Attraversare le contingenze allargando le prospettive

18/10/2013
stampa   ::  




Identità sul confine


Tra Salerno e Napoli, a Scafati, si trova uno spazio particolare: Di.st.urb. Qui si è svolta Displacement Reactions, una mostra collettiva con opere che hanno per tema i diversi aspetti dello spostamento umano attraverso i territori e le implicazioni che la delocalizzazione comporta sulla costruzione delle singole soggettività.
Eugenia Delfini (Sottobosco) ha curato la mostra, qui chiede agli artisti di parlare dei loro lavori e ai fondatori di parlare dello spazio Di.st.urb.



Displacement Reactions, dal 29 settembre al 29 ottobre 2013, Di.st.urb c/o Circolo Culturale Ferro 3, Scafati (SA). Pieghevole della mostra




Giuseppe Fanizza e Andrea Kunkl, Immaginari di Confine - Mare Nostrum, 2010-11. Courtesy degli artisti




Giuseppe Fanizza e Andrea Kunkl, Immaginari di Confine - Mare Nostrum, 2010-11. Courtesy degli artisti




Enrica Cavarzan e Giuliana Racco, Parallel, 2010. Courtesy delle artiste




Enrica Cavarzan e Giuliana Racco, Parallel, 2010. Courtesy delle artiste




Nicolò Degiorgis, Transitando, 2010. Courtesy dell'artista




Nicolò Degiorgis, Transitando, 2010. Courtesy dell'artista




Nicola Nunziata, Ibis Redibis, Installazione, Porto Vecchio-Teatro Margherita, Bari 2011. Courtesy dell'artista




Nicola Nunziata, Ibis Redibis, Installazione, Porto Vecchio-Teatro Margherita, Bari 2011. Courtesy dell'artista




Displacement Reactions, veduta della mostra




Displacement Reactions, veduta della mostra




Displacement Reactions, veduta della mostra




IMMAGINARI DI CONFINE

Immaginari di Confine intende riflettere sulla linea di demarcazione tra il dentro e il fuori, fra il Noi e il Loro, fra il comunitario e il non-comunitario, lungo quel filo sottile che lega l'identità locale a quella sovranazionale, la tradizione alla globalizzazione. È un’analisi metaforica sul confine della “Fortezza Europa”, sui valori comuni, sui popoli e i territori ai nostri confini.

E.D: In che maniera e secondo quale approccio avete voluto lavorare sulla questione del confine?

Giuseppe Fanizza & Andrea Kunkl: La prima parte di Immaginari di Confine – Mare Nostrum – (la trilogia di Lampedusa, Lesbo e Ceuta che la mostra ospita) è nata come sezione visuale di una ricerca del Dipartimento di Sociologia dell'Università di Milano Bicocca.
La domanda cognitiva del dipartimento era "L'Unione Europea come spazio delle opportunità o come fortezza?" ed era affidata alla sociologa Giorgia Serughetti che ci ha accompagnato nelle ricerche, occupandosi dell'impianto teorico.
D'altra parte noi, come fotografi, eravamo molto liberi e abbiamo cercato di concentrarci su come gli abitanti del confine determinassero il centro politico e decisionale europeo, su come immaginassero l'Europa stessa. Inoltre ci siamo accorti subito che i luoghi di confine funzionano come filtri, non solo delle merci e delle migrazioni, ma anche delle storie, delle memorie, di tutto il flusso di energie che li attraversa. 
Ci è sembrato quindi utile partire dai singoli racconti e dalle storie individuali, cercando di raccogliere gli elementi rimasti nel setaccio del confine. A quel punto, creare una serie rigorosa, molto caratterizzata, quasi come un atlante è venuto naturale. Inoltre stavamo indagando non solo gli immaginari che gli abitanti del confine hanno dell'Europa, ma anche le nostre proiezioni del confine, con il carico mediatico che caratterizza questi luoghi. La possibilità di scambiare il nostro immaginario con il loro immaginario tramite il mezzo fotografico è stata la chiave di tutto il lavoro.

