Attraversare le contingenze allargando le prospettive

01/12/2013
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Un posto speciale


Per non farsi schiacciare dalla presenza di un grande pittore che gioca in casa ci vuole una forte personalità. Tacita Dean ha realizzato nello studio di Giorgio Morandi due film, ora in mostra al MAMbo. Ci racconta come in questa intervista a cura di Annalisa Cattani.



Tacita Dean, Day for Night, 2009. film a colori in 16mm, muto. Foto in location. Courtesy l'artista, Frith Street Gallery, London e Marian Goodman Gallery, New York / Paris






Tacita Dean, Day for Night, 2009. film a colori in 16mm, muto. Foto in location. Courtesy l'artista, Frith Street Gallery, London e Marian Goodman Gallery, New York / Paris






Tacita Dean, Day for Night, 2009. film a colori in 16mm, muto. Foto in location. Courtesy l'artista, Frith Street Gallery, London e Marian Goodman Gallery, New York / Paris






Tacita Dean, foto di Jim Rakete






Tacita Dean, Still Life, 2009. estratto da film. Courtesy l'artista, Frith Street Gallery, London e Marian Goodman Gallery, New York / Paris






Tacita Dean, Still Life, 2009. estratto da film. Courtesy l'artista, Frith Street Gallery, London e Marian Goodman Gallery, New York / Paris






Il 28 di novembre Tacita Dean ha tenuto una conferenza a cura di Roberto Pinto e Gianfranco Maraniello, parlando a lungo della sua mostra “The Studio of Giorgio Morandi” che inaugurava al MAMbo in serata.
I due film in mostra Still Life e Day for Night sono stati commissionati e prodotti dalla Fondazione Nicola Trussardi nel 2009 con riprese effettuate da Tacita Dean all'interno dell'appartamento di Bologna in cui Morandi visse e lavorò per gran parte della propria vita (oggi Museo Casa Morandi), in particolare negli ambienti dello studio che è stato ricostruito nella collocazione originale.
L’incontro con Tacita Dean è stato molto interessante e ha creato un intenso dibattito, rendendo questa conferenza un’occasione di conoscenza della pratica dell’artista, dal lavoro in mostra al suo attivismo: ultimamente tradotto in appello all’UNESCO per il riconoscimento del cinema come patrimonio culturale dell’umanità.
La generosità con cui l’artista si è concessa al pubblico, costituito anche da molti studenti, ha creato una familiarità che mi ha spinto ad iniziare la mia intervista con la questa domanda:
-Vorresti essere mia cugina?
-E’ troppo tardi…

... ci siamo poi addentrate più seriamente nelle pieghe del suo lavoro.

Durante la conferenza hai detto che non avevi visitato lo studio di Giorgio Morandi prima del giorno in cui sei andata a filmare.
Quindi hai abbracciato il progetto entrando direttamente a contatto con il suo ambiente e la sua atmosfera; che effetto ti ha fatto?


La prima cosa che ricordo è che era così piccolo, minuscolo... Poi c’era una credenza con degli oggetti e questi oggetti erano immediatamente familiari a coloro che conoscono i suoi dipinti.
Ricordo come il luogo rendeva potenti gli oggetti, c’era il suo letto e una piccola finestra. L’intero luogo è stato per così dire ricostruito, anche se ho sentito dire che la ricostruzione è leggermente imprecisa.
Dovevo decidere cosa filmare, così ho cercato di rilassarmi per capire come pormi di fronte al potere che Morandi aveva già espresso con la sua pittura, cercando di non imitarlo o parodiarlo, questa era la mia sfida.

Il film dà la possibilità di amplificare il “ritratto” trasformandolo in un processo più ampio e dialettico all’interno della memoria? Tu hai detto che non volevi fare un ritratto, siamo quindi di fronte a un’interpretazione...

Quando ero nello studio di Morandi, non era assolutamente il ritratto quello a cui pensavo, poi il termine amplificare è una parola connessa al suono, non capisco esattamente cosa intendi...

Beh, per farti un esempio, quando ho visto il tuo film su Mario Merz la tua narrazione dava profondità a questa persona, al personaggio.

