Attraversare le contingenze allargando le prospettive

21/07/2011
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Based in Berlin

Dove vivono gli artisti che non hanno fatto nulla di "riconosciuto" a livello internazionale prima degli ultimi 5 anni e proprio per questo vengono scelti? A Berlino naturalmente... una schiera di curatori ne ha selezionati 87 provenienti da 26 nazioni, dopo 500 studio visit e tra 1.250 portfolio ricevuti via open call.
Così si è costruito il progetto "Based in Berlin", una mappatura della scena "emergente" in quella che è considerata l'attuale capitale dell'arte contemporanea.



Jeremy Shaw, The Image of a Generation (In The End, You'll Be Hooked, Too), particolare, 2011. Foto di Bruno Di Lecce




Mandla Reuter, Nothing to See Nothing to Hide, 2011. Foto di Bruno Di Lecce




Rocco Berger, Oil Painting, 2010. Foto di Bruno Di Lecce




Matthias Fritch, Technoviking (particolare), 2000-2006. Foto di Bruno Di Lecce




Kajsa Dahlberg, Ein Zimmer für sich / Ein eigenes Zimmer / Ein Zimmer für sich allein / Vierhundertdreiunddreißig Bibliotheken (particolare), 2011. Foto di Bruno Di Lecce




Kajsa Dahlberg, Ein Zimmer für sich / Ein eigenes Zimmer / Ein Zimmer für sich allein / Vierhundertdreiunddreißig Bibliotheken (particolare), 2011. Foto di Bruno Di Lecce




particolare dell’Atelierhaus Monbijoupark, Berlino. Foto di Bruno Di Lecce




veduta dalla piattaforma di “based in Berlin” (sullo sfondo il Duomo di Berlino). Foto di Bruno Di Lecce




foyer della mostra, Atelierhaus Monbijoupark, Berlino. Foto di Bruno Di Lecce




Fiete Stolte, Night between 7th and 8th day / 13th week / 2011, 2011. Foto di Bruno Di Lecce




di Eleonora Farina
Interviste a Scott Cameron Weaver (curatore) e Nina Tabassomi (assistente curatrice)

L’8 maggio, un mese esatto prima dell’opening, quella che si potrebbe definire la biennale dei giovani artisti ‘basati’ a Berlino veniva titolata Berlin between Venice and Basel. Perfettamente incastrata tra la mostra d’arte più rinomata e la fiera d’arte per eccellenza, “based in Berlin” è stato il frutto di un ingranaggio aureo che ha portato alla costruzione di una mappatura della scena artistica internazionale nella capitale tedesca. Una mostra che, sia per il gran discuterne già dalla scorsa estate che per l’energia profusa al fine di realizzarla, non è sicuramente passata inosservata. E, anche se non si può parlare di biglietti staccati (l’ingresso è gratuito) o di vendite (non ci troviamo in uno stand fieristico) si è però certi che il numero dei visitatori sia stato decisamente alto e che l’interesse internazionale di sicuro non sia mancato. La serie di eventi serali proposti (praticamente almeno uno a giornata), la preziosa apertura fino a mezzanotte e il piacevole grillbar/club hanno reso la sede centrale della mostra, quella dell’Atelierhaus Monbijoupark, uno dei luoghi di incontro preferiti durante queste tiepide serate d’estate berlinese.

Ecco le cifre della mostra. 1 iniziatore: il sindaco di Berlino Klaus Wowereit, anche assessore alla cultura e a settembre nuovamente in lizza per ricoprire la carica per la terza volta; 3 curatori mentore: Klaus Biesenbach, Christine Macel e Hans Ulrich Obrist; 5 (giovani) curatori: Angelique Campens, Fredi Fischli, Magdalena Magiera, Jakob Schillinger e Scott Cameron Weaver; 6 assistenti curatori; 87 artisti provenienti da 26 nazioni e scelti tra 500 studio visit e 1.250 portfolio ricevuti tramite open call; 2 finanziatori: l’assessorato alla cultura di Berlino e la Fondazione Lotteria Tedesca della città stessa.

