di
Barbara Fässler
Il caso assoluto esiste? La contingenza è sempre completamente casuale oppure è possibile costringerla? Le nostre decisioni sono del tutto determinate dalla nostra volontà? Lo sviluppo di un’opera d’arte è completamente controllato dalle intenzioni del suo autore? Come giocano progettualità e interferenze impreviste?
Anche se nel mondo dell’arte la nozione di caso è stata scoperta e adoperata consapevolmente in concomitanza con le Avanguardie Storiche all’inizio del Ventesimo secolo, le riflessioni intorno a ciò che non riusciamo a controllare continuano ad occupare le menti non solo in ambito scientifico. In questo contesto basta pensare al famoso detto di Einstein “Dio non gioca a dadi con l’universo” riguardo alla teoria quantica, un'affermazione post-mortem confutata.
Ugualmente nel mondo dell’arte contemporanea, gli esempi sono innumerevoli, da “Elevage de poussière” di Man Ray, al dripping di Jackson Pollock, passando dai frottages di Max Ernst e dagli esperimenti sonori di John Cage. Negli ultimi anni, le mostre a tema sul caso si trovano un po’ ovunque in Europa e cento anni dopo le sperimentazioni di Mallarmé e di Duchamp, la riflessione sui meccanismi del caso è entrata a fare parte dell’arte contemporanea a pieno titolo ed è tutt’ora attualissima.
Per certi versi, il caso ha acquisito diritto di cittadinanza nel mondo culturale ed è addirittura diventato parte costitutiva nell’arte contemporanea. Un motivo potrebbe essere la cresciuta consapevolezza dell’importanza di eventi incontrollabili nel corso della nostra vita, quelli che hanno spesso la capacità di farci deragliare o meglio deviare dal percorso iniziato. D’altra parte si è scoperto anche come integrare gli elementi casuali nella nostra intenzionalità, cioè come contare sull’accidentale, come dargli spazio e allo stesso tempo stabilirne dei limiti.
Un altro aspetto essenziale per quanto riguarda il ruolo degli accadimenti imprevisti è il loro rapporto con la percezione. L’elemento casuale, per poter prendere il suo spazio e sviluppare il suo significato, deve essere colto, deve essere visto e riconosciuto dal soggetto. L’evento accidentale qui funge proprio da strumento di apertura, che ci spinge ad aprire gli occhi e a concentrarci verso l’esterno per accogliere una parte degli stimoli che ci raggiungono.
Senza l’elemento contingente nel nostro quotidiano sarebbe difficile imparare qualcosa di nuovo, poiché tutta la nostra esperienza sarebbe determinata e quindi prevedibile. Sono proprio gli avvenimenti inattesi che perturbano il percorso abituale che ci scuotono e scatenano una riflessione ulteriore.
Il ruolo dell’esperienza è considerato fondamentale nelle teorie della conoscenza dagli empiristi inglesi fino alla fenomenologia del XX secolo e oserei dire che non ci può essere esperienza senza una parte di imprevisto, altrimenti si può ancora parlare di esperienza?
Verrebbe a mancare proprio l’aspetto di curiosità, di apertura da parte del soggetto percipiente e di possibilità stessa di scoperta e novità dell’oggetto percepito.
Di mostre che indagano il rapporto dell’arte contemporanea con l’elemento aleatorio se ne trovano a tutti i livelli. Allo Sprengel Museum di Hannover, ad esempio, nel 2013 si è svolta la mostra con il titolo “Purer Zufall, Unvorhersehbares von Marcel Duchamp bis Gerhard Richter” (Puro caso, l’imprevedibile da Marcel Duchamp a Gerhard Richter), mostra che parte dai “3 Stoppages étalon” (3 Rammendi tipo) di Marcel Duchamp – dove butta per terra tre fili lunghi un metro e ricrea la forma del disegno ottenuto in pezzi di legno – e finisce con i lavori di Gerhard Richter che usa delle tecniche di estrazione casuale o di calcolo random per definire la composizione dei colori.
Altri artisti storici presenti nella mostra sono Kurt Schwitters con i suoi collages e Merzbilder, Dieter Roth e Daniel Spoerri con i “Fallenbilder”, in cui fissava i resti di una cena su una tavola di legno e l’appendeva come “quadro trappola” al muro.
Sempre in Germania, a Berlino ma nel 2010, il giovane artista Romeo Grünefelder ha allestito la sua personale con il titolo “Prinzip Zufall” (principio caso) presso la galleria “Kunstagenten/Feldbuschwiesner”. Qui erano visibili degli esperimenti di ricerca fondamentali riguardo il tema della casualità.
Secondo l’artista, il caso non si può costruire, ma c’entra con l’idea di disturbo o d’interruzione che rompe con l’idea del determinismo, che esclude tutto ciò che non si lascia formulare come regola e non si dimostra manipolabile, poiché un esperimento scientifico, per essere considerato tale deve per forza essere ripetibile e quindi i fenomeni imprevedibili sono per definizione esclusi.
