Attraversare le contingenze allargando le prospettive

07/02/2014
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Qui Londra eppure...


I pensieri scivolano dal Tamigi a Dubai fino a Pechino. "Colpa" di tre mostre in cui l'architettura e lo spazio comunicano il senso di annichilimento che infondono le grandi metropoli finanziarie mondiali. Perché il capitale è come la forza di gravità, non si vede ma si percepisce...

di Matilde Cerruti Quara



Isaac Julien, HORIZON / ELSEWHERE (PLAYTIME), 2013. Endura Ultra photograph, 160 x 240 cm. Photo Courtesy of Victoria Miro Gallery



Isaac Julien, PLAYTIME, 2014. Seven-screen HD video installation with 7.1 surround sound, Duration 69 min, 47 sec. Installation View Victoria Miro Wharf Road, 2014



Isaac Julien, ECLIPSE (PLAYTIME), 2013. Endura Ultra photograph, 160 x 240 cm. Photo Courtesy of Victoria Miro Gallery



Liu Wei, Density, 2013. Installation view, White Cube, london



Yutaka Sone, Tropical Composition/Canary Island Palm Tree #1, 2012. Rattan, metal armature, and paint, 220 x 340 x 320 cm



Una mostra che si è appena aperta. Un’altra, in corso. Infine, una mostra appena conclusa. I nomi delle gallerie che le hanno allestite sono tra i più imponenti sul piano dell’arte contemporanea internazionale, così come imponenti sono le architetture, reali o della mente, create dagli artisti rappresentati.

Quello che unisce le enigmatiche, possenti sculture di Liu Wei con le foto e le installazioni video a due e a sette schermi di Isaac Julien e le tre città-isole miniaturizzate in marmo bianco di Yutaka Sone è un tema architettonico, che si svela a tratti.

La densità abitativa, il gioco del denaro al riparo delle mura di città iper tecnologiche esplose nel deserto, il dettaglio minuscolo e ossessivo, tra realtà e irreale perfezione. Architetture che si svolgono, evolvono e proliferano, a dispetto del benessere dei loro occupanti.

Curiosamente, mi sono ritrovata a ricordare una notizia di un paio di settimane fa: lo stato del Qatar si appresta a presentare una proposta per costruire un fratello al colossale Shard di Renzo Piano. Il nuovo nato sarà alto ventisette piani e in grado di contenere fino a centocinquanta appartamenti di lusso.

Ed ecco, forse per me è questa la parola-chiave, il trait d’union: il “contenitore”.

Lo stesso contenitore che, nell’installazione video di Isaac Julien (Victoria Miro - Islington), racchiude ad alveare migliaia di operatori finanziari della city, e la serafica doppia identità di uno di essi, che nell’opera Julien chiama semplicemente Hedge Fund Manager.
Un nome comune che diventa proprio, con le maiuscole, a rappresentazione di un’intera categoria che regna su una città trasformata dalla deregolarizzazione delle banche, e dall’esplosione di sempre nuove costruzioni.
Hedge Fund Manager che di notte suona il sassofono e di giorno calpesta a passi sicuri la sede della nuova società, che un pronto assistente suggerisce di chiamare “Capital”. Perché il capitale è come la forza di gravità, non si vede… ma si percepisce attraverso i suoi effetti.
Nel lavoro di Julien, che dura all’incirca un’ora ed esplora tre città chiave del flusso di capitale post-2008, un altro contenitore racchiude la frustrazione dell’Artista che torna nella sua casa abbandonata in Islanda, culla della crisi finanziaria.
A Dubai, un grattacielo lascia in sospeso, tra il fervente nucleo urbano ed il deserto, la disperazione di House Worker, una cameriera filippina che vive e lavora nell’asettico appartamento di uno sceicco arabo.
Altri contenitori sono la galleria d’arte (dove incalza sornione Art Dealer), e la casa d’aste, luogo dove si esaspera la potenza economica del mercato dell’arte, descritta dallo stesso Simon de Pury nel ruolo di Auctioneer, nel corso di un’intervista con Reporter, una giornalista asiatica a sua volta collezionista d’arte.
Architetture tra le architetture, i video di Isaac Julien mostrano a tratti le conseguenze di un’urbanizzazione feroce, dell’edilizia sconsiderata dovuta alla disponibilità di capitale non assicurato e il senso di annichilimento della vita nelle grandi metropoli finanziarie mondiali, via via contrapposti alla pace dei paesaggi naturali islandesi o all’immensità del deserto, al contatto dell’uomo con una natura solitaria ed equilibrata, che non gli appartiene più.

