1) Piccola intuizione / ossessione
In treno dopo aver visitato per circa quattro giorni la
55ma Biennale d’Arte, continuo a cercare di mettere ordine - proprio quello che mi riesce peggio e che al curatore Massimiliano Gioni riesce molto bene - nel caos dei miei pensieri e sensazioni sulla Biennale; contemporaneamente una ragazza, trentenne, mi racconta di come si lavora, mal pagati e sfruttati, all’interno della grande macchina Biennale.
A rendere eroica e impossibile l’impresa di schiarirmi le idee contribuisce una domanda ossessiva che ha iniziato a compromettere la mia già scarsa concentrazione: in una delle ultime sale dell’Arsenale, trasformato per l’occasione in uno spazio espositivo museale (ma non era nato come spazio aperto in contrapposizione proprio ai padiglioni nazionali chiusi dei Giardini?), ho visto un lavoro straordinario di Dieter Roth che riconosco perché l'ho già visto, ma dove? Forse era a Documenta di qualche anno fa? Niente da fare, vuoto assoluto!
Tornata finalmente a casa crollo in un sonno profondo ma per strane e misteriose vie – proprio quelle protagoniste di questa Biennale – stamattina, alle otto, ancora in trance, cerco Dieter Roth nei cataloghi delle due Biennali dirette da Szeemann.
Eccolo:
48ma Biennale di Venezia, anno 1999!
Perché inizio da qui? Cosa mi vuole dire questa piccola ossessione?
Leggo la scheda sull’artista riportata nel catalogo
Il Palazzo Enciclopedico, la stessa che era nella sala espositiva (ogni lavoro era corredato da una scheda didascalica e chiara sull’artista e il lavoro esposto).
Dieter Roth, Hannover 1930- Basilea 1998, un testo chiaro, davvero ben fatto, di circa due cartelle sulla passione di Roth per le rovine e i rifiuti che si estende fino a incorporare l’immagine stessa dell’artista, etc etc .
Nell’ultima parte si spiega l’opera esposta,
Solo Szenen, imponente scultura composta da 131 televisori che monitora l’attività quotidiana dell’artista, nei minimi dettagli della vita quotidiana, durante un periodo di convalescenza trascorso negli ultimi anni di vita, “l’opera nega sia la narrazione, sia l’intimità di un autoritratto, ma offre un’intera vita senza gerarchie o parti noiose tagliate” (pagina 410).
Poi leggo la scheda/testo pubblicata nel catalogo della Biennale del 1999
dAPERTutto: “Poco prima della sua morte è stata realizzata una ripresa totale della sua vita simile a un arazzo mobile. Un anziano re dell’arte processuale ci fa vedere come autosorveglianza e documentazione si trasformano in mediazione e poesia.” E ancora: “Così in tutti quegli anni portò le facoltà di vedere, udire, leggere e perfino l’odorato e il tatto, così come sono educati nell’uomo civilizzato, alla totale sregolatezza…”.
Varrebbe la pena di trascrivere l’intero testo per quanto è emozionante e capace di trasmettere tutta la complessità del lavoro di questo artista. Certo è scritto da Szeemann! Il catalogo della Biennale
dAPERTutto non conteneva testi teorici ma solo una premessa visionaria di e alla Szemann
(dApertutto nell’ordine delle sue autorealizzazioni) e schede sugli artisti curate da intellettuali, critici, e artisti stessi: in breve le opere e gli artisti e non le opere ridotte a immagini che illustrano un testo o una teoria. Ma il punto non è questo.
Quello che con questo esempio riesco a mettere pienamente a fuoco, di prima mattina dopo le giornate estenuanti e umide veneziane, è la differenza tra svolgere un buon compito, una ricerca ben fatta su un tema come molti bravi studenti sanno fare (e ovviamente sulla validità di questa ricerca si potrà discutere a lungo nei prossimi giorni), e la capacità di trasmettere vita, suggerire una dimensione davvero reale dell’arte, insieme a emozioni, intuizioni, aperture e connessioni che rivoluzionano, indagano e aprono nuove prospettive sulla realtà contemporanea.
