Attraversare le contingenze allargando le prospettive

10/01/2011
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Dove la città tocca il cielo


Quando la dimensione terrena solletica quella trascendentale, parlando di qualità del camminare ma anche di documenti fotografico-architettonici dai sapori molto soggettivi. Gabriele Basilico e le sue città: racconti realistici che vogliono dire molto tra le righe. Le sue fotografie leggono la trasformazione e il cambiamento a partire dalle periferie "Scelgo la posizione del punto di vista, adattandomi allo spazio, come un sarto che cuce un abito su misura" afferma in questa intervista con Barbara Fässler.



Gabriele Basilico, Istanbul, 2010








Gabriele Basilico, Istanbul, 2005




Gabriele Basilico, Istanbul, 2005




Gabriele Basilico, Istanbul, 2005




Gabriele Basilico, Istanbul, 2005




Gabriele Basilico, Istanbul, 2005




Gabriele Basilico, Istanbul, 2010




Gabriele Basilico, Beirut, 1991




Gabriele Basilico, Beirut, 1991




Gabriele Basilico, Milano (ritratti di Fabbriche), 1980




Toni Thorimbert, Gabriele Basilico (ritratto), 2010


Gabriele Basilico è una delle voci più conosciute e autorevoli nella fotografia d'architettura contemporanea. Da più di trent'anni viaggia nelle città del mondo con un duplice atteggiamento: da un lato progetta il suo intervento sulla carta seguendo delle tipologie ben precise, dall'altro invece, una volta giunto sul posto si lascia guidare dal caso, immergendosi negli odori e facendosi sommergere dai rumori. Ne scaturisce una fotografia che risente sia della razionalità che della sensibilità: a un'idea preliminare si aggiungono gli oggetti del mondo sensibile.
La rigorosa architettura dello spazio bidimensionale si arricchisce con i molteplici momenti della vita; la geometria tracciata sulla carta comunica con la storia empirica di un luogo. Gli scatti di Basilico fissano la memoria delle città e tramite un censimento continuo si avvicinano sempre di più al significato più profondo del principio urbanistico. Le città si raccontano in queste immagini e ci parlano degli amori, delle guerre, delle speranze e delle delusioni dei suoi abitanti, assenti e presenti allo stesso momento.
Insieme a una classe del liceo abbiamo incontrato l'autore presso la Fondazione Stelline di Milano, mentre era in corso la sua mostra “Istanbul”, e da questo incontro ha preso il via un dialogo allargato a più voci, una lezione-intervista o, volendo, una conferenza interattiva.


Barbara Fässler: Che cosa rappresentano le immagini?

Sara: Una città

Annalisa: Istanbul

Barbara Fässler: In che modo è rappresentata questa città?

Gabriele Basilico: Parlate senza problemi, in modo spontaneo...

Paolo: Ho visto che non rappresenta il centro, la parte storica come si fa di solito, ma i quartieri più poveri.

GB: Sì, esatto, in effetti, questa scelta ha suscitato le proteste di un signore turco che mi scrisse: “ma Lei, da chi si è fatto accompagnare? Se io vengo a Venezia o a Firenze, non mi fate vedere delle schifezze così!” Si è offeso, perché quest'anno, Istanbul è la Capitale della Cultura Europea, quindi è nel mirino di tutti. In effetti, nonostante le sue forti contraddizioni attuali, la città del Bosforo ha un passato illustre. Oggi, per la sua gigantesca estensione è diventata difficilmente indagabile fotograficamente nella sua totalità e quindi occorre fare delle scelte precise.

BF: Che cosa t'interessa di più quando attraversi una città? Il lato formale ed estetico, oppure il suo “contenuto”, ovvero il lato sociale, la vita degli abitanti?

GB: Forse né l'uno, né l'altro in senso assoluto. Sono un fotografo documentarista e mi piace ritrarre lo spazio con esattezza, fare una fotografia molto realistica, senza sconvolgere o astrarre troppo ciò che si vede.

BF: Essere realista significa quindi riprodurre fedelmente una (presunta) realtà obiettiva?

GB: No, direi che dietro il realismo rimane la necessità di fare poesia o scrivere un racconto. Traducendo significa: fare vedere di più di quello che si vede, lavorare sull'intuizione. Una fotografia deve scatenare l'immaginario, ma deve anche porre delle questioni. Con delle immagini astratte, oppure di natura concettuale, si crea, a volte, una sorta di rebus difficilmente risolvibile.
Esiste, invece, un modo più diretto per comunicare con la fotografia: quando oltre l'apparenza del reale, si intuisce un secondo senso che sa intrigare. Nei momenti in cui questo meccanismo è percepibile - perché non è detto che funzioni sempre - ci avviciniamo al campo dell'arte.

BF: Si potrebbe dire che si tratta di un “documento” che idealmente suggerisce un senso più profondo?

