Matteo Balduzzi: Michel de Certeau, esaminando gli interni domestici dopo avere indagato la dimensione urbana del quartiere, sostiene che l'habitat è indiscreto, che "tutto in lui parla sempre troppo" riguardo alla vita, ai sogni e alle condizioni sociali delle persone che lo occupano. Mi viene da pensare che lo stesso si possa dire per le vetrinette: cosa ha rivelato questa tua ricerca e come si è evoluta nel corso degli anni?
Paolo Riolzi: Inizialmente Vetrinetta si presenta come un atlante fotografico, potenzialmente infinito. Il progetto vuole raccontare il mondo delle persone, attraverso la rappresentazione in immagini degli affetti raccolti, custoditi ed esposti in un mobile: la vetrinetta appunto.
Si tratta di un'esplorazione nella vita degli altri che permette di comprendere un paesaggio sociale fatto di piccole storie, dove gli oggetti, porcellane, fotografie, bomboniere, tracciano la biografia dei nostri ricordi e desideri. Gli oggetti in essa contenuti, i cristalli di Swarovski, i souvenir, gli angeli di Thun, i Capodimonte, sono icone che tutti conosciamo. Sono questi mondi condivisi a rendere le vite degli altri familiari a chi guarda. Vetrinetta ci restituisce l'immagine di chi siamo, che sempre più spesso assomiglia a quello che guardiamo.
Fino al 2011 la ricerca è avvenuta inizialmente per passa-parola, poi per via virale, attraverso un blog che invitava i lettori a mandare un'immagine della propria vetrinetta. Delle numerose vetrinette trovate ne ho selezionate e fotografate più di venti.
M.B. Nel 2012 Vetrinetta è stato esposto a Bolzano, su invito di Letizia Ragaglia, allora direttrice di Museion. In quella occasione, oltre a presentare per la prima volta il lavoro, presso una prestigiosa istituzione museale, hai avuto l'opportunità di sperimentarne un allargamento in senso partecipativo. Parallelamente alle immagini esposte nella project-room del Museo hai infatti realizzato una parte del tuo progetto all'interno del Cubo Garutti, micro-struttura espositiva decentrata nel periferico quartiere Don Bosco.
Quanto questa esperienza ha modificato la struttura del lavoro e quanto ha inciso nel tuo percorso di ricerca?
P.R.: Da questa occasione, grazie anche al dialogo con la curatrice Frida Carazzato, è nata l'idea di usare il progetto Vetrinetta per rendere pubblico un affetto privato, portando la famiglia e i suoi ricordi fuori dalle mura domestiche e innescando un legame più aperto tra lo spazio privato, la casa e lo spazio pubblico.
Con Museion il progetto invita le persone a essere portatrici del proprio sguardo.
La prima fase del processo è stata funzionale alla raccolta delle vetrinette, avvenuta in modo diretto grazie alla collaborazione tra il Museo e un'associazione di quartiere che ha messo a disposizione due volontari per entrare nelle case. La seconda fase del processo è stata quella di far allestire a rotazione dalle signore la propria vetrinetta in uno spazio pubblico, il cubo-vetrina. La costruzione di un blog e il rapporto con i media - stampa e televisione - hanno consentito di raggiungere, e quindi di invitare alla partecipazione, un pubblico più vasto rispetto a quello adiacente al cubo.
Da questo momento in poi Vetrinetta smette di essere un progetto restituito attraverso il dispositivo fotografico e assume tra le sue pratiche molte delle azioni e modalità che sono più vicine all'arte relazionale, al rapporto arte/architettura, ai processi installativi, fino al rapporto con i media, con la politica, con il sociale.
M.B. L'anno successivo, dopo avere conosciuto il tuo lavoro di Bolzano, Roberta Valtorta ti ha invitato a realizzare un progetto a Cinisello Balsamo per il Museo di Fotografia Contemporanea, istituzione decentrata nel territorio e attenta alle più attuali trasformazioni della fotografia nell'ambito dell'arte contemporanea.
P.R. : Ho seguito il Museo nel corso degli anni e penso si sia presentato con molta chiarezza al pubblico nella sua doppia anima, da un lato lavorando con artisti che usano solo la fotografia come dispositivo di racconto, dall'altro incentivando, costruendo e promuovendo le pratiche artistiche contenute nei processi partecipativi.
L'invito che ho ricevuto dal Museo per realizzare un progetto a Cinisello Balsamo ha comportato la condivisione di una lunga e approfondita fase di ideazione e progettazione. Questo mi ha permesso di consolidare processi che avevo utilizzato nei miei precedenti lavori: in questa occasione, grazie alla lunga durata temporale, al desiderio di costruire processi sempre attivi e aperti alla possibilità di accrescimento, ma anche semplicemente per il numero di vetrinette raccolte, il paesaggio sociale che nelle fasi precedenti era semplicemente evocato dalle immagini delle vetrinette diventa manifesto.
