Attraversare le contingenze allargando le prospettive

14/06/2013
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Padiglioni polifonici alla Biennale


Testo e fotografie di Barbara Fässler



Romuald Karmakar, 'Hamburger Lektionen' (Hamburg Lectures), 2006. Padiglione tedesco




Anri Sala, Ravel Ravel, 2013. Padiglione francese




Maria Hassabi, Intermission, Life installazione. Padiglione lituano e cipriota




Dénes Farkas, Evident in Advance, 2013. Padiglione estone




Bashir Makhoul, Otherwise occupied, 2013. Padiglione palestinese




Ursula Biemann, Deep Weather, 2013. Padiglione delle Maldive




Simryn Gill, Let Go, Lets Go (dettaglio), 2013. Padiglione australiano




Pedro Costa, Minino Macho – Minino Fèmea, 2013. Padiglione cubano




Kaspars Podnieks e Krišs Salmanis, North by Northeast, 2013. Padiglione lettone




Luo Ling & Liu Ke, Shunde Venice project, 2013. Padiglione keniota




Bruno Munari, Concave/convex, 1947. Padiglione brasiliano




Una percentuale significativa degli 88 Padiglioni Nazionali all’odierna 55. Esposizione Internazionale a Venezia ripensa l’autorappresentazione del rispettivo Stato alla luce dell’attuale complessità culturale e della realtà migratoria nell’era delle reti globali.
C’è chi scambia l’edificio del padiglione con altri e chi unisce le Nazioni sotto un solo tetto in un unico progetto; c’è chi ospita artisti stranieri e chi cura mostre altrui, chi, invece, da artista rappresenta il proprio paese di residenza o di formazione.

La notizia dello scambio tra il padiglione tedesco e quello francese non può stupire chi già seguì le faccende delle Biennali nelle ultime edizioni: basti pensare a Dora Garcia che invitò gli artisti internazionali presenti a Venezia a contribuire alla sua piattaforma «L’inadeguato» nel Padiglione Spagnolo (2011) oppure all’artista Italiano Gianni Motti, vivente a Ginevra, che rappresentò la Svizzera nel 2007.
Questi fenomeni non indicano soltanto un’evoluzione verso una maggiore trasparenza dell’idea di Nazione, ma rendono visibile la tendenza di una definizione diversa dell’identità nazionale stessa e di ciò che può essere la sua rappresentazione ufficiale di fronte al resto del pianeta.
Le motivazioni di questo mutamento percettibile e le varietà formali nelle quali si esprime, risultano diverse da caso a caso, come vedremo, ma tutti gli esempi dimostrano una maggiore apertura verso l’esterno, una rinforzata tolleranza verso la differenza e un cresciuto interesse verso l’altro da sé.
L’altro che specchia il sé e che riesce a definirne con maggiore precisione la sua unicità e particolarità e a costituirne così facendo la sua identità.

Lo scambio dei due Padiglioni – della Francia e della Germania – è andato in porto dopo dieci anni di ardue negoziazioni, ma puntualmente per i 50 anni del trattato dell’Eliseo che mise fine al conflitto tra i due Paesi e che sanzionò la loro collaborazione in materia di sicurezza, economia e cultura.
Mentre per la Germania si tratta di interpretare l’identità nazionale come «costellazione mondiale di influenze e dipendenze anziché di chiusura ermetica», la Francia cerca di evidenziare «la prossimità dei due popoli, di riconciliarsi, di condividere la speranza e i valori universali».
Entrambe le mostre coerentemente espongono artisti di altre Nazionalità che testimoniano di un forte rapporto con il Paese ospitante.

La Germania è rappresentata dalla superstar cinese Ai Weiwei, con un’installazione all’over – «Bang» in forma di rizoma costituita da tradizionali sgabelli di legno, individui collegati che formano la ragnatela della collettività.
L’iraniano Romuald Karmakar, mette gli spettatori a confronto con video dal forte significato politico: il primo su un meeting di neonazi tedeschi, nel secondo l’attore Manfred Zapatka recita un discorso dell’imam Salafi Mohammed Fizazi della moschea Al-Quds ad Amburgo.
Le fotografie del sudafricano Santu Mofokeng, invece, ci sottopongono i paesaggi traumatizzati dalle miniere delle corporazioni, Daynita Singh con video e fotografie ci parla dei conflitti tra la tradizione e la vita odierna in India.

Il padiglione francese ospita, da canto suo, Anri Sala, albanese che vive a Berlino e che si è formato in Francia. La sua installazione ci fa penetrare in un ambiente di video e suono, con un’acustica pressoché perfetta in uno spazio in cui è completamente eliminato qualsiasi effetto di eco.
Le due registrazioni contemporanee del «Concerto in sol» di Ravel, scritto appositamente per il pianista Paul Wittgenstein (fratello del filosofo Ludwig) che aveva perso il braccio destro nella prima guerra mondiale, sono proiettate in contemporaneo e divergono quindi spesso leggermente a livello temporale. Navigando in un mare di suoni di una qualità incredibile, Sala ci fa così riflettere alla nozione di perdita e di recupero, di handicap e di virtuosità.