GB: Sì, esatto. Per quanto riguarda il paesaggio non m'interessa la “buona fotografia” estetizzante come quella delle riviste turistiche. Al contrario, m'interessa raccontare una storia: vorrei inserire nel mio libro ideale, che racconta e confronta altre città, l'esperienza di Istanbul.

BF: In ogni città si crea, dunque, un racconto diverso?

GB: Certo, lavorare su una città, significa scegliere delle tipologie urbane. A partire dall'identità del luogo, si sviluppa un'idea particolare. A Istanbul ho scelto di lavorare sul tema della trasformazione, concretamente visibile nella periferia. Mi piace leggere il cambiamento morfologico: andare nelle periferie, vedere gli edifici nuovi.

BF: Sei stato più di una volta a Istanbul?

GB: Sì, la prima volta tanto tempo fa, nel 1970, durante un lungo viaggio verso Persepolis, in Iran, e altre due volte di recente, nel 2005 e 2010.

BF: Come procedi per rendere visibile la trasformazione urbana, un processo lentissimo?

GB: Quarant'anni fa, quando visitai Istanbul per la prima volta, contava 2.300.000 abitanti mentre oggi sono 16 milioni. Nelle aree molto povere (quelle contestate dal signore turco) c'erano delle piccole case di legno deliziose. Ormai ne sono rimaste pochissime. Con l'aiuto di uno storico di architettura, sono riuscito a trovarne alcune tra quelle sopravvissute e le ho fotografate.

BF: La mostra confronta due estremi, le periferie nuove e il centro antico.

GB: Non solo. Istanbul è costruita su un territorio collinare che ci riserva continue sorprese. Mi è piaciuto molto il testo di Luca Doninelli, un lavoro di uno scrittore sensibile. Tendenzialmente usa la fotografia per fare un viaggio insieme al lettore, raccontandogli cosa sta vedendo, come Calvino o Celati. Lo trovo straordinario.

BF: Mi ha particolarmente colpito quando Doninelli dice che ogni città ha una “qualità del camminare” che è come la sua impronta digitale, e come si differenzia un chilometro newyorkese da quello a Beijing o al Cairo. M'interessava proprio sapere di te, come ti poni rispetto alle diversità.

GB: Che cosa succede nella testa di un fotografo o di un architetto quando stanno esplorando un luogo? C'è una cosa che li accomuna: il modo di osservare. Un'attenzione particolare ben descritta da Walter Benjamin quando racconta dei passages di Parigi o da Joseph Roth quando scrive delle città bianche e le racconta come se fossero delle persone. Mi chiedono spesso perché nelle mie fotografie mancano le persone... ma le città non sono forse simili agli esseri viventi?

BF: Chiediamolo ai ragazzi.

Cecilia: Perché si vuole concentrare proprio sulla città e non su ciò che c'è nella città.

Piero: Forse t'interessano di più le architetture dell'aspetto sociologico o sociale.

BF: Si può forse dire che la città è un'immagine che rappresenta i suoi abitanti, una sorta di metafora. Magari non è necessario che questi si vedano per capire che le fotografie parlano indirettamente sempre delle loro vite.

GB: Da come una persona si comporta, si può dedurre come sta, che tipo è. Anche per l'architettura si può immaginare, contraddicendo il proverbio, che l'abito fa il monaco.

BF: Tu dici di essere un documentarista: mi viene in mente Eugène Atget che alla fine dell'Ottocento ha censito sistematicamente la città di Parigi con la fotografia. Volevo capire come archivi le tue fotografie: procedi per tipologie, per cronologia o per luogo?

GB: Le identifico in modo molto semplice, dandogli un codice, un numero, una data.

BF: È un archivio cronologico?

GB: Sì, è cronologico, negativi e provini a contatto sono separatamente archiviati e sono sempre rintracciabili. Ma per il resto è tutto basato, purtroppo, sulla memoria personale.

BF: Vorrei ora farti una domanda più metodologica. Esiste nel tuo lavoro un progetto preliminare per ogni città, con delle categorie prestabilite, oppure procedi come un viandante, guidato dal caso, che erra per le strade senza sapere cosa può trovare?

GB: Scoprire la città camminando, come un flâneur, è forse la cosa più divertente, ma dall'altro lato esiste per me anche l'esigenza di un progetto rigoroso.

BF: Di un'indagine scientifica...

GB: Non proprio. Quello che m'interessa si collega agli aspetti relativi alla trasformazione delle città. Per orientarmi, per sapere dove andare, devo per forza interrogare qualche esperto che mi accompagni nei quartieri nuovi, o che me li racconti sulle mappe in modo da poter fare dei sopralluoghi.

BF: Ecco, c'è un progetto preliminare.

GB: Certo, assolutamente, quello è fondamentale! Mi dà inoltre la dimensione possibile del lavoro. Poi, all'interno di uno schema configurato, c'è sempre lo sguardo che ti aiuta a scegliere e a realizzare le riprese.

