Attraversare le contingenze allargando le prospettive

15/02/2014
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1968 o 2068? Atemporalità etica

La storia del cinema è una storia che ha sempre a che fare con una temporalità: una temporalità storica e una temporalità più specifica, più propria...



Man with a video camera, Dziga Vertov, 1929. Still da film






Le Mepris, Jean-Luc Godard, 1964. Still da film






Éloge de l’Amour, Jean-Luc Godard, 2001. Still da film






Zidane, un portrait de XX1ème siècle, Philippe Parreno e Douglas Gordon, 2006. Still da video






No quarto da Vanda, Pedro Costa, 2000. Still da video






di Francesca Mangion

Parlare del 68 non è certo un’impresa facile. Sicuramente, parlare di un re-68, cioè di una “voglia di 68” è forse anche più problematico.
Sta di fatto che anche soffermarsi troppo sul passato, in particolare su un passato che ha perpetrato il nostro tempo attraverso spiriti ideologici che non si sono mai materializzati, può diventare di per sé scivoloso.
Ciò nonostante, una tale voglia può dirci molto sul tempo in cui viviamo: un tempo nostro, un tempo che ci appartiene, un tempo a cui noi apparteniamo.
Questa discussione si deve confrontare con un discorso generazionale per domandarsi al fine cosa potrebbe significare vivere nel tempo che è il nostro.

La storia del cinema è una storia che ha sempre a che fare con una temporalità: una temporalità storica e una temporalità più specifica, più propria. Questa temporalità specifica diventa una prospettiva singolare da dove si possono rileggere eventi ormai lontani.
La storia del cinema perciò diventa fenomeno doppio: da un lato un supporto di documentazione storica e dall'altro un micro-meccanismo critico alimentato dal suo essere tale quale è, cioè un supporto temporale.

Nel suo film Man with the Movie Camera Dziga Vertov riprende diverse azioni mondane, come i movimenti di una danzatrice, una donna che lavora in una fabbrica, il percorso di un aeroplano e i trucchi di un illusionista, creando un percorso di tipo documentativo dove le gestualità si mostrano in modo omogeneo, senza interruzioni.
La linearità di questo film non si presenta come un racconto ma come una voglia di catturare gli eventi e le azioni così come accadono. Anche se in fase di montaggio, questa gestualità si compone sistematicamente; i clip girati da Vertov restano staccati e la loro relazione rimane soggettiva, come se fosse una forma di zapping che si alimenta proprio in termini di possibilità. L’unica cosa che unisce questi clip è la loro mondanità.
È proprio tale urgenza che Vertov coglie nel suo progetto, cioè la relazione fra documentazione e film, ed è per questo che la possibilità di una narrazione convenzionale diventa superflua.

Per Vertov lo stato del tempo in cui si trova detta un’estetica molto essenziale, molto simile a quello che intravediamo direttamente con gli occhi, e in questo senso la cinepresa è trattata come un’appendice del corpo e non come un dispositivo per la creazione.
Vertov perciò lavora con delle immagini grezze che si confrontano con una realtà vissuta. Il ripensamento di quella realtà accade in fase di montaggio e tramite mise en scène simboliche che rimandano al reale in quanto reale. Tramite questa relazione con il reale il film si mostra consapevole della sua responsabilità. Il film inizia con un tecnico che monta una cinepresa. Questo clip è sovraimposto all’immagine di un'altra cinepresa più grande, dando l’impressione che il tecnico stia in piedi sulla camera centrale.
L’immagine diventa una sorta d’icona del cinema che pensa se stesso, un simbolo dell’autoreferenzialità che in un certo senso definisce il lavoro di Vertov.

