabrice Gygi: No, non credo proprio. L’unico rischio è di diventare un artista ufficiale per davvero (ride), ma non temo che i miei pezzi possano perdere la loro forza critica. Piuttosto, la cosa stupefacente, è che la Svizzera permetta ancora questa posizione autocritica. L’unico timore è quello di avere la bandiera svizzera incollata sulla schiena.
E quindi, per te, cosa vorrebbe dire diventare un’Artista Svizzero Ufficiale?
In qualche modo lo sono già da tempo, ma non lo trovo grave. Finché ho la libertà di fare altro, va tutto bene.
A Milano metti in mostra due installazioni del 2007, adattate allo spazio espositivo: «Meeting Room» e «Conference Room». Questi lavori interrogano un lato più sottile del potere, paragonandoli, ad esempio, alle transenne anti-insurrezionali, utilizzate in passato: qui non si parla della violenza fisica del potere, ma del suo impatto mentale attraverso la propaganda.
Il lavaggio del cervello si prepara nelle Sale Riunioni. Rimane però aperta la questione: come il pubblico può distinguere una vera Sala Riunioni o Conferenze dalle tue opere d’arte minimali che sottintendono una critica mordente alle strutture autoritarie?
In effetti è da alcuni dettagli che si vede che si tratta del lavoro di un artista. Da un lato ci sono le barriere che fanno pensare a un discorso autoritario, dall’altra i microfoni-torce che non possono mantenere la loro funzione.
Dunque ti limiti all’osservazione, oppure c’è un lato creativo, uno “Stile Fabrice” nel tuo lavoro?
(ride): C’è sicuramente uno “Stile Fabrice”, visto che disegno tutto e che non faccio mai riproduzioni da fotografie. Semplicemente penso “Sala Riunioni” e disegno una sala di riunione, oppure penso “barriera” e disegno una barriera. Mi avvicino a una sorta di «Low-Design»: produco il mio arsenale personale, dove si ritrova una Sala Riunioni, un tribunale, un bar, uno snackmobil, un airbag…
…un arsenale di strumentazione, di modalità e di rappresentazione del potere…
…Sì, e di gestione del corpo e della mente.
Marc-Olivier Wahler coglie nel tuo lavoro un’ambiguità mai risolta tra autorità e resistenza. Le tue tende per esempio potrebbero essere utilizzate sia come struttura per una festa popolare, sia come tribunale ambulante. Qual è la tua posizione? Qual è il tuo messaggio?
Nessuna posizione, nessun messaggio.
Sì, mi aspettavo questa risposta (ride). Non è un po’ troppo facile?
No, non penso, perché in ogni caso viviamo circondati da ambiguità, dunque è normale che le cose siano ambigue. Ciò che cerco di rivelare è piuttosto che il potere e la resistenza hanno delle modalità di funzionamento simili.
Queste contraddizioni apparenti, che si esprimono anche formalmente con strutture montabili e smontabili, gonfiabili e sgonfiabili, mobili e immobili, servono a gestire meglio la crisi permanente?
Questo tema nasce negli ambienti underground degli anni Novanta, quando si diceva che le cose devono rimanere mobili: per rimanere liberi, restiamo mobili! È l’unico mezzo per scappare.
Come le lepri…
…(ride), sì, esatto, ed è per questo che le mie cose sono sempre state mobili. Questo principio funziona anche nel mondo dell’arte: un oggetto gonfiabile occupa meno spazio nel deposito. La logica del materiale si sposa con l’idea di mobilità.
Da qualche parte dici: “interrogo l’autorità, l’ordine che minaccia la libertà. Non vi è nessuna rivolta, ma soltanto della constatazione”. Accetti quindi le cose come sono, oppure t’interessa disegnare un’utopia che possa superare la critica?
In effetti, i pezzi funzionano come una sorta di constatazione. Non si tratta affatto di una rivolta, non ho nessuna soluzione, nè emetto un giudizio morale. Io dico solamente: state attenti allo Stato. Un domani potrebbe tornare a costruire dei campi della morte. Occorre diffidare. Per questo mi batto per la mia libertà.
Ecco, ma questa lotta per la libertà, non potrebbe mutare in un disegno utopico? Penso per esempio a «Slave-City» di Joep van Lieshout, anche se, in effetti, questo lavoro ha un lato molto cinico.
Sì e raggiunge qualche cosa di molto caricaturale. Potrei prendere tutta questa roba e dire: produco il mio arsenale, ho le mie bandiere, le mie cosette, ora vado a fare la mia tavola delle leggi, vado impiegare le persone, vado a fare una vera comunità…
No, non penso, al contrario io sono un artista, sono un individuo, produco delle opere, ma non ho nessuna voglia di entrare in una sorta di finzione o film.