Sì la parola profondità rende meglio, ma in effetti i due film che ho fatto sono più due interpretazioni, corrono parallele, o a margine, hanno molto a che fare con il fatto che se un artista va nello studio di un altro artista ha una prospettiva differente rispetto ad un “non artista”.
Poi - come dice Gianfranco Maraniello - io sono anche una sorta di detective, non sono capace di resistere a procedere in modo inquisitorio, chiedendomi chi, che cosa e perché qualcosa non funziona.
La prima cosa che mi ha colpito quando sono andata nello studio di Morandi sono stati i disegni che faceva sotto agli oggetti, per prenderne le misure, erano dei palinsesti, delle tracce di memoria.
Io conoscevo veramente poco Morandi e non sapevo dell’esistenza di questi disegni che per me sono stati una rivelazione, si trattava di una sorta di codice.
Un’altra cosa è stato accorgermi di quanto gli oggetti fossero attraenti, quanto mi tentasse filmarli, ma ho dovuto resistere.
A dire il vero sulle prime non ho resistito e li ho filmati, ma non senza un certo turbamento e pensando di essere su una falsa strada; poi, dopo essere stata lì un giorno intero, ho cercato di capire come potevo farne un film, senza imitare.
Era una situazione piuttosto difficile perché trovarsi nello studio di un grande pittore a fare qualcosa con i suoi soggetti è alquanto perturbante.
Dovevo essere estremamente attenta e così ho fatto due cose che non faccio mai: prima di tutto ho usato la luce artificiale, è davvero raro nei miei film l’uso di luce artificiale e questo è il motivo per cui ho messo il titolo “Day at night”.
Lui non l’avrebbe usata, era rigoroso con la luce, utilizzava la luce del giorno e quando questa luce non c’era più smetteva di dipingere. Io quindi ho deciso di non usare la luce naturale perché dovevo distinguermi chiaramente.
L'altra cosa che ho scelto di fare è stata creare composizioni random, casuali; c’era un gruppo di oggetti e io li ho attraversati, non li ho toccati ma ho cercato di far diventare ogni oggetto il centro del frame, e non saranno mai come Morandi li avrebbe messi.
Non si capisce la composizione, si vedono solo gli oggetti... Infine un'altra scelta è stata quella di utilizzare la pellicola in bianco e nero.

Ho letto qualcosa che tu hai scritto in un testo chiamato “Place” della Thames and Hudson. Innanzitutto il testo iniziava con una citazione del geografo Ti Fu Juan il quale afferma che “Quando un spazio diventa familiare diviene un luogo”. Tu invece, nello stesso testo, sostenevi che è difficile definire uno spazio perché è “amorfo”, ma l’artista può cogliere la sua essenza in modo “periferico”, oggi per esempio mi ha colpito quando dicevi “seguivo un profumo..”.
Intendi che l’artista è in grado di dare un’anima allo spazio? Come? Tu ricrei la memoria?
Perché in effetti la memoria si ricrea al presente, non è qualcosa che preleviamo dal passato, dunque la memoria è un nuovo racconto?


Suppongo che al fine di rendere uno spazio un luogo ci si deve riferire a quello che noi chiamiamo memoria, che è fatta di dettagli, questo è quello che cercavo di dire anche alla conferenza in risposta a qualcuno che mi aveva fatto una domanda sull’identità - che in fondo è come la questione dello spazio - come rendi un’identità?
Per quanto mi riguarda lo faccio descrivendo tutto quello che è connesso, ma senza diventare io quell’identità, e immagino che sia lo stesso con un “posto”. I “posti” hanno significato gli spazi no, questa è la differenza.
Ma certamente è anche vero che “spazio” e “posto” possono diventare la stessa cosa, però solo una volta che è accaduto qualcosa. Entri in un luogo che è uno “spazio” e ne esci che è un “posto”: è una strana distinzione, una strana definizione.
Non so se i “posti” possono ritornare ad essere “spazi” per un individuo, ma ovviamente il tuo “posto” diventa uno “spazio” per la persona successiva, quindi tutto ciò ha moltissimo a che fare con l’autobiografia che penso sia molto, molto importante.

“Caso” è stata una delle parole chiave che hai utilizzato oggi durante la conferenza. La casualità è molto importante per te, si tratta di un tuo “modo di lavorare” e in un certo senso sembra persino un tuo modo per affrontare la vita. La casualità che tu tratti è più connessa al concetto di destino o a quello di serendipity?

