Attraversare le contingenze allargando le prospettive

07/06/2013
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Around Gioni

L'analisi di Daria Filardo



Evgenij Kozlov, The Leningrad Album, 1967-73. Particolare dell'installazione, Giardini (Padiglione centrale). Photo by Francesco Galli. Courtesy by la Biennale di Venezia




Levi Fisher Ames, particolare dell'Installazione, Giardini (Padiglione Centrale). Photo by Francesco Galli. Courtesy by la Biennale di Venezia




Oliver Croy and Oliver Elser, The 387 Houses of Peter Fritz (1916-1992), Insurance Clerk from Vienna, 1993-2008. Sullo sfondo: Jack Whitten 9-11-01, 2006. Photo By Francesco Galli. Courtesy la Biennale di Venezia




Linda Fregni Nagler, The Hidden Mother, 2006-13. Raccolta di 997 dagherrotipi, tintype, stampa all'albumina, istantanee. Photo by Francesco Galli. Courtesy by la Biennale di Venezia




Ragnar Kjartansson, S.S. Hangover,2013. Performance. Photo by Francesco Galli. Courtesy by la Biennale di Venezia




Biennale di Venezia 2013, Giardini, Padiglione Centrale, Eva Kotatkova, Asylum 2103. Foto Giulia Ticozzi (part)




Forme autoriali di curatela sono possibili nel 'Palazzo Enciclopedico'? Siamo tutti epigoni di Harald Szeemann? Però senza arrivare all'espressione della sua “individual methodology” (Harald Szeemann, Individual methodology, JRP|ringier, 2008) con quella meravigliosa libertà di forme che interrogava il presente.

Forse i tempi sono un po' cambiati, siamo tutti un pochino più irregimentati sia nell'esprimere a tutti i costi la libertà (in mostre dal sapore politico e sociale, anche se spesso svuotato ed esteticizzato), sia quando tentiamo un'organizzazione formale che rafforza il punto di vista curatoriale e subito veniamo tacciati di autoritarismo, di non fare parlare i lavori autonomamente, di volere avere un ruolo individuale come curatori nella costruzione della conoscenza scadendo in una parzialità troppo ordinata e senza guizzi creativi.

La Biennale di Massimiliano Gioni suscita molti interrogativi, e siamo un po' disorientati nell'analisi di una mostra bella e ambiziosa che però contiene, in senso metaforico e letterale, categorie che credevamo più vicine ad un'espressione “disordinata” che invece Gioni ha reso così bella da vedere da lasciare un po' spiazzati.

Girando per la mostra mi sono trovata immersa nel flusso di una mente (quella di Gioni) da un certo punto di vista ossessivo/compulsiva, una mente generatrice di accostamenti che nascono dall'accumulo, che mescolano passato e presente, tradizioni diverse.

La prima sensazione che ho provato davanti a tutte quelle immagini, disegni, pittura, sculture, libri, installazioni, proprio la prima sensazione è stata di meraviglia.
La sorpresa è stata quella di potere girare e lasciarsi guidare nei meandri della mostra dalle immagini, e ho pensato che forse abbiamo metabolizzato l'arte concettuale.
Il predominio dell'immagine mi ha fatto riflettere sul fatto che forse creare un enorme archivio (parola chiave nella gestione di una conoscenza e nella sua continua riattivazione) non significa più solamente presentare documenti fondati sulla scrittura che nessuno in mostra leggerà mai.

E ancora, forse abbiamo fatto nostro un discorso sull'arte che dura da 50 anni almeno e che ha incluso pratiche altre (filosofia, antropologia, ecologia, teatro, ect), quindi ora ci possiamo godere il suo prodotto - le immagini (in fondo create per essere immagini) - senza dovere per forza conoscere tutto il background per poter anche minimamente comprendere l'opera.
La predominante presenza di oggetti (in senso lato) nella mostra, ci riporta alla realtà di uno spazio – sia esso disegno, pittura, scultura, installazione, video, performance – con il quale misurarci e costruire una relazione, per capirne la necessità, le ragioni profonde.