La collaborazione traLituania e Cipro Paesi situati agli estremi dell’attuale Europa, è nata da una felice coincidenza anziché da trattative diplomatiche.
L’inventivo curatore lituano Raimundas Malašauskas è stato invitato dalle rispettive Nazioni a curare entrambi i Padiglioni una all’insaputa dall’altra e ha deciso di costruire una mostra-happening nel gigantesco palazzo dello sport – «Palasport» – sul retro dell’Arsenale per entrambi i «committenti».
Nella mostra «oO Oo» – dal dettaglio al totale e ritorno – concepita come processo continuo, gli artisti lituani e ciprioti si confrontano con artisti internazionali in un’imponente architettura modernista di cemento che ricorda lontanamente le costruzioni sovietiche. Lo spazio centrale è strutturato ritmicamente da 46 muretti divisori trasportati lì da vari musei europei: «Cousins» è ad opera dell’artista olandese Gabriel Lester.

La cipriota Maria Hassabi, da canto suo, inonda lo spazio con «sculture viventi» che si muovono, munite da scarpe argentate, rotolando piano piano, come la lava che scende, sugli scalini della tribuna. Nelle scale buie e angosciose dell’edificio s’incontrano delle stampe fotografiche giganti in bianco/nero con esercizi di ginnastica dall’era sovietica, opera del lituano Algirdas Seskus.
Lo scooter in cemento armato, nascosto in un corridoio – del cipriota Constantinos Taliotis – ricorda il viaggio mitico che, proprio in scooter, i giovani architetti collaboratori di Behrens, Le Corbusier, Mies van der Rohe e Gropius intrapresero insieme a Nicosia.

Il padiglione estone è composto quasi totalmente da presenza straniera: curato dal polacco Adam Budak mette in scena una drammaturgia accurata dell’artista ungaro Dénes Farkas che vive in Estonia. «Evident in Advance» prende spunto dagli scritti di Ludwig Wittgenstein sul linguaggio, il Tractatus logicus che sottolinea la sistematicità del pensiero e le Ricerche filosofiche, che vedono al contrario il pensiero come asistematico trattamento di materiale empirico.
La mostra, costituita da installazioni, fotografie giganti di modelli architettonici in carta, librerie, suoni di letture e un’installazione con documenti e schizzi, cerca, infatti, di problematizzare l’accessibilità del linguaggio e la sua funzione.
«A world, a text?» come puntualizza bene Maurice Blachot, citato nel catalogo, che contiene inoltre testi di due filosofi italiani: Adriana Cavarero e Daniele Monticelli, professore associato di studi italiani e semiologia all’università di Tallin.
La struttura architettonica del padiglione estone è stata curata dallo studio berlinese di Markus Miessen che ha fatto parlare di sé per le sue teorie polemiche contro l’attuale cultura partecipativa in “The Nightmare of Participation”.

Anche nel Padiglione Palestinese con il titolo eloquente «Otherwise occupied», si possono ammirare dei modelli architettonici di cartone. Nel giardino dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’artista Bashir Makhoul invita gli spettatori a contribuire all’occupazione del giardino, deponendo una scatola di cartone nella quale si intagliano delle finestrine. Il Padiglione del paese che non c’è, diventa così inevitabilmente un gesto di occupazione abusiva come appropriazione e costituzione identitaria in via di definizione.
Nel video di Aissa Deebi, invece, due attori replicano, in un’atmosfera vagamente kafkiana, un discorso che il Palestinese Daoud Turki tenne alla corte di Haifa prima di essere condannato a diciasette anni di carcere per spionaggio. Il Padiglione Palestinese, curato dall’americano Bruce W. Ferguson che vive al Cairo, cerca così - «oltre le rivendicazioni nazionalistiche» e con mezzi artistici - di interrogare in maniera critica l’identità palestinese alla ricerca di una propria utopia.

Alle spalle dei Giardini, in un antico palazzo si è insediato il Padiglione delle Maldive che si presenta, ad eccezione del commissario e ministro della cultura, con una presenza al cento per cento straniera; contribuiscono ventun artisti da undici Paesi. L’esposizione si focalizza sugli sguardi che gli artisti internazionali puntano dall’esterno sulle isole nell’Oceano indiano. Tra loro due svizzeri e un italiano. Christoph Draeger presenta con l’austriaca Heidrun Holzfeind il video «Tsunami Architecture» che indaga le costruzioni post-catastrofiche in cinque paesi del continente indiano, mentre nel video «Deep Weather» di Ursula Biemann vediamo la popolazione del Bangladesh alle prese con la costruzione di una diga a difesa dalle continue inondazioni.
L’italiano Stefano Cagol, invece, mette in scena “The Ice Monolith”, esposto durante l’inaugurazione ad un processo inevitabile di sparizione, che mette in luce la problematica dello scioglimento dei ghiacci altrettanto pericolosa per le Maldive che per la stessa Venezia.