Nell’opera di Liu Wei (Pechino, 1972), le installazioni sono coerenti con il titolo. Dense, spesse, impenetrabili. Richiamano, nell’intenzione dell’artista, alla densità degli spazi urbani delle tigri asiatiche, di città come la sua Pechino.
I materiali, detriti o avanzi, che l’artista recupera dai cantieri o dalla strada, vengono rielaborati in sculture e architetture complesse. Altri lavori contengono parole, sono ricavati da centinaia di libri compressi e ritagliati.
Il pensiero corre ai grattacieli cinesi, fatti di appartamenti da pochi metri quadrati, che si snodano in verticale, dove centinaia di persone sono contenute come tante lettere, in ritagli di spazio.
L’epoca in cui è cresciuto l’artista è nota per la grande espansione urbana, ma viene da chiedersi se questa espansione sia davvero rallentata.

Il contenitore intonso di Yutaka Sone deriva da un interesse paesaggistico, dalla repulsione per i confini e dall’amore per le isole in quanto tali, ovvero prive di dogane prestabilite, costruite dall’uomo. La palma messicana è la creazione di una costruzione naturale, anche nelle sue imperfezioni –come le foglie che vanno seccandosi.
Le riproduzioni di tre città, ottenute a partire da blocchi di marmo bianco, sono perfettamente riconducibili alla realtà. Si possono contare i binari della stazione di Venezia S. Lucia, riconoscere l’Empire State Building.
Hong Kong, Manhattan, Venezia diventano candide isole fantasma, dalle quali la figura umana è asportata, lasciando spazio all’ordine della costruzione, alla precisione dei plastici degli architetti. Sono città che, nel mondo reale – quello non idilliaco, fatto di confini e interventi umani e urbani - vivono quotidianamente varie forme di trasformazione.
Yutaka Sone dona loro un momento di immortalità, attraverso la purezza del marmo della tradizione scultorea classica, ottenendo un ritratto commemorativo di luoghi senza tempo e senza limite, senza inizio e senza fine, e mettendole una volta per tutte al riparo dalla loro realtà di città-cantiere, di isole sotto la costante minaccia di trasfigurazione.

La percezione di un mondo che sembra annaspare sotto i colpi dell’espansione urbana sgorga dalla pratica dei tre artisti come un fiume sotterraneo, snodandosi sottile attraverso Hong Kong, Manhattan e Venezia, nutrendo la grande palma del Messico di Yutaka Sone, per poi riemergere nella casa abbandonata dell’Artista di Reykjavik e nel Tamigi, sulla cui superficie scivolano gli sguardi dei banchieri e scorrere ancora, a chilometri di profondità, verso Dubai, dove c’è chi vive una condanna dorata (Isaac Julien), e per ritornare infine in Asia, nella Pechino di Liu Wei.

Matilde Cerruti Quara

Le mostre:

Liu Wei, Density, White Cube, 29 gennaio – 15 marzo 2014

Isaac Julien, Playtime, Victoria Miro, 24 gennaio – 1 marzo 2014

Yutaka Sone, Sculpture, David Zwirner, 27 novembre 2013 – 25 gennaio 2014

Matilde Cerruti Quara, classe 1991, dopo essersi laureata all'Università Bocconi di Milano sta attualmente seguendo un MLitt (Magister Litterarum) in Arte Moderna e Contemporanea presso Christie's Education, a Londra. Durante la 55esima Biennale di Venezia (2013), ha lavorato come assistente per il duo curatoriale Francesco Urbano Ragazzi nell'ambito del Padiglione Internet di Miltos Manetas. In parallelo ai suoi articoli per Undo.Net, contribuisce come London Editor per The Collector Tribune. Da sempre legata all'arte, e alle forme di espressione creativa, ha lavorato per alcuni mesi in una delle maggiori compagnie d'opera canadesi a Toronto (Opera Atelier, 2010), aiutando a realizzare le campagne di marketing per la stagione 2011/2012. Nei prossimi anni, punta ad affermare la sua pratica curatoriale, insieme al suo lavoro di esplorazione personale nel campo della fotografia.