E.D: Che ruolo ha avuto l’approccio fotografico all’interno del progetto?

G.F&A.K: L'approccio fotografico, la scelta del rigore catalogatorio e del ritratto, era essenzialmente funzionale e necessario all'indagine.  
Il ritratto sottintende un rapporto fra fotografo e oggetto della ricerca, e si comporta in maniera bizzarra relativamente al linguaggio: l'equidistanza dal soggetto, la limitazione del proprio intervento emotivo provocano una percezione di oggettività e scientificità, che sono in realtà ottenute con un massiccio intervento da parte dell'operatore che in pratica costringe il soggetto a rapportarsi con lo spazio in maniera del tutto innaturale, come farebbe con le foglie di un erbario.
E questo è ancora più evidente nel video, in cui il soggetto si muove e si esprime senza mai questionare la sua posizione nell'inquadratura.
Inoltre con Immaginari di Confine abbiamo iniziato ad utilizzare un metodo di confronto che è andato oltre l'attribuzione del singolo click a uno di noi. Se si intende la fotografia come strumentale all'indagine, resistendo alla tendenza a sminuire il processo di documentazione, non è più tanto interessante chi sia l'autore di quella o quell'altra immagine. Un atteggiamento che abbiamo poi trasportato in altre ricerche fatte collettivamente con il nome di ubiq.

E.D: Quali sono a vostro parere gli aspetti più significativi emersi da questa ricerca?

G.F&A.K: Innanzitutto il contesto storico della ricerca precede le rivolte arabe e le migrazioni che le hanno seguite. Tutti e tre i luoghi vengono raccontati in un momento di quiete (questo lo ammettiamo è stato un caso temporale). Tutti e tre sono icone del confine meridionale dell'Europa. Dal loro racconto emergono enormi similitudini e piccole differenze prodotte da questa Europa che sta mostrando una faccia molto differente rispetto alle promesse fatte di pace e prosperità. 
Ma la situazione di relativa calma in cui ci siamo trovati ha fatto emergere un aspetto interessante, proprio a proposito degli immaginari.
Guardiamo alla migrazione sempre in relazione ad eventi drammatici e violenti (si usano termini come ondata, invasione, orda, etc.), spesso legati a guerre e ad altri sconvolgimenti. Questo immaginario straordinario, proposto dai media, distoglie la nostra attenzione dall'aspetto ordinario della questione migratoria: il normale scambio fra confini, il naturale flusso di persone e conoscenze, le lingue che si mescolano nei secoli, il "banale" spostamento degli esseri umani sulla superficie del pianeta.

PARALLEL

Nel luglio del 2009, durante l'apice dell’“Emergenza Immigrazione Clandestina in Italia", pochi mesi dopo la rivolta nel CPT di Lampedusa, siamo arrivate a questa isola minore, geograficamente parte dell’Africa ma annessa all'Italia nel 1860 per ospitare inizialmente una colonia penale e abbiamo sviluppato il primo numero di Parallel.

E.D: Mi raccontate come nasce Parallel e perché avete scelto questo titolo per la pubblicazione?