Massimiliano Gioni ha proposto molti, moltissimi punti di vista, li ha riuniti in un allestimento perfetto e ha ridato la possibilità di guardare.
Al contrario di molti, non sono stata attratta dalle ottime schede che raccontavano le opere (lette solo sporadicamente), quindi guardando non sapevo esattamente se un artista fosse un outsider o meno, ho potuto vagare in questa enorme wunderkammer riconoscendo o meno gli autori, creandomi un mio percorso e con la strana sensazione di avere di fronte la stessa operazione che ognuno di noi fa e cioè la costruzione di una conoscenza fatta di molti pezzi, di molti io che si intersecano, insieme a molti oggetti che ci seducono (non vi è mai capitato di avere manufatti di qualche tipo di cui vi innamorate? E non sono “opere d'arte” riconosciute dal sistema, ma voi gli attribuite lo stesso valore).

I libri, i riferimenti, l'antropologia, la psicologia, la filosofia, la religione e tutto il resto sono nel Palazzo Enciclopedico restituiti nel loro aspetto visivo.
Come dire che tutti noi non siamo solo circondati di immagini perché viviamo in questa società mediale, ma le immagini, quelle intuizioni dove la storia si condensa, sono organismi vitali per la nostra comprensione del mondo e la necessità di creare immagini (meccanismi, processi visivi) è la ragione per la quale l'arte è così fondamentale in tutti i secoli.
Per questo ho trovato pretestuosa la polemica sull'esporre troppi artisti del 900: in fondo è un secolo; pensiamo davvero di fare del bene alla ricerca, alla storia dell'arte, se ci concentriamo solo su artisti degli ultimi dieci anni? Vogliamo lasciare davvero a loro il peso dello svelamento della complessità contemporanea? Abbiamo un orizzonte così breve e ci arroghiamo il diritto di snobbare ciò che è stato pensato solo qualche decennio fa?

Nella sovrabbondanza di lavori esposti e nel tentativo di contenerli con un bell'allestimento sta proprio la contraddizione che credo Gioni proponga; come si fa a parlare del fallimento della sistemazione della conoscenza -visibile in molti dei lavori presentati - e allo stesso tempo organizzare una costruzione tanto complessa come la mostra che ordinatamente struttura lo scibile in forma visiva?
La quantità straborda il limite di una comprensione totale del suo progetto, io non posso contenere tutte le immagini che Gioni ha pensato nella costruzione del suo Palazzo Enciclopedico (che raccoglie il lavoro non solo degli ultimi due anni della sua vita, ma molto di più).
Tutti i tasselli che sono esposti sono un'utopia, una cosmogonia, e non posso che ragionare a monte (e forse andare a rivedere la mostra), sul meccanismo di trasmissione della conoscenza, su come le immagini circolano, come si sedimentano, quale influenza hanno su culture diverse, cosa resta del pensiero/ossessione quando si trasforma in immagine, quale è la sua incidenza culturale, sociale e personale.

Insomma Gioni a 40 anni raccoglie la sua esperienza, la organizza, prova a mettere insieme anche cose che immediatamente non gli appartengono. Io attraversando la mostra sono stata catturata non dal suo desiderio di controllo che pure è visibile, ma piuttosto dalla diversità vitale delle diverse forme d'arte lì presentate; un po' come quando in natura guardi da vicino l'infinita differenza delle forme animali, vegetali, minerali e ti stupisci, e pensi che tutto è incontenibile, ma ogni tanto uno sguardo sul tutto aiuta a focalizzare meglio quello che sei (proprio perché diverso dagli altri, ma fatto di tante parti).

L'unica possibilità di fruire questa mostra per me è stato quindi tentare di costruire una traiettoria che tenesse conto della differenza e insieme dell'urgenza del gesto artistico (mainstream o no) come gesto fondativo. Il lavoro degli artisti è emerso come voce autentica. L'insieme proposto si è sciolto e riorganizzato mentre lo attraversavo in direzioni molteplici, e lungo il percorso ho trovato empatia, curiosità per l'altrove, distacco, rifiuto, conoscenza.

Daria Filardo (Palermo 1971) storica dell'arte e curatrice indipendente, vive a Firenze. Insegna 'Arts management and event planning' e coordina il final project del Master in Arts Management allo IED - Firenze, insegna 'Modern and Contemporary art' al MFA e undegraduate program, Saci Firenze, e 'Storia dell'arte contemporanea', Fondazione Studio Marangoni (2001/20011). Dal 1998 al 2000 ha lavorato come curatore al Palazzo delle Papesse di Siena. Dal 2001 è curatore indipendente.


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