2) Campanello d’allarme
Sono sempre stata affascinata dalle tematiche legate al collezionismo e alle Wunderkammer, così sono andata all’inaugurazione senza preclusioni, anzi al contrario ho difeso questa Biennale prima di vederla, perché immaginavo arte in forma di collezioni, nuove tassonomie legate a nuovi visioni della storia, capaci quindi di far saltare il continuum temporale e di porre le fondamenta di un contro-modello storiografico (il che vorrebbe dire praticare un atto rivoluzionario), insomma tutto ciò che si lega agli studi su Warburg, Benjamin, Malraux e agli artisti che usano l’immagine in quella direzione. Ma non ho trovato niente di quello che pensavo, piuttosto un tentativo sottile e ambiguo di disciplinare e omologare anche le ricerche che hanno questi indirizzi.
Percorrendo il Padiglione Centrale un campanello d'allarme risuona forte nella mia testa.
Sono straordinarie le immagini del
Liber Novus di Jung con cui si apre la mostra al Padiglione Centrale così come i disegni di Steiner nella seconda sala, peccato che tutto sia riportato a una generica ”rappresentazione dell’invisibile”, a fenomeni soprannaturali, al valore magico dell’immagine.
Un’occasione mancata per approfondire lo stupefacente potenziale di realizzazione della riforma della vita che, in maniera diversa, Steiner e Jung proponevano. Non avevo mai visto il libro rosso di Jung ora so che le immagini sono di grande bellezza e intensità e poco altro.
Qualcosa mi riporta alla mente, per contrasto, la mostra curata da Szeemann ad Ascona nel 1978
Le mammelle della verità. Com’è noto agli inizi del secolo scorso il Monte Verità sopra Ascona si trasformò nella “collina delle utopie” e la lista delle celebrità che vi soggiornarono è lunga: oltre a Jung, la danzatrice Isodora Duncan, gli anarchici Michael Bakunin e Enrico Malatesta, lo scrittore Hermann Hesse, artisti come Arp, Paul Klee, teosofi e antroposofi come Rudolf Steiner e molti altri. La mostra di Szeemann riuscì a dare innumerevoli informazioni e a stabilire connessioni tra utopia politica, arte, e una possibile riforma della vita tra capitalismo e comunismo.
Così scrive Szeemann a pagina 8 del libro/catalogo
Monte Verità Antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna: “Ma MONTE VERITA' deve inoltre mostrare cosa possa oggi riproporsi una mostra: essere superamento di ogni parcellizzazione e contemporanea rivelazione delle nascoste componenti fantastiche. Ovviamente mostra che la società ideale è utopica ma che per sua stessa composizione la società sorta a Monte Verità avrebbe potuto essere società ideale…”.
Superamento delle componenti fantastiche, proprio quello che il Palazzo Enciclopedico non riesce a fare! E così anche Steiner e Jung diventano semplicemente illustrazioni più o meno “fantastiche”.
Per analogia il punto di vista proposto da Massimiliano Gioni richiama invece quello che Barr nel 1936 sottolineò con il suo display nella mostra
Fantastic Art, dada, surrealism, una mostra che provocò reazioni violente e numerose polemiche.
Barr presentò le avanguardie in modo genericamente legato ai temi del fantastico e stabilì una genealogia: Bosh, Durer, Giovanni di Paolo, fino al simbolismo di fine Ottocento, suggerendo infine affinità con disegni di bambini, di alienati, persone disturbate psicologicamente e persino con i film di Walt Disney: un modo per rafforzare l’immagine di un’arte legata genericamente al fantastico e all’onirico e per depotenzializzare le tensioni più dirompenti legate ai due movimenti.