I corpi delle tante persone coinvolte, la loro presenza costante e attiva durante tutto l'arco del progetto, le case, gli arredi, gli oggetti, le storie riunite hanno consentito di restituire un processo che rende più evidenti le pratiche di indagine sociale e di relazione con lo spazio pubblico rispetto alla loro rappresentazione.
M.B. Cinisello Balsamo è stata una città molto giovane negli anni Sessanta e Settanta, quando cresceva a velocità smisurata con i lavoratori che arrivavano da ogni parte d'Italia e soprattutto dal Sud. Oggi è una città di anziani, spesso soli e comunque asserragliati in un privato che la paura dell'altro rende sempre più invalicabile.
Mi sembra che una delle suggestioni più forti di Vetrinetta, al di là dei mondi che questi mobili contengono e che le tue fotografie consentono di guardare con esattezza e meraviglia, sia il senso di casa che emana, in una implicita dialettica tra privato e pubblico.
Così, l'idea di spingere il progetto - e quindi il Museo - ancora più all'interno delle case e di invitare i partecipanti stessi a offrire un caffè in casa propria ad altri cittadini, amici, visitatori della mostra, mi sembrava potesse ampliare idealmente il lavoro e contribuire a saldare relazioni inaspettate tra le persone. D'altra parte sempre più spesso le radici dell'arte partecipativa vengono individuate nel teatro e nella performance, ossia nell'unicità dell'esperienza e dell'incontro dal vivo. Si è trattato quindi di un esperimento, una proposta fatta con leggerezza e semplicità, senza forzature.
A volte i progetti pubblici diventano macchine che imbrigliano le persone in strutture rigide, vincolate a discorsi predefiniti, protagoniste di una ossessiva documentazione. I caffè volevano invece invitare a una pausa, una minima deviazione nel flusso ordinato dell'esistenza, in cui salvaguardare l'aleatorietà di ogni incontro e la curiosità di una chiacchierata tra sconosciuti.
Eravamo curiosi di vedere come sarebbero andati i caffè e penso di poter dire che l'esperienza si sia rivelata molto positiva, ben oltre le nostre aspettative o i nostri timori. Ci auguriamo quindi che i caffè possano addirittura proseguire autonomamente in futuro.
P.R.: Il caffè ti permette una seconda occasione per entrare nel privato, nella casa, questa volta però lasciando confluire dialoghi e parole senza la necessità di portare la vetrinetta al centro del discorso. Il caffè è uno spazio libero di sperimentazione. Spesso penso a come la letteratura americana del novecento sia stata densa di storie che raccontano il legame tra le persone e gli spazi vissuti. Penso alla spietata lucidità con cui Raymond Carver descriveva i suoi personaggi, gli ambienti, gli arredi, gli umori. Le case trasudano di dialoghi e parole, di immagini e oggetti che rimangono spesso chiusi dentro le mura domestiche.
I personaggi di Carver sembrano sempre imprigionati da un ineluttabile destino schiacciati dal peso del quotidiano dalle loro stesse manie.
Anche Dan Graham, in
Homes for America, ha introdotto il suo sguardo nella vita degli altri, nelle loro case, usando le pagine dei giornali per rendere nota la relazione tra il marketing e le scelte degli americani sulle questioni relative alle politiche abitative.
Credo che oggi sia importante raccogliere questa grande eredità, lo sguardo sulla vita quotidiana, sulle persone, sugli spazi che vivono.
M.B. : Sono passati quasi due anni dai primi incontri per discutere di quello che sarebbe stato Vetrinetta. Questo lungo dialogo conclude un ancora più lungo progetto, complesso e molto articolato, che ha coinciso tra l'altro con un momento non facile per il Museo di Fotografia Contemporanea e, più in generale, con una situazione di crisi economica e culturale.
Pierre Devin, direttore di un progetto politico e visionario quale è stata tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta la Mission Photographique Transmanche, sosteneva che la committenza (che in quel periodo era quasi esclusivamente pubblica) assomigliasse a un match di pugilato tra artista e committente. Cosa dobbiamo fare ora? Indossare nuovamente i guantoni o abbracciarci, sfiniti, grondanti sangue e sudore, come in tante scene di film americani?
P.R. : Questo progetto ha visto incrociarsi il comune, una provincia, che è nel frattempo diventata Città Metropolitana, una fondazione bancaria, un museo, un artista, un curatore, un'associazione locale che ne ha coordinate altre, un gruppo di giovani ricercatori e infine centinaia di cittadini.
Ogni attore ha probabilmente una propria idea di che cosa siano e a che cosa debbano servire la cultura, l'arte e, più nello specifico, l'arte pubblica. Ognuno intravede un'opportunità, ognuno reclama un proprio ruolo. Se si è trattato di un match di pugilato, mi sembra che il ring fosse abbastanza affollato, non credi?
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sulla mostra che si è svolta presso il Museo di Fotografia Contemporanea e sul volume presentato in occasione del finissage
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sul progetto Vetrinetta
e sulle sue diverse fasi