Enrica Cavarzan & Giuliana Racco: Parallel nasce come primo numero di una seria di pubblicazioni progettate per includere diversi luoghi, o case studies, mirate a raccogliere testimonianze, scritti e immagini che riflettano diversi aspetti del movimento umano attraverso i territori evidenziando gli aspetti legati al desiderio e alle destinazioni.
In quel momento, Giuliana stava finendo un periodo di lavoro durato due anni come ricercatrice e traduttrice di un mastodontico libro legato ad un'esposizione che analizzava i flussi di movimento a Venezia, inoltre, da anni investigava la tematica dell'immigrazione, Enrica portava avanti il suo interesse per i libri e per la mediatizzazione dei messaggi e dei fatti. Nasce così la necessità di creare un lavoro che partisse dai luoghi specifici, che parlasse di un luogo preciso, osservando la rappresentazione mediatica ma proponendo altre rappresentazioni dei fenomeni del movimento collettivo, specificamente uno che in quel momento i media popolari descrivevano come un'emergenza, non per chi subiva la tratta ma la così definita “povera” Europa, ovvero l’Italia che si dipingeva vittima di un flusso di non-persone sbarcate sulle sue coste. Quindi, siamo andate a visitare Lampedusa, l'ultimo lembo della così detta zona Schengen dell'Europa, ovvero di Fortezza Europa, ma geograficamente parte del continente africano. Abbiamo parlato con gli abitanti dell'isola per sentire le loro voci sul fenomeno visto che loro lo vivevano direttamente, cioè i pescatori, i ragazzi della cooperativa Alternativa Giovani che gestiscono anche una stazione radio, chi lavora nel CIE, il parroco (dalla Tanzania) che entra nel CIE tranquillamente per fare messa e altri…Non ci sono le voci dei profughi stessi in quanto queste persone, nonostante la rappresentazione mediatica di un 'invasione', non si vedono nell'isola, infatti appena arrivano vicino alle coste, scatta l'operazione militare che li trasporta direttamente nei CIE (centro per identificazione e espulsione). Come dice un pescatore: vediamo i clandestini solo quando andiamo a Palermo...non puoi trovarne neanche uno sulle strade di Lampedusa.
Il titolo Parallel deriva dall'idea di rappresentare, come dice l'introduzione “la possibilità di diverse realtà che esistono simultaneamente e uno a fianco all'altra senza mai incrociarsi”.

E.D: Il libro è suddiviso in sette parti, vorreste illustrare il percorso visivo che avete immaginato?

E.C.&G.R: Il libro si è sviluppato nei due anni seguenti la nostra visita a Lampedusa. Vari altri nostri viaggi sono inclusi come materiale (sia reali, che letterarie e linguistiche) proprio per concentrare l'attenzione sul concetto di viaggio e di movimento attraverso i territori. Dopo tante elaborazioni, abbiamo deciso che la divisione in sette capitoli, resa in senso circolare, cioè che parte e finisce col capitolo sullo spazio, attraverso l'osservazione, gli avvistamenti, i naufraghi, gli alieni, l'altrove e il movimento, crea una sorta di narrazione circolare del concetto di viaggio nell'incognito. È stato un modo per staccare dall'argomento topico, attuale e di fare un passo in dietro, di rappresentare quanto la storia dell'uomo è una storia di viaggi nell'incognito, sia reale che irreale (fior fior di letteratura e illustrazioni fantastici e mitologici, dai favolosi vimana indiani alle "Empires de la lune" di Cyrano), ed anche una riflessione sul sogno di utopie sia territoriali che linguistiche (come le lingue universali). Queste oscillazioni sono un modo per dare un'altra lettura alla realtà dei fatti, un'altra narrazione e descrizione dell'uomo che è sempre fuggito dalla persecuzione dell'uomo stesso e che ha sempre sognato lidi paradisiaci.

E.D: L’immaginario che i media propongono è una visione altra rispetto a quella di chi come voi è stato sull’isola, secondo voi qual è la reale percezione che si ha a Lampedusa dell’“invasione” dei flussi delle “non-persone” e da che cosa intende distoglierci l’attenzione la comunicazione dei media?