Nel 2012 invece si è svolta la mostra “Pour une grammaire du hasard” nello spazio “Fri-Art” a Fribourg in Svizzera. Negli spazi bianchi della Kunsthalle si trovavano video, sculture e lavori pittorici realizzati dagli artisti adoperando procedimenti casuali: chi ha buttato del cemento direttamente sulla tela (Analia Saban), chi ha invece rilevato i pavimenti di legno dai luoghi di lavoro, li ha tagliati in rettangoli della stessa dimensione e poi appesi come una serie di opere “ready made” al muro (Erik Lindman).
Un altro esempio piuttosto divertente si trova alla Bonniers Konsthall di Stoccolma, che nel 2013 si è servita di metodi inusuali per promuovere la mostra “Slight Chance” dell’artista Pilvi Takala. Nell’azione di marketing intitolata “Art by Chance” i postini hanno distribuito casualmente le buste con gli inviti - prive di nome e indirizzo - le mail sono state spedite da un programma in modalità random.
Alla galleria Milano, invece, si è conclusa sabato 25 gennaio la mostra “Chi ha ancora paura del caso?” L’esposizione, nata da un’idea di Carla Pellegrini, parte in realtà dalla collezione storica della gallerista. Il curatore, Elio Grazioli, ha quindi elaborato una scelta di pezzi che aveva a disposizione integrandoli con ulteriori lavori storici e contemporanei, come “Elevage de poussière” di Man Ray, cioè la fotografia della polvere che si era depositata sul “Grande vetro” di Marcel Duchamp, e un disegno all’inchiostro di china di Henri Michaux, prodotto dall’artista mentre era sotto influenza della mescalina.
Osservando meglio i lavori esposti, si nota il filo rosso che accomuna i diversi pezzi: l'artista crea innanzitutto una metodologia, una regola o un dispositivo come se si trattasse di un esperimento scientifico e poi l'elemento casuale viene a giocare all'interno di questa costruzione, di questa costellazione predisposta che non può essere oltrepassata. Il meccanismo e i limiti sono sempre chiaramente definiti.
A Marcel Duchamp il caso serviva da impulso ma non avrebbe mai delegato la regia dei suoi lavori all’aleatorietà dell’azzardo; così annotava nel 1913 riguardo al suo esperimento dei “3 Stoppages étalons” (3 Rammendi tipo): “E' stata una grande esperienza. E' importante accogliere l’ispirazione casuale – tante delle mie opere organizzatissime hanno preso il via da incontri casuali”.
Nella mostra “Chi ha ancora paura del caso?” troviamo vari esempi di opere che definiscono il raggio d’azione della casualità. Ad esempio le foglie nel lavoro di Amedeo Martegani rimangono rinchiuse sul fondo della tazza da tè, oppure Kazuo Shiraga, il pittore giapponese che usa il suo corpo come un pennello, si appende a una corda che determina precisamente il perimetro della sua azione.
Gli schizzi di acido fotografico dello stesso Vincenzo Agnetti vanno a cadere sulla superficie della carta fotosensibile che ha scelto e preparato di una dimensione precisa.
Anche nel lavoro di Marina Ballo-Charmet i passi sembrano intenzionali, lei sa dove sta andando mentre si muove avanti e indietro nel suo appartamento seguendo varie occupazioni abituali, anche se afferma giustamente che noi non controlliamo del tutto i nostri movimenti quotidiani. Direi che i suoi percorsi seguono ciò che lei sta pensando di fare, i suoi atti sono consapevoli delle faccende che persegue.
La videocamera è appesa alla cintura e la sua posizione è stata decisa e pensata dall'artista. Il caso gioca invece laddove la videocamera andrà esattamente a riprendere – visto che un po' dondola. Il margine di gioco del caso è spesso delimitato, nel senso che è rinchiuso nello spazio e nel tempo, è ordinato all’interno del dispositivo deciso dall’artista. Come se fosse addomesticato.
L’artista coreana Jae-Eun Choi, ad esempio, seppellisce delle carte quadrate in vari posti del mondo e le lascia sotterrate per quattro anni, finché le va a riprendere. Il risultato è stupefacente, perché la carta mostra ogni volta una diversa colorazione e differenti sfumature date dalla terra dove si era trovata. Un’azione intenzionale dell’artista ha creato un risultato casuale.
Il gioco di Guy Debord, invece, consiste nel percorrere le strade della città, nella “deriva psicogeografica” in cui il soggetto si fa guidare da quello che incontra casualmente. Per essere straniati, secondo Debord, bisogna alzare leggermente lo sguardo e lasciarsi attrarre dai particolari.
Mentre Oscar Dominguez crea il suo monotipo schiacciando due pezzi di carta uno sull’altro, Tano Festa butta i coriandoli su una tela ben delimitata e Davide Mosconi esegue un’operazione simile con della polvere di pietre preziose.
