Secondo Hans Haacke la pratica artistica è connaturata alla dimensione politica e questa è anche la tesi del libro di Stefano Taccone. Haacke ha vinto il Leone d'Oro alla Biennale di Venezia quando nel 1993 ha "decostruito" il Padiglione tedesco, rappresentando una Germania da rifare. Ma in che modo l'arte può influenzare la trasformazione sociale? "Per Haacke l'arte non incide sulla società direttamente, ma, rendendo trasparenti situazioni di fatto, si pone piuttosto in funzione propedeutica rispetto alla trasformazione" così afferma Taccone nell'incontro di presentazione del volume che ha visto al Pan di Napoli una fitta conversazione fra Marina Vergiani, Stefania Zuliani, Elvira Vannini, Francesca Guerisoli e Matteo Lucchetti.
"Hans Haacke. Il Contesto politico come materiale" di Stefano Taccone
La presentazione del libro al PAN Palazzo delle Arti di Napoli, 29 ottobre 2010
È Marina Vergiani, direttrice del museo, a prendere per prima la parola, evidenziando i due principali motivi per i quali ha accolto "con grande piacere la scelta di presentare il libro 'Hans Haacke. Il Contesto politico come materiale' presso il PAN Palazzo Arti Napoli": da una parte la necessità di "una considerazione ed un sostegno adeguati al lavoro dei giovani critici, oltre a quello dei giovani artisti", dall'altra "la possibilità di ricondurre una parte rilevante dell'attività di Haacke al discorso dell'arte pubblica, alla quale il PAN dedica da tempo una particolare attenzione".
Stefania Zuliani, direttrice, insieme ad Antonello Tolve della collana "Il presente dell'arte" di cui il libro fa parte, ed autrice della prefazione, osserva che si tratta della prima monografia edita in Italia su Hans Haacke, un artista la cui fortuna critica nel nostro Paese - malgrado l'assegnazione del Leone d'Oro per il miglior padiglione nazionale alla Biennale di Venezia del 1993 - rimane inferiore rispetto all'importanza del suo lavoro. Sottolinea quindi la capacità di Haacke di preservare nel corso dei decenni la coerenza originaria delle istanze critiche e ricorda la sua tesi dell'intrinsecità alla pratica artistica della dimensione politica, che è anche la tesi del libro, ma, soprattutto, analizza Haacke in quanto critico dell'istituzione museale e rileva l'importanza del contributo fornito da questo artista agli studi museologici, ai quali ella precipuamente si dedica.
"Se oggi", chiarisce, "per la museologia diviene sempre più urgente pensare al pubblico come una presenza 'critica e creativa', per dirla con José Jiménez, come una delle componenti attive del mondo museale e della proposta artistica, essa trova nel percorso di Haacke, che ha sempre puntato sulla trasformazione del museo in spazio di osservazione e riflessione su se stesso e sulla relazione che intrattiene con il pubblico, sconfessando la sua sedicente neutralità, un terreno di confronto importante".
Elvira Vannini, i cui recenti studi si rivolgono all'analisi delle mutazioni nell'arte del mostrare dagli anni Sessanta ad oggi, pone la questione del rapporto tra le pratiche della critica istituzionale, e di Hans Haacke in particolare, e quelle dell'arte attivista. Se la prima, che ha origine nell'alveo dell'arte concettuale, nel cui ambito è già riscontrabile "la più rigorosa disamina di quelle che sono le condizioni di rappresentazione artistica del dopoguerra", attacca frontalmente le istituzioni, ma continua a riconoscere nel sistema dell'arte il suo referente, la seconda "utilizza in modo innovativo lo spazio pubblico, produce controinformazione, attiva politiche dal basso" e, di conseguenza, "ricusa la dimensione mainstream del museo come riferimento privilegiato". La differenza è dunque riscontrabile sul piano "dell'articolazione di linguaggi e display". La mostra stessa diviene in tal modo "uno strumento di interazione comunitaria e di azione politica, uno spazio di contestazione in cui rivendicare certi diritti". Con questo contesto Haacke "dialoga assai efficacemente", ma rimane non di meno irriducibile ad esso.
Francesca Guerisoli, anche lei specificamente studiosa delle questioni del museo, ribadisce l'importanza del contributo di Hans Haacke alla definizione della critica istituzionale degli anni '60-'70 ed oltre, certificata, tra l'altro, dai due clamorosi episodi di censura dei musei Guggenheim di New York (1971) e Wallraf-Richartz di Colonia (1974), ma rileva il degenerare della "critica dell'istituzione" in "istituzione della critica" cui già da tempo assistiamo.