E.C.&G.R: La “reale percezione”, ovviamente, è anche molto personale, perciò ognuno, anche tra la piccolissima popolazione di Lampedusa la vive diversamente, dai pescatori alle casalinghe, dagli attivisti di Alternativa Giovani al parroco fino all'assessore comunale. Quello che ci ha colpito è che i fatti accadano prima intorno all'isola (gli sbarchi durante la notte, gli avvistamenti ecc.), subito subentra l'intervento militare, e poi la rappresentazione mediatica (telegiornali, giornali ecc). È importante anche notare che i quotidiani arrivano in ritardo a Lampedusa rispetto al resto della penisola (verso mezzogiorno per via aerea dalla Sicilia). Quindi, paradossalmente gli abitanti di Lampedusa leggono o ascoltano con un ritardo ciò che è accaduto durante la notte. Visto che non ci sono “clandestini” che girano per le strade, cioè non c'è una “invasione” si crea anche un immaginario molto confuso. Per esempio, i ragazzi di Alternativa Giovani, facevano attività con i bambini nelle scuole per meglio gestire l'immaginario della figura del “uomo nero” che dai media si percepisce invadere e girare per l'isola. Mentre i pescatori, che più sono in contatto con la situazione reale, esprimevano grande disagio e anche rabbia nel confronto del “governo di Roma” che li obbliga a non poter attuare salvataggi di naufraghi o imbarcazioni in difficoltà in mare, andando così contro le “leggi del mare”. Rischiano addirittura una denuncia per favoreggiamento di immigrazione clandestina. E considerando che a Lampedusa la legge del mare ha una sua importanza, rappresentativa anche del loro stesso stile di vita isolano, i pescatori si sentivano, per così dire, calpestati e offesi. Ovviamente cambia anche la percezione da pescatore a pescatore. Poi, c’è anche chi ha interessi economici nel settore del turismo da far valere. È chiaro come per queste persone la “cattiva pubblicità” dei media che mostravano un'isola invasa da immigrati clandestini gli recasse danno. E così via. Ognuno con una percezione legata alla sua diretta esperienza. Come ci spiegava il parroco, tra l'altro Tanzanese, agli inizi degli sbarchi, prima della militarizzazione del fenomeno, gli abitanti di Lampedusa reagivano portando coperte e beni di prima necessità nel piazzale antistante la chiesa. Poi con l'incremento del fenomeno e lo sviluppo dei CPT e poi dei CIE, la gestione si è spostata da una volontà spontanea a una di registro statale-militare.

TRANSITANDO

Percorrendo gli 80 chilometri più settentrionali dell’Italia, il progetto porta avanti una ricerca che tocca i temi della futilità, di incontri e di contrasti, quali punti focali di una riflessione sull’identità in terra di confine.

E.D: Vorresti raccontare come nasce il progetto, da chi è stato commissionato e con quali obiettivi?

Nicolò Degiorgis: Il progetto nasce a seguito della richiesta da parte della Provincia Autonoma dell'Alto Adige di fare una mostra all'Istituto Italiano di Cultura di Copenhagen. Ho deciso di produrre Transitando, un racconto fotografico della mia terra di provenienza, sia per far conoscere all'estero la complessità dell'identità culturale di questo territorio, sia per riscoprire io stesso l'Alto Adige.

E.D: Qual è stato il tuo approccio e quali sono le sfumature culturali più significative emerse da questa ricerca?

N.D: Il mio approccio è quello della fotografia documentaria. Ho ritratto sia la gente che ho incontrato casualmente durante il percorso, sia selezionato alcune immagini con l'intento di toccare alcuni tasti sensibili riguardanti la storia recente.
Essendo cresciuto in Alto Adige, il mio scopo principale è quello di osservare come all’interno della società civile, le minoranze marginalizzate riescano a ricavare per sé un ambiente nel quale vivere. Mi piace occuparmi di una tematica per lunghi periodi, spesso per anni, cercando da un lato di instaurare una relazione di fiducia con le comunità e dall'altro di approfondire a livello scientifico la ricerca. Senza questi requisiti non credo che si riesca ad acquisire la sensibilità necessaria per creare un progetto documentario valido in grado di affrontare questioni complesse Essendo terra di confine, le sfumature culturali e identitarie sono molteplici e difficilmente traducibili a parole. Io stesso, fin dalla nascita, sono cresciuto tra due culture e due lingue, cosa che mi ha spinto a utilizzare il linguaggio fotografico per evitare barriere linguistiche.