BF: Ci saranno delle sorprese...

GB: Cerco di leggere la città con intenzionalità. Scelgo la posizione del punto di vista, adattandomi allo spazio, come un sarto che cuce un abito su misura.

BF: Visto che tu sei architetto di formazione, come mai questo desiderio di testimoniare il lavoro architettonico altrui, anziché costruire propri edifici? Si può forse dire che le tue fotografie siano architettate, basate su una composizione molto rigorosa, che si nota nel modo in cui tratti lo spazio?

GB: Mi sono laureato nel 1973. Allora in facoltà si faceva sostanzialmente esperienza politica e sociale. Con la mia prima macchina fotografica è stato più spontaneo documentare ciò che succedeva in città - le manifestazioni e le occupazioni ad esempio - e solo dopo molto tempo la mia attenzione si è spostata sugli edifici e sul paesaggio urbano. All'inizio, ho avuto anche la fortuna di conoscere fotografi bravi, che mi hanno aiutato. Quello che mi trascinava allora era l'impegno del reporter... mi piaceva da morire.

BF: Quindi la tua fotografia debutta come testimonianza sociale.

GB: Con la fotografia ho trovato da vivere meglio che facendo l'architetto. Fotografando l'architettura ho infine collegato le due cose. Infatti qualcuno, riferendosi al mio lavoro, ha detto che si trattava di un vero progetto d'architettura realizzato con la fotografia.

BF: Però allo stesso momento è anche un'elaborazione storica. Una parte delle tue fotografie è in bianco/nero, l'altra parte invece è a colori. Secondo voi, a parte la presenza o l'assenza di colore, che cosa cambia?

Arianna: Aggiunge la vita.

BF: Intendi dire che il colore aggiunge del realismo, forse? Sembrano più vere?

Sofia: Io, sinceramente nelle foto in bianco/nero vedo di più un gioco di ombre e di luci rispetto a quelle a colori.

GB: Ci vedi quindi più disegno, più forma. Del colore si dice sempre che è più realistico.

Sofia: Vorrei sapere su che basi Lei fa fotografia a colori piuttosto che in bianco/nero.

GB: Diciamo che verso la fine degli anni Sessanta, quando ho iniziato a fotografare, la fotografia d'autore era solo in bianco/nero mentre la fotografia a colori era quella commerciale. A metà degli anni Settanta ha fatto il suo ingresso il colore anche nella fotografia d'arte.

BF: Ma tu personalmente in quale circostanza scegli uno dei due generi?

GB: In verità sono sempre stato legato al bianco/nero, ormai da quasi trent'anni. La prima serie a colori è nata nel 1991 per caso, perché avevo finito le pellicole in bianco e nero. Si tratta di una parte del lavoro su Beirut. Comunque personalmente non faccio molta differenza tra i due generi. Il colore offre più informazioni e forse ha un lato più narrativo.

BF: E di conseguenza il bianco/nero si concentra di più sulla forma?

GB: Certo, è risaputo che togliendo l'informazione del colore l'occhio tende a concentrarsi di più sulla forma, il chiaroscuro e il disegno. Ad esempio, ritornando a Istanbul, le immagini della serie in bianco/nero degli angoli di strade sono come dei monumenti: mi ricordano molto le inquadrature di Parigi realizzate da Atget. Una città la puoi vedere dall'alto per contemplarla e per misurare con l'occhio la sua estensione, ma se vuoi conoscerla, devi camminarci dentro.

BF: Devi penetrarla.

GB: Per percepirne il respiro. Una città è piena di sensi.

Sofia: Lei ha detto che c'è una differenza tra vedere una città da fuori o da dentro. Quindi è una scelta consapevole quella di avere messo all'inizio della mostra una panoramica dall'alto e alla fine le immagini degli angoli della strada come apice dell'interiorità?

GB: Certamente, quando fai una mostra, fai ancora un altro progetto.
A questo proposito i fotografi hanno imparato molto dagli artisti. Una volta non si stava affatto attenti all'allestimento dello spazio espositivo. Si potrebbe forse dire che il passaggio dal lato estetico a quello sociale, del quale parlavamo all'inizio, si riflette nel passaggio dalla panoramica alla strada, dalla periferia al centro, dall'esterno all'interno. Se guardi la città dall'aereo, sembra di poterla prendere in mano, poi però ci devi entrare dentro. S'instaura una sorta di dialogo tra una dimensione terrena, e un'altra un po' trascendentale.

BF: Dove la città tocca il cielo.

GB: Me la scrivo questa!


Barbara Fässler, Dicembre 2010
Editing: Giovanna Canzi

Questo articolo sarà pubblicato da “Studija”, rivista di arte contemporanea lettone nel numero di febbraio 2011 in inglese e lettone.


Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.

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