NO FUTURE ?
Tutti i mie lavori non rivendicano mai l’ipotesi di un territorio riservato agli anarchici. Per me, ogni individuo deve battersi da solo. Sono molto individualista. Anzi, rivendico questa libertà individuale.
Qual è il rapporto delle tue installazioni con il pubblico? Prevedi una fruizione frontale e a senso unico come quella di una scultura, oppure inviti le persone a interagire con i pezzi in una sorta di fruizione partecipata?
Preferisco che lo spettatore mantenga la sua posizione: non tollero assolutamente che partecipi.
È escluso dalla barricata.
Sì, in effetti, la barricata lo schiaccia in una posizione che lo obbliga a vedere l’installazione come un quadro, una pittura, oppure una scultura. Il dispositivo dice chiaramente che qui le persone che entrano nello spazio, non partecipano alle riunioni: se hanno accesso da una parte, è solamente alla conferenza.
Tu dichiari di essere realista: dove si trova allora il confine tra una rappresentazione dal reale e una posizione ironica che cita ciò che critica?
Ecco, questo è il motivo per cui non ho mai fatto dei “Ready-made”, per esempio. Il fatto di disegnare e costruire degli oggetti ha una grande importanza per me. Fare delle sculture non è la stessa cosa che spostare un oggetto nel museo.
A mio avviso, però, una minima parentela con il “Ready-made” c’è.
Non credo proprio, poiché ho piuttosto l’atteggiamento di un pittore iperrealista. Cerco di creare un’ambiguità, una sorta di “camouflage”, nella quale lo spettatore si chiede se si tratta di un’opera d’arte, oppure di un oggetto che qualcuno ha dimenticato là.
Uno dei primi pezzi che avevo fatto era una tribuna, posizionata in una sala gigantesca durante un concorso d’arte. Lo spettatore poteva davvero pensare che fosse stata collocata dal servizio pubblico.
Quindi l’ambiguità si gioca anche tra il piano della vita e quello dell’arte.
Sì, in ogni caso non si sa che statuto darle.
Tra qualche giorno, inaugurerà una scultura di marmo di Maurizio Cattelan davanti alla Borsa di Milano. Si tratta del dito medio alzato… Che cosa pensi di questa sorta di “commentario sociale” che si percepisce maggiormente come provocazione pubblica? Sei stato tentato anche tu di fare qualche cosa di simile?
Penso proprio che il ruolo dell’artista sia di fare delle provocazioni, Maurizio a modo suo, io a modo mio. Dopodiché, il messaggio è chiaro: dire “fuck” davanti alla borsa. Ma “fuck” a cosa?
Un artista come Cattelan che vende alle aste per otto milioni e che è diventato lui stesso un “oggetto di speculazione”...
Eh sì, giustamente. Questo è forse un modo per prendersi in giro. Vedrai che alla fine si arriverà a parlare di economia e del mercato dell’arte. Una tale posizione non m’interessa molto.
Sei mai stato censurato?
Esiste la censura frontale - la vera censura - e poi le piccole censure. Spesso mi sono confrontato con alcuni rifiuti, ma per lo più si trattava di istituzioni che si autocensuravano. Non si è mai trattato di un ente statale che rifiuta un lavoro o che chiude una mostra. A Venezia, sì… Ma, questa non è la vera censura, quando per esempio la curia mi ha detto che facevo l’apologia delle profanazioni delle tombe e hanno cercato di rimaneggiare il progetto.
… questa è partecipazione…
…non esattamente. Spingono a un compromesso che distrugge il pezzo… Per tornare all’esempio di Cattelan: non conosco il progetto, ma in questi casi diventa molto importante sapere chi paga, chi dà l’autorizzazione, chi sta dietro. Cioè, chi ha abbastanza potere e soldi per imporre questo lavoro nello spazio pubblico, davanti alla borsa per di più. E, secondo me, è esattamente questo aspetto che diventa interessante e ironico: molto più del dito alzato.
L'intervista è stata realizzata nel settembre 2010.
Il testo originale verrà pubblicato in inglese e lettone sul numero di dicembre 2010 di Studija, Rivista d’arte contemporanea di Riga (LV). Traduzione dal francese dell’autrice, editing Giovanna Canzi
Il comunicato stampa della mostra personale di Fabrice Gygi all'Istituto Svizzero di Roma, sede di Milano, dal 18 settembre al 13 novembre 2010
Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.