IBIS REDIBIS

Ibis Redibis è la traduzione italiana del responso sibillino “Ibis redibis numquam peribis in bello” che offre una duplice interpretazione, a seconda della punteggiatura che si desidera utilizzare: se la virgola è posta prima di “numquam” il significato del responso è “Andrai, tornerai, non morirai”, se la virgola è posta dopo il senso risulta rovesciato: “Andrai, non tornerai, morirai”.

E.D: Durante quale esperienza nasce Ibis Redibis?

Nicola Nunziata: Ibis Redibis è stata realizzata come installazione nell'ambito del Premio Lum per l'Arte Contemporanea a Bari, a seguito di una residenza/workshop dove avevamo come visiting artist Olaf Nicolai, nell'estate del 2011. Alla fine della residenza si è tenuta la mostra finale al Teatro Margherita di Bari che si trova proprio sul porto vecchio della città.

E.D: Una delle qualità che a me interessa di questo lavoro sta nel fatto di non voler significare o narrare un unico aspetto ma di riuscire a trasmettere tante diverse letture della realtà: riflette sul significato e le implicazioni del viaggiare come processo di transizione fatto di una partenza e, forse, di un arrivo, ci rinvia la memoria ai flussi migratori e all’ignoto destino che li aspetta, ci torna inevitabilmente a far riflettere sulla vita come esso stesso percorso fatto di momenti di passaggio, crescita e morte. Vuoi raccontare tu il progetto?

N.N: Ibis Redibis é costruita dal punto di vista del linguaggio come una struttura molecolare. Non utilizza un medium propriamente artistico e anche dal punto di vista estetico non si può dire che l'opera sia facilmente identificabile come qualcosa dal valore artistico, l'installazione è piuttosto un assemblaggio di tecniche costruttive e di strutture sintattiche, e se acquista un significato artistico lo fa solo successivamente, mentre vive e agisce come sistema comunicativo, perché sai è un’opera che ha proprio un funzionamento non solo perché è controllata elettronicamente e costruita artigianalmente, ha una sua processualità, un suo modo di parlare, per questo motivo anche il tempo di fruizione diventa importante.

Ti dicevo che è un assemblaggio perché è costruita come una luminaria tradizionale, le luminarie sono costruzioni di grandi dimensioni fatte di disegni decorativi di legno e lampade elettriche sorrette da pali che si usano nelle feste tradizionali per decorare le strade e le piazze, soprattutto nelle zone dell'Italia meridionale, in questa tradizione costruttiva non esistono però le scritture, cioè non si scrive con le luminarie, al massimo qualche "buone feste" ma nulla di più, così ho coinvolto questi artigiani della Paulicelli International di Bari che sono i migliori al mondo nella realizzazione di luminarie e ho provato a convincerli a fare una scrittura luminosa usando un carattere tipografico senza grazie che ho disegnato e realizzato io stesso, loro per esempio sono stati i primi dopo di me a dubitare del carattere artistico di tale operazione. La scrittura è poi stata ricoperta di lampade così come da tradizione. A questo punto ho coinvolto dei costruttori di circuiti elettronici perché dovevamo dare alla scrittura la stessa pulsazione luminosa di un faro, cioè gli stessi tempi e gli stessi effetti di dissolvenza che avevo osservato studiando diverse tipologie di fari portuali. La scrittura riprende l'Ibis Redibis della sibilla cumana, quell'andrai tornerai non morirai che a seconda di come lo si voleva intendere mostrava entrambi i suoi significati, di morte e di vita. Ho sublimato l'assenza della cara sibilla, con pali, lampadine, fili di ferro e inserendo una virgola all'interno della frase che ad ogni pulsazione si sposta da una parola all'altra invertendo ciclicamente il senso della scrittura. Andrai tornerai, non morirai. Andrai tornerai non, morirai. Abbiamo poi installato la scrittura luminosa a 10 metri di altezza sulla facciata del Teatro Margherita che guarda verso il mare aperto e pulsava alla frequenza di un faro.