L’Australia espone con Simry Gill un’artista di Singapore che vive a Sidney e che problematizza con le sue installazioni le condizioni esistenziali dei viandanti. Appositamente lascia aperto il tetto del padiglione, destinato alla distruzione e alla ricostruzione dopo questa edizione e provoca così, in un lento processo entropico, il lavaggio e la rovina delle sue stesse installazioni: muri dipinti con l’inchiostro di China (della Cina), collages con parole ritagliate dai libri e trasformate in strani insetti e oggetti di forma anellare, sono stati raccolti per anni e ora appesi ai muri formando i cerchi dell’eterno ciclo piuttosto che uno zero.
Certamente non a caso, nei libri impilati a terra che sono stati usati per costruire i suoi lavori sul grande muro, troviamo titoli come «Australian Nationalism», piuttosto che «Where I was from», parole significative della sua riflessione sull’identità di chi emigra come lei.

Nell’esposizione di Cuba, che si svolge nel museo archeologico di Piazza San Marco, sette artisti cubani sono chiamati a dialogare con sette artisti internazionali. Nell’installazione pitagorica della cubana Glenda Leon, ogni stella diventa un suono e una piccola musicbox suona l’universo, mentre Maria Magdalena Campos-Pons (Cuba) e Neil Leonard (USA) mettono in scena la situazione cubana con storie quotidiane in piccoli schermi video situati all’interno di gabbie d’uccello che riempiono tutta la stanza abitata da sculture antiche.

Alla Fondazione Bevilacqua La Masa, la Norvegia affida la cura della mostra celebrativa dei 150 anni su Munch alla critica e Neo-Assessora alla Cultura e Turismo della città di Venezia, Angela Vettese. Lei ha scelto di mettere a confronto i dipinti e i disegni del predecessore dell’espressionismo tedesco con un film dell’artista norvegese Lene Berg «Dirty Young Loose».

Anche la Lettonia invita due curatrici dall’estero, per la precisione americane, Anne Barlow e Courtenay Finn di «Art in General» a New York, a collaborare con Alise Tifentàle del Centro di arte contemporaneo «kim?» di Riga. Contrariamente agli altri Stati baltici, la squadra di curatrici ha deciso di giocare in casa e di rappresentare il paese con due artisti lettoni che narrano al pubblico internazionale della vita tradizionale nelle campagne innevate.

La forte presenza di artisti cinesi nel padiglione keniota, a quanto pare, è motivata dalla povertà del paese, obbligato a farsi finanziare dalla potente Cina.
Nel padiglione brasiliano, il dialogo con artisti di altre nazionalità, invece, è giustificato dal confronto delle produzioni di Helio Fervenza e di Odires Mlàszho con una «trilogia di lavori fondamentali» storici che riguardano la striscia di Moebius ad opera di Bruno Munari, Lygia Clark e Max Bill.

Le motivazioni per una differente concezione della rappresentazione nazionale sono, come si è visto diversissime: dal trattato di pace e dall’accordo di collaborazione a una coincidenza felice, dallo sguardo esterno al finanziatore potente, dall’opera paradigmatica all’apertura verso l’altro.
Questo sviluppo non deve stupirci: la Biennale nasce 118 anni fa sul modello delle esposizioni internazionali del 19. secolo in un’ottica di forte concorrenza tra i paesi che si esprime nella gara architettonica tra i padiglioni.

Nel mondo contemporaneo delle reti multiculturali e delle migrazioni, l’attenzione si muove dalla forma al contenuto, dall’esteriorità al pensiero e dall’oggetto al processo continuo.
La costituzione identitaria dei vari Paesi e delle loro culture segue logicamente lo sviluppo della loro storia e in una società in continuo movimento migratorio, in una situazione d’incessanti flussi d’informazione e d’immagini e in un periodo storico in cui il multilinguismo è diventato quasi standard nelle città, ma anche per gli stessi individui. Una rappresentazione monoculturale e monocroma, che è sempre stata idealistica, sarebbe più che mai priva di fondamento empirico.

Alla Biennale di Venezia i padiglioni nazionali mantengono il nome sulla facciata e un'architettura un tempo accuratamente scelta per mettere in scena l’immaginario dei propri rappresentanti, ma al loro interno le modalità per esprimere, descrivere, visualizzare ciò che sono oggi i Paesi, sono diventate polivalenti, sfumate, scivolose e hanno perso la loro presunta univocità.
La funzione dei padiglioni è così mutata in palcoscenico per il dialogo interculturale, la ricerca identitaria e punti di vista cangianti - in continua complessa ridefinizione.


Barbara Fässler, 7 giugno 2013


Le immagini dei padiglioni nazionali





Questo articolo sarà pubblicato anche sul prossimo numero della rivista Studija in inglese e lettone

Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.

Sempre a proposito della 55ma Biennale d'Arte di Venezia, di Barbara Fässler puoi leggere anche questa intervista al curatore Massimiliano Gioni

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