Beh, utilizzerei categorie separate. Caso nel senso di contingenza, cioè tutto ciò che c’è all’interno di una situazione in cui ti trovi - a partire dagli interventi degli altri fino alla tua situazione personale - queste sono tutte cose legate al lavoro per me, poi c’è il “destino”. Io credo nel destino sono una sorta di semi-fatalista, credo nel destino e nelle “occasioni”, ma solo come strumenti di lavoro, li uso e ne ho bisogno, … sai è molto difficile perché non si tratta di concetti materiali che si possono descrivere in modo retrospettivo, ma so che quando faccio un progetto li chiamo “Objective chanches” “occasioni oggettive”, “L’hazard objectif”, l’idea surrealista di Breton.
Come quando stai lavorando a qualcosa, qualcos’altro ti interrompe e magari dopo inizi a seguire un nuovo percorso, diverso da quello che avresti voluto intraprendere all’inizio.
C’è una sorta di occasione oggettiva quando si lavora. Utilizzo la definizione “Occasione oggettiva” perché è quella più adatta a descrivere il mio processo. Significa permettere il destino, permettere il caso, acconsentire alle occasioni di cambiare e di sviluppare il percorso del mio lavoro, diventandone parte, che poi significa anche essere aperta alle cose.
A volte sono chiusa, e non si tratta di bei periodi, ma quando sono aperta alle cose è meraviglioso pensare a dove le situazioni mi hanno portato semplicemente...

Dare importanza al caso è anche una forma di resistenza allo status quo, che invece vuole che gli artisti siano professionali, pragmatici.
Dare importanza al caso significa anche dare importanza alla meraviglia e all’inaspettato, cosa che a volte può diventare la sola via d’uscita, portando ad una soluzione efficace e cambiando prospettiva.


Penso di essere piuttosto “ubbidiente” al sistema, ma all’interno delle mie traiettorie, del mio processo, nella vita per esempio…
Il fatto è che sto parlando di cose che sono piuttosto invisibili, per esempio nel lavoro che ho fatto per Tate Modern Turbine: non avevo idea di come sviluppare quel progetto, ero davvero nella più completa e terribile oscurità.
Era una questione di tempo e ho cercato di tenere una sorta di log, delle cose che mi venivano in mente o anche delle discussioni su informazioni tecniche, letture.
Solo a posteriori vedo che ogni cosa è andata al suo posto, ma se mi avessi chiesto qualcosa durante il processo di realizzazione non avrei avuto una chiave di lettura.
Mi affido totalmente al “caso”, che in effetti è proprio come sono io, lavora anche in un modo molto pratico ma sotto sotto c’è qualcosa che è quasi indicibile. Non posso darti più chiavi di lettura di così, se esponessi ulteriormente questo concetto evaporerebbe.

Ultima domanda: si può affermare che il tuo approccio nell'usare il film sia quasi alchemico? Nel tuo lavoro il film diventa qualcosa di molto “materico”...

A dire il vero ci sono molti artisti che hanno un approccio alchemico al film e fanno leva sull’aspetto chimico e organico in modo sperimentale.
Una sperimentazione che si rifà agli anni '70 e che io non adotto. In ogni caso non sono strutturalista, ma effettivamente uso il film come un “materiale”.
Per me si tratta di tempo e della resistenza fisica del materiale, in questo senso sono come un'artigiana, ho bisogno di un tempo scandito, di una tessitura. Mi è molto chiaro ma capisco che si tratta oggi di un processo solo artistico, per questo è così angosciante pensare che si possa perdere memoria di queste pratiche.
Usare un tavolo di montaggio su cui si taglia la pellicola a mano è molto anacronistico; in questa nostra era digitale tutto è diventato un gioco, uno scherzo: il problema è che io non sono uno scherzo e nemmeno un dinosauro, solo amo lavorare con questi elementi per passione.
Sono un’artista che narra con il materiale fisico e mi piace lavorare con la materia reale, ma per mantenere la memoria di queste pratiche devo combattere...

e noi apprezziamo la tua battaglia...

ma ho bisogno di aiuto..


Info sulla mostra The Studio of Giorgio Morandi, visitabile al MAMbo di Bologna fino al 9 febbraio 2014

Quest'intervista fa parte del ciclo Voices, archivio sonoro di interviste in progress un progetto UnDo.Net in collaborazione con Humus, programma radiofonico di approfondimento culturale condotto da Piero Santi su Radio Città del Capo.
Annalisa Cattani è artista-curatrice, Ricercatrice di Pubblicità e Arte vs Retorica, insegna all'Accademia di Belle Arti di Ravenna, al LABA di Rimini e allo IULM di Milano.


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