DI.ST.URB

Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi

E.D: A partire da quale esigenza nasce Di.st.urb e da chi è composto?

D: L'odierna emergenza culturale è l'esigenza prioritaria che ha portato alla nascita di Di.st.urb il cui acronimo significa "Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi". Nato nel gennaio del 2012, il collettivo è composto da Ciro Vitale (Direttore creativo), Raffaella Barbato e Stefano Taccone (Curatori), Pier Paolo Patti (Documentazione video e grafica),Carla Rossetti, Ilaria Tamburro e Silvia Vicinanza (Comunicazione e coordinamento), Mario Paolucci (Responsabile tecnico ed allestimento), Franco Cipriano (Supervisione generale).

E.D: Nel vostro about sostenete di avere due linee guida ben definite, vorreste raccontarci quali sono?

D: Come è possibile leggere nel nostro concept, Di.St.Urb.: "si pone l’obbiettivo di attirare ed aggregare un ampio e diversificato gruppo, costantemente in fieri, di artisti, di critici e curatori, nonché di intellettuali afferenti ad altri ambiti e discipline interessati al confronto con i linguaggi dell’arte, adottando una prospettiva globale [...] un cantiere in cui soggettività differenti per formazione e vocazione concorrono nell’articolazione di un discorso sempre suscettibile di nuovi apporti e sconfinamenti, ma anche costantemente fedele a due linee-guida ben definite. Esse sono sintetizzabili nei termini di un’arte come esercizio di strenua messa in questione della sua stessa natura, nonché come pratica votata al continuo confronto con la dimensione socio-politica".

E.D: A gennaio Di.St.Urb, compie due anni di attività, quali sono stati in questi mesi di programmazione gli artisti ospitati, le collaborazioni avviate ed progetti curatoriali proposti?

D: In due anni di attività, numerosi sono stati i progetti curatoriali e le collaborazioni avviate. Notevoli riscontri hanno avuto le collettive Noli me Tangere #1 a cura di Raffaella Barbato e Politiaktion a cura di Stefano Taccone, progetti in cui sono stai invitati (a Scafati nella provincia salernitana in cui ha sede Di.St.Urb) ad interagire importanti artisti del panorama nazionale ed internazionale (quali Regina Josè Galindo, MaryZygouri, Nemanja Cvjanovic, MaisMenos ± e molti altri). Tra le varie collaborazioni culturali in cui è stato impegnato il collettivo, possiamo menzionare quella con Nelya Korzhova e Roman Korzhov curatori della Biennale d'Arte Contemporanea di Shiryaevo; con Stefania Zuliani e la Fondazione Menna di Salerno, e non ultima, quella con Giusy Checola, in previsione della futura fusione di Archiviazioni (piattaforma di ricerca artistica e di progettazione nella sfera pubblica) con il fondo Di.St.Urb in Art.Ta (archivio delle arti, linguaggi e ricerche contemporanee).


Maggiori informazioni sulla mostra e le opere di Displacement Reactions

Scarica il catalogo della mostra con le interviste integrali


Eugenia Delfini è laureata in "Produzione e progettazione delle arti visive" all'Univeristà Iuav di Venezia con una tesi dal titolo Cultura Nonprofit. Introduzione all'associazionismo culturale per l'arte contemporanea in Italia. Nel 2009 ha co-fondato l'organizzazione non profit Sottobosco con cui progetta mostre, laboratori e servizi per giovani artisti. Come ricercatrice da una parte continua ad approfondire e raccogliere materiali inerenti le metodologie di co-progettazione delle realtà associative non profit (L!brer!a), dall'altra i suoi progetti curatoriali mirano ad aprire discorsi intorno a questioni identitarie, al quotidiano ed il reale.