I due artisti Nicola Pellegrini e Gil J. Wolman procedono entrambi con lo scotch, con il quale rilevano, il primo lo spazio circostante, e il secondo le lettere dei giornali. Luca Vitone a sua volta crea un ritratto di Roma lasciando una tela bianca per mesi sul balcone. Qui le polveri sottili e gli agenti ambientali hanno impregnato via via il tessuto con il disegno delle piastrelle sottostanti, come in un frottage surrealista.
L’ipotesi che si fa avanti è che si tratti - piuttosto che di un caso incontrollato - di una struttura, di una costruzione, all’interno della quale il caso fa il suo gioco e determina il risultato. L’intenzionalità dell’artista definisce quindi lo spazio, il tempo e il metodo dell’azione casuale. Si tratta di un caso addomesticato, forse si potrebbe dire che si crea un incontro, un’interferenza con l’esterno, una coincidenza messa in scena.
Il curatore della mostra, Elio Grazioli, si esprime in questi termini: “Io parto dall'idea di caso come incontro. Duchamp lo chiamava "appuntamento", Breton invece "caso oggettivo"- che è un ossimoro - proprio nel senso che si incrocia qualcosa che sembra casuale, ma se questo rimane nella nostra attenzione ci si accorge che casuale non era, o per lo meno a posteriori si può ricostruire il senso di questo incontro. Il caso ti è venuto incontro. Non sei solo tu che proietti il tuo pensiero su quello che accade. Definirei quindi il caso come un incontro tra un'intenzionalità e un accadimento, qualcosa che cade”.
Alla domanda se esiste per lui il caso in senso assoluto e puro e se sì, come lo definirebbe, risponde: “È davvero una domanda filosofica. Bisogna tentare una definizione di caso per rispondere. Secondo me il caso esiste, sì, però nel modo in cui lo ha illustrato la cultura contemporanea, dalla psicoanalisi alla scienza. È un caso attivo, non è senza senso, non è l'assurdo, non è il contrario della necessità. È un caso che costituisce dei percorsi, che noi a posteriori leggiamo come qualcosa di sensato. Noi tessiamo sempre dei fili, dei rimandi, delle associazioni, dei contrasti tra diversi elementi, quindi ne estraiamo comunque un significato, per non dire un destino.
Del caso mi affascina l’apertura, il fatto che si tratti di una logica diversa da quella deduttiva e lineare. Anche per quanto riguarda il nostro linguaggio. Non possiamo usare casualmente la nostra lingua. C'è il soggetto, il predicato, i complementi, ci sono gli aggettivi che vanno vicino ai sostantivi, non è che li puoi sbattere di qua e di là. Invece in ambito visivo sì. Diciamo che del caso mi interessa il lato visivo”.
La stessa dicotomia tra intenzionalità e caso, quindi tra elemento progettato ed elemento imprevisto, si riscontra nella scelta dei lavori compiuta dal curatore. Così possiamo dire che il lavoro del curatore è tutt’altro che casuale.
A questo proposito Elio Grazioli afferma: “La parte che ritengo più importante nel lavoro del curatore - e che mi sembra peraltro spesso la più trascurata - è quella di rendere visivamente, anche attraverso l’allestimento dell'esposizione, l'idea e il tema della mostra. Il curatore ha un po' questa responsabilità scenografica. Non si tratta soltanto di cercare delle idee ed esaminare quelle più attuali o di scrivere un testo, ma di mettere insieme elementi visivi. Questa mi sembra la parte più trascurata dalle mostre collettive che vedo in giro”.
L’allestimento in questa mostra, invece, potrebbe proprio sembrare casuale: i lavori ballano sulla parete come in una mostra di artisti costruttivisti ma al contrario, come spiega Elio Grazioli, la costruzione è pensata con acribia: “Per quanto riguarda l'allestimento sono partito dal testo di Mallarmé che a mio parere è l'origine di questo tema nella contemporaneità. “Un colpo di dadi non abolirà mai il caso” è il primo poema che ha un aspetto anche visivo molto particolare. Allora le pareti della galleria sono state trattate come queste pagine poetiche. Infatti ci sono molte righe e salti, si creano dei rimandi che costruiscono storie nuove e possibilità. Ecco cosa vorrei mettere in scena e raccontare un po' di più. Non tracciare una storia lineare, ma una mappa, una situazione più articolata, più aperta, più associativa. Contrasti compresi”.
L’azzardo irrompe all’improvviso nei percorsi ordinari, artisti e curatori lo sanno cogliere e creano una palestra dove la palla può rimbalzare a piacimento in tutte le direzioni. L’appuntamento con il caso non è un ossimoro: la casualità esiste solo quando la si riesce a cogliere come elemento essenziale della nostra esperienza e quindi dove la sappiamo attendere pazientemente. Come il gatto davanti alla tana del topo.
Stéphane Mallarmé, Un coup de dés
Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per le riviste d'arte contemporanea "Studija" di Riga e "Kunstbulletin" in Svizzera, insegna 'Arti visive' alle medie e al liceo della Scuola Svizzera di Milano.
Questo articolo sarà pubblicato anche sul prossimo numero della rivista Studija in inglese e lettone.
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