L’idea di questa mostra nacque al primo cittadino di Berlino già qualche tempo fa, in seguito all’annoso e spinoso dibattito sulla necessità o meno di costruire uno spazio d’arte (un Kunstverein) per la capitale tedesca. Il signor Wowereit, cercando di mediare tutte le posizioni contrastanti, decise di far finanziare una mostra che si proponesse quale Leistungsschau (lett. ‘mostra delle prestazioni’) della variegata scena artistica berlinese.
E a questo risponde nella mia intervista il curatore Scott Cameron Weaver: “La parola ‘Leistungsschau’ è in realtà venuta dal mondo politico-culturale; sono loro che hanno chiamato questo progetto, forse sfortunatamente, così. Noi abbiamo optato per ‘based in Berlin’ perché abbiamo capito la problematica in quella terminologia, cosa che invece l’assessorato non ha compreso pienamente”.
La mostra - sempre secondo i curatori - è quindi, più che una risposta al problema di uno spazio espositivo permanente, un contributo soggettivo all’interno di questa discussione.
Sempre Weaver: “In che modo si devono investire i soldi pubblici nell’arte contemporanea? Proprio per dare risposta a ciò interpretiamo questo progetto quale piattaforma e contributo al dibattito. Abbiamo quindi presentato una panoramica dell’arte contemporanea berlinese”.
La mostra deve essere infatti un processo di pensiero e, proprio per assecondare questa volontà, i curatori hanno scelto non solo gli artisti ma anche 3 spazi espositivi non commerciali (i quali hanno una programmazione concordata ma indipendente dalla mostra principale), 2 librerie d’arte, 2 luoghi pubblici (per l'intervento di Cyprien Gaillard e quello di Jeremy Shaw) e un interessante programma di lecture, workshop, talk, video screening, performance e concerti. E proprio il programma serale è quello nato per mettere in dialogo artisti, critici, curatori, istituzioni e spazi espositivi berlinesi.

“I curatori ripetutamente sottolineano che hanno deciso di non scegliere alcun focus tematico, ma che invece il loro obiettivo era quello di presentare una visione generale della situazione. Durante la ricerca è poi diventato chiaro, che non si riscontra alcuna tendenza evidente qui a Berlino”, così l’assistente curatrice Nina Tabassomi. Gli artisti, scelti secondo due criteri: l’essere di base nella capitale tedesca (e forse e anche in altre città contemporaneamente), essere emergenti (ovvero non aver fatto nulla di “riconosciuto” a livello internazionale prima degli ultimi cinque anni di carriera).

Gli artisti propongono una variegata moltitudine di soluzioni, alcune delle quali (soprattutto nella sede centrale del Monbijoupark) riassumibili nelle caratteristiche di leggerezza e semplicità dei materiali e nell’utilizzo di oggetti comuni se non addirittura trouvé. Ad esempio l’installazione site specific della messicana Julieta Aranda It is not necessary to resolve this (2009) è una serie di interventi su muro a contenuto socio-politico che sono visibili esclusivamente quando la luce del corridoio, improvvisamente, si spegne.
Legata al graffitismo e più precisamente alla Street Art è l’installazione dell’artista vietnamita Akim, il quale distrugge i graffiti presenti sulla facciata dell’Atelierhaus, ex studio dell’accademia d’arte berlinese Weißensee ora, a causa della gentrificazione del centro di Berlino, destinato a scomparire.
Sempre sull’edificio dell’Atelierhaus lavora anche il sudafricano Mandla Reuter che, nell’installazione Nothing to See Nothing to Hide (2011, riferimento all’opera boettiana del 1969), trasporta una parete dell’edificio, comprese le sue finestre, in un’altra sede di “based in Berlin”, il Neuer Berliner Kunstverein.
E proprio all’n.b.k., dove si trovava la maggior parte dei video, spiccava quello duplice della tedesca Nina Könnemann Sommerleute / Kraft unseres Amtes (2009), nel quale emerge la quotidianità delle persone che raccolgono bottiglie per strada per guadagnarsi da vivere con il vuoto a rendere. Nella stessa sede era in mostra anche la videoinstallazione 19:30 (2011) della slovena Aleksandra Domanović, la quale mixa la cultura techno giovanile con i telegiornali dell’ex Jugoslavia.