Prendendo spunto dall'intervista che a lei stessa ha rilasciato Haacke in occasione del suo soggiorno della scorsa estate a Como - ove ha ricoperto il ruolo di visiting professor del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti per il 2010 - ripropone inoltre la questione della differenza tra censura all'interno del museo e censura in spazi pubblici all'aperto, fenomeni, secondo l'artista, non pienamente equiparabili. L'intervista diviene infine anche lo spunto per interrogarsi su "se e quanto l'arte può contribuire ad un processo di trasformazione e ad una riflessione sulle tematiche poste da Haacke nelle sue opere" e sulla risposta fornita da Haacke stesso, secondo il quale "in un mondo in cui i media, a cominciare da internet, ci sommergono quotidianamente sarebbe irrealistico aspettarsi che le opere d'arte abbiano, o possano avere, un effetto immediato", mentre esso "è rinvenibile tra le righe".
Matteo Lucchetti, curatore presso Cittàdellarte Fondazione Pistoletto di Biella di una mostra collettiva che riflette sullo statuto e la funzione della memoria in un tempo destinato ad un "presente totalizzante e totalitario" (Leonardo Sciascia) concentra la sua riflessione sull'Hans Haacke delle "ricostruzioni della memoria", il cui archetipo, Manet-Projekt 74 (1974), segna il passaggio dalla critica istituzionale "pura" (Shapolsky et al. Manhattan Real estate Holdings, a Real-time Social Sistem, as of May 1, 1971) ad una fase in cui è l'intera storia tedesca a penetrare nel museo.
Qualche decennio più tardi Mia San Mia (2001), ispirata alla campagna di propaganda mediatica che porta Jörg Heider alla vittoria delle elezioni austriache, registra invece l'approdo ad una dimensione in cui "la responsabilità storiografica é passata dalle mani degli storici verso il potere dei mezzi di comunicazione di massa", motivo cardine della mostra di Biella. Il discorso della memoria richiama inoltre quello del monumento, sul quale si è interrogata la scorsa Biennale di Carrara, in quanto "dispositivo che nello spazio pubblico rappresenta più di altri le vestigia di una modalità passata di relazionarsi con la memoria attraverso una costruzione estetica". Con l'intervento del padiglione tedesco della Biennale di Venezia, Haacke sottopone "tale costruzione, legata all'edificazione dell'identità nazionale, ad una feroce critica", evidenziandone le origini storiche (naziste) e precorrendo così l'attuale dibattito sulla decostruzione del monumento.
A questo punto prendo io la parola cercando di raccogliere tutte le sollecitazioni che mi sono state poste e di delineare, attraverso di esse, un quadro più organico ed esauriente possibile. Hans Haacke viene giustamente ricondotto di solito - accanto a Marcel Broodthaers, Daniel Buren o Micael Asher - alla cerchia della critica istituzionale, ma la sua specificità rispetto agli altri esponenti di tale tendenza risiede, credo, nel suo concepire il discorso sul sistema dell'arte solo come un punto di partenza per arrivare ad evidenziare che esso non rappresenta altro che "una rotellina della megamacchina del capitalismo". In ciò si avvicina alle pratiche dell'arte attivista, pur senza giungere mai a farne realmente parte. Haacke infatti non vuole uscire dal museo perché scorge proprio nel suo potere di fascinazione enormi margini per un discorso critico di maggiore impatto. Il rovesciamento dei suoi presupposti ideologici appare ai suoi occhi più interessante ed efficace dell'esodo. È vero però che non sempre, ed ormai sempre meno, tale rovesciamento è possibile.
Da tempo le istituzioni dei paesi occidentali hanno imparato a difendersi dagli attacchi che vengono loro sferrati adottando una doppia strategia: da una parte la sussunzione, dall'altra la sottrazione dei mezzi necessari, ovvero una censura non più diretta, ma basata sull'ostracismo economico per cui il pensiero critico continua formalmente ad esistere, ma senza la possibilità di influenzare realmente l'opinione pubblica. In quali termini va inteso dunque il rapporto tra pratica artistica e trasformazione sociale? Esistono risposte differenti e legate a più livelli: se per l'arte attivista bisogna lavorare alla dissoluzione dei confini tra i due termini che la definiscono, per Haacke l'arte non incide sulla società direttamente, ma, rendendo trasparenti situazioni di fatto, si pone piuttosto in funzione propedeutica rispetto alla trasformazione. Anche le ricostruzioni della memoria (si pensi ancora una volta all'opera della Biennale di Venezia, la cui immagine è stata scelta per la copertina del libro) appaiono più che altro ricostruzioni della sua realtà lacerata e solo dopo aver preso coscienza di tale sfascio si potrà procedere ad una ricostruzione vera e propria.
Stefano Taccone
APPROFONDIMENTI:
Intervista ad Hans Hacke, di Stefano Taccone su Segno n. 233, novembre - dicembre 2010
La personale di Hans Haacke nell'ambito di "Give and take", XVI edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti
Foto in home page: Hans Haacke, Documenta Visitor's Profile, 1972. © Hans Haacke/VG Bild-Kunst