La mostra non ricevette il consenso né di Tzara né di Breton, e Katherine Dreier ritirò le opere di sua proprietà non approvando la decisione di Barr di esporle insieme ai disegni di bambini e “pazzi”. Sfumare le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti è una questione affrontata più volte in varie mostre che nella maggior parte dei casi nuoce a tutti!
Un caso eclatante fu nel 1989 la mostra
Magiciens de la Terre curata da Jean Hubert Martin al Centre Georges Pompidou che diffondeva un nuovo quanto generico interesse da parte del sistema dell’arte mainstream nei confronti dell’ “altro”.
La mostra nelle intenzioni voleva essere un confronto tra opere occidentali e non, ma il terreno comune individuato rimaneva quello legato a valori e stereotipi tradizionali, ovvero l’elemento magico ed esoterico, nessuna traccia di sperimentazioni legate all’ibridazione e alla globalizzazione, niente che mettesse seriamente in dubbio la disuguaglianza tra centro e periferie.
Anche a Venezia il confronto tra artisti professionisti e artisti per caso o per necessità (medium che comunicano con morti, cerimonieri vudù, ispirati dal cielo, guaritori che curano con immagini etc etc) si riduce a qualcosa di troppo sommario che alla fine acuisce distanze e non genera nessun cambiamento di prospettiva.
Ovviamente ci sono tante opere importanti che vale la pena di vedere, tuttavia anche le opere di artisti a mio avviso interessanti – come Steve McQueen, Camille Henrot, Neïl Beloufa, Harun Farocki, Gianfranco Baruchello, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Hito Steyerl – sono inserite in un contesto discorsivo che non può essere ignorato.
Difatti il problema è come si costruisce un display, quali sono i contesti che si propongono, a quali logiche risponde l’atto del porre in mostra qualcosa.
Nessuna mostra soprattutto nessuna grande esposizione d'arte contemporanea può sottrarsi alle domande che il display pone: quali sono i rapporti stabiliti con il contesto più ampio politico e sociale in cui siamo?
Massimiliano Gioni seppure giovane - ripetiamolo come vuole tutta la stampa italiana: il più giovane curatore che la Biennale di Venezia abbia avuto (in Italia sembra ormai una garanzia di rivoluzione e novità!) - non è uno studioso di arte esoterica e magica, di cosmografie, di antroposofia, di antropologia etc e non mi sembra abbia una bibliografia che va in queste direzioni.
Gioni è invece il Direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi di Milano, Associate Director e Director of Exhibitions del New Museum of Contemporary Art di New York.
Quindi a 38 anni è uno dei rappresentanti più importanti del sistema dell’arte internazionale; così se lui decide di dedicare la Biennale alla via di fuga nel dominio del fantastico, se lui stesso cerca di rispondere alla domanda citata nel comunicato stampa: “Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori?“ riportando tutto su un piano che non tiene minimamente conto di come l’immaginazione e il sogno possono diventare generatori di realtà sociali e politiche, questo deve avere un senso, anzi penso che proprio questo è il senso.
La realtà politica, la contemporaneità, è completamente esclusa da questa mostra, sembra ormai che non ci possa essere una mediazione possibile tra Biennali sul genere di quella di
Berlino, dove la politica diventa oggetto di attrazione e questa di
Venezia dove nella maniera più conservatrice possibile si depotenzia e si disciplina il valore rivoluzionario dell’arte e dell’immaginazione.
Forse dovremo cercare l’arte altrove, lontano dalla Biennale e dai suoi eventi, lontano dalle feste in laguna sempre più escludenti e blindate da bodyguard e agenti di sicurezza vestiti di nero.
O forse dovremo cercare di esercitare sempre di più all’interno dei confini del sistema dell’arte un nostro pensiero critico, cercando di organizzare nella nostra testa display, connessioni e mappe concettuali capaci di generare quei cambiamenti di cui tutti noi abbiamo realmente bisogno.
Marcella Anglani è storica dell'arte, insegna ultime tendenze dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, scrive su riviste specializzate
55.ma Biennale d'Arte di Venezia, link correlati:
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