Il discorso Vertoviano è ripreso da Jean-Luc Godard, e in modo esplicito nella fase di ricerca dello Dziga Vertov Group fondato da Jean-Pierre Gorin e dallo stesso Godard.
Il gruppo non ha interesse alla documentazione e alla rappresentazione del reale, perché tale compito secondo Godard non solo è sbagliato, ma è anche falso.
Il punto primario è quello di creare un nuovo linguaggio cinematografico dove l’omogeneità narrativa e formale è messa in discussione tramite lo stesso supporto. Nei primi film di Godard come Le Mepris (Il disprezzo) ma anche in quelli che seguono, e in particolare in Éloge de l’Amour, la tematica è sempre trattata come un punto di inizio, un punto di partenza, anche se non diventa mai il punto di riferimento del film.
I due film menzionati hanno un soggetto in comune, o “vero”, un regista che sta cercando di fare un film, ma la trama cambia in continuazione.
Il regista ha l’impresa ardua di convincere i produttori a continuare a finanziare dei film che non sono mai, in termini di narrativa, ben definiti.
In Le Mepris Godard utilizza uno stratagemma narrativo più convenzionale: documenta attraverso il suo film la storia di un film mai girato da Fritz Lang mettendo in atto una storia che riflette la storia.
Quest’autoreferenzialità è di nuovo sviluppata in Éloge de l’Amour, dove però la duplicità viene restituita attraverso una lacerazione temporale e tecnica all’interno della struttura stessa del film.
Si potrebbe dire che Le Mepris e Éloge de l’Amour sono infatti un unico progetto. Vale a dire che questi due film aprono un discorso sulla relazione tra prodotto e tempo. Le Mepris è un film che si poteva realizzare soltanto negli anni sessanta mentre Éloge de l’Amour è decisamente un film che riflette il suo proprio tempo, e cioè gli anni 2000.

La questione della validità o possibilità temporale infatti è un discorso che sorvola la nostra contemporaneità. Un esempio celebre potrebbe essere il lavoro del 2006 di Philippe Parreno e Douglas Gordon: Zidane, un portrait de XXIème siècle. Utilizzando 17 cineprese, Parreno riprende una partita di calcio ed esegue un montaggio che si focalizza solamente sulla figura di Zidane, sovraimprimendo i pensieri del calciatore.
Questi pensieri formano la base narrativa del film, mentre la musica dei Mogwai accompagna i movimenti di Zidane che corre, si ferma per prendere fiato o per riflettere. Gli altri giocatori, sempre presenti nel sottofondo sono utilizzati come semplici prop. Si può dire che Zidane si richiami all’esperienza Vertoviana filtrata attraverso Godard e il suo interesse per le possibilità cinematografiche dello sport e in particolare del tennis.
In questo modo ci riporta ad una dimension etica, ovvero alla domanda se la nostra responsabilità è quella di rappresentare il nostro tempo tramite la “documentazione” oppure tramite interventi creativi e “politici”.

La domanda può trovare una risposta ad esempio nella produzione di un regista come Pedro Costa, il cui lavoro si situa proprio lungo questo bordo: da un lato è politicamente documentativo, focalizzandosi sugli emarginati, i tossicodipendenti e i senza tetto della comunità di Fonthias, distretto di Lisbona; d’altro lato mostra un interesse attivo per la relazione immagine/tempo.
I film di Costa trattano sempre soggetti che sovrappongono l’idea di comunità, di territorialità e di temporalità.
Proprio quest’ambiguità atemporale ci conduce ad una dimensione etica attuale che va oltre la semplice riproposizione di esperienze legate ad eventi ormai storici come il 68.

Francesca Mangion, scrittrice, lavora su sceneggiature per il cinema e il teatro e ha intrapreso ricerche e discorsi critici che si relazionano al lavoro di Marguerite Duras, Jean-Luc Godard, Maurice Blanchot e Lydia Davis. Vive e lavora a Parigi.


Questo testo è parte del dibattito "Voglia di '68?" avviato da Ermanno Cristini sulle pagine di UnDo.Net, a cui stanno contribuendo artisti e curatori...

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