Se, a tratti, le pitture appese ai muri del Kunstwerke potevano deludere, l’opera Oil Painting (2010) del berlinese (uno dei due soli presenti in mostra!) Rocco Berger è una chiara riflessione sul mezzo stesso della pittura e del suo significato oggi. Similarmente, la produzione artistica stessa diventa significato e significante per diversi lavori presentati - come sottolineano i curatori -, ad esempio nel video dell’israeliana Keren Cytter Avalanche del 2011.
Altra tendenza riscontrata è coinvolgere il sistema dell’arte contemporanea, evidente nel lavoro dell’artista svedese Nina Canell che, interagendo direttamente con i propri collezionisti, stacca la luce ai loro appartamenti ogni mese per qualche minuto: in mostra la serie di lettere di spiegazione dell’opera dal titolo Black Light (For Ten Performers) del 2009-2010; o ancora nel video del singaporiano Ming Wong Kontakthope (2010), nel quale artisti e curatori berlinesi sono chiamati e re-interpretare un lavoro di Pina Bausch.

I riferimenti evidenti alla cultura di massa sono la terza tematica evidenziata dai curatori: come Matthias Fritch, il cui video Technoviking (2006) ha spopolato su YouTube per mesi; come pure le foto della coppia americana Jay Chung & Takeki Maeda, che ha presentato i ritratti degli avversari politici di Klaus Wowereit; o anche l’installazione del neozelandese Simon Denny presso il KunstWerke, il quale assembla una serie di materiali come ad esempio schermi e telecamere.
Objet trouvé invece per la tedesca Kitty Kraus e la sua avvolgibile, per la macchina/bomba dell’israeliana Ariel Schlesinger, A Car Full of Gas (2010), e per l’unica opera ospitata nella sede della Berlinische Galerie: l’installazione Phallusies (An Arabian Mystery) del 2010 del londinese Simon Fujiwara. Semplicità e leggerezza si ritrovano anche nell'opera della danese Nina Beier (Morphological Mimicry and Mympathetic Magic, 2010), volta a quasi nascondere la colonna di legno del newyorkese David Adamo al KW; infine nel lavoro dell’americano Trevor Lloyd dal titolo lapalissiano Portrait of my mother drawn from memory with my eyes closed, using my left hand, standing on my head (2009). Per quanto riguarda l’Italia, nonostante il numero elevatissimo di suoi artisti su suolo tedesco, l’unica partecipazione è quella del partenopeo Giulio Delvè.

Budget alto, come si diceva all’inizio, con il quale è stato possibile non solo pagare la produzione di molti lavori nuovi ma soprattutto un onorario a tutti gli artisti partecipanti (Germania docet!). Ma quanto la politica ha influenzato le scelte della mostra, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali? “Da parte delle istituzioni culturali berlinesi abbiamo avuto mano libera nel realizzare la mostra come la desideravamo noi. Abbiamo quindi voluto proporre un ritratto di cosa è oggi Berlino. Ogni lettura è evidentemente frutto di una percezione soggettiva: certamente avremmo potuto rifare la mostra altre cinque volte e non sarebbe MAI venuta fuori la stessa cosa!”, così Weaver.

Alla domanda, infine, su quale forma dovrebbe avere un’istituzione artistica berlinese, non ottengo risposta. C’è anche chi sostiene (forse tra gli esclusi?) che, alla fine, a questa mostra era meglio non partecipare.



Il comunicato stampa della mostra

www.basedinberlin.com/en



Eleonora Farina è laureata all'Università "La Sapienza" di Roma in storia dell'arte contemporanea con una tesi sulla Kunsthalle Portikus di Francoforte sul Meno (al tempo diretta dal Prof. Daniel Birnbaum). Dopo un anno di lavoro a Bucarest presso il dipartimento curatoriale del Museo Nazionale d'Arte Contemporanea, al momento vive a Berlino dove ha iniziato un dottorato di ricerca presso la "Freie Universität" (Prof. Gregor Stemmrich) sulla Video Arte in Romania ai tempi della dittatura di Ceauşescu. E' su questa tematica che ha inoltre realizzato diversi progetti curatoriali, ha partecipato a lecture e ha scritto articoli specialistici. Collabora regolarmente con UnDo.Net e con la rivista "Arte e Critica".