“A volte vado, a volte vengo / di che si tratti non mi sovvengo. / A volte vado a volte sto / di che si tratti io non lo so”
Ronald D. Laing
Con Ermanno ragiono attorno all’intervento che mi ha chiesto di fare all’interno del dibattito sulle pratiche artistiche contemporanee
Voglia di 68? La domanda mi appare un po’ perentoria, e forse non vedo neppure tutta quella urgenza di pratica politica nei giovani, mentre è certo che vi sia un ritorno a certe pratiche artistiche. Tuttavia, con questi temi mi confronto quotidianamente da venticinque anni attraverso la pratica di Museo Teo (oggi Museoteo+), e, individualmente, proprio dal ‘68
Tra l’altro – lo informo – ho appena affrontato questi temi nel libro collettivo
Research/Milano(1) parlando della mia esperienza con l’arte contemporanea tra il 1970, con l’arrivo del
Nouveau Réalisme a Milano e il 1990 con la nascita di Museo Teo.
Si schermisce Ermanno, celandosi dietro al caldo di questa estate particolare, ma mi indica delle linee di pensiero scovate nel mio testo che lo intrigano, dal «concerto di Cage a Milano alla casa di via San Sisto, dove c'era solo "quello che resta quando non resta niente"». E poi «Il nomadismo di Museo Teo e la sua "leggerezza" (senza opere, senza spazio) (Duchamp diceva che bisogna essere leggeri, non avere gravami per potersi muovere liberamente) credo che stiano tutte lì, in coerenza con un bisogno di dispersione dell'arte nella città, che forse a Milano, anche se in termini molto diversi, si origina proprio dalla manifestazione del
Nouveau Réalisme (io ho le diapositive originali che avevo fatto allora)» cito alla lettera.
Ecco, ha già sintetizzato tutti i concetti, io cerco solo di specificarli: uno degli argomenti cardine dell’esperienza di MT è proprio quello della leggerezza dell’esperienza relazionale di quella che è, di fatto, un’opera in continua trasformazione che promuove la creazione di relazione creative, la produzione di socialità e di senso, operando ai margini del sistema dell’arte. Sempre ripensando al’68, abbiamo cercato l’impossibile: portare l’arte fuori dagli spazi istituzionali, letteralmente nelle case della gente e sui luoghi di lavoro; sempre lavorando negli interstizi e (quasi) sempre a zero budget.
Ermanno parla della capacità sovversiva di MT: se penso al mio operare e alla sua incerta collocazione (artista, curatore, critico, sociologo, insegnante giornalista…) in un mondo dove tutto deve essere collocato in caselle precise, questo può risultare sovversivo.
Ecco, MT è un museo leggermente sovversivo: la sovversione come pratica quotidiana e quindi non fatta di gesti clamorosi. Il quasi normale è sovversivo. Basta un quasi… Uso il termine sovversione perché piace a Ermanno, mi limiterei a parlare di scompiglio. Ecco, ci piace portare un po’ di scompiglio, e forse ci siamo riusciti. La nostra pratica è sempre stata politica, che non significa fare arte che richiama direttamente alla rivoluzione. Bastano i modi di agire: ai margini, ma non marginali, ovviamente.
Ripenso però ad alcuni dei titoli delle mostre o ai temi della rivista: l’arte alla fine del tempo, ci basterebbe l’intelligenza, sopraffatti dall’orrore del comfort, la città dei luoghi, percorsi del margine, saldi di fine impero, la casa dei fantasmi, il fantasma della libertà. Non male, però! Vediamo di ricostruire alcuni passaggi fondamentali del percorso di MT: intanto parto da una citazione di Laing che in generale ho sempre pensato fosse una precisa analisi del senso della vita, ma che ben si adatta anche all’idea del nomadismo della pratica artistica e dell’agire nel mondo.
Nel 1979 ho incontrato Ronald Laing e ho fotografato l’autore di Nodi mentre si annodava la cravatta (cfr MTAF#37), un incontro “leggero” al termine di una conferenza impegnativa: in realtà Laing non si sta annodando la cravatta, ma se la sta togliendo. Finita la conferenza si libera di un peso, di qualcosa che non gli appartiene. Ma lo sappiamo perché vi svelo il mio segreto, ma il segreto dell’arte non è sempre possibile disvelarlo: l’immagine di Laing alle prese con la sua cravatta è la prova che la verità non è mai quella che appare o ci raccontano.
Infatti Museo Teo è tutto fuorché un museo, inteso come luogo di conservazione, per quanto avanzate siano le concezioni che lo animano.
Da Laing riceviamo l’idea di nessuna certezza, di vivere con la leggerezza della pratica della deriva metropolitana cara a Debord, mentre Perec ci ricorda che «quello che resta quando non resta niente» sono in realtà delle tracce ben visibili e leggibili. Insisto sul concetto di nomadismo non solo perché Ermanno me lo chiede, ma perché facendolo centra il nocciolo della questione, non si tratta di trovare nuova collocazione a qualcosa, nella fattispecie delle opere. MT non è itinerante, non sposta delle mostre, sposta se stesso, con tutto il suo bagaglio leggero - perché non ha opere - come leggero è il suo spirito.
Si ricomincia ogni volta daccapo, ma non è un ripartire da zero: c’è l’esperienza precedente. È come l’agire umano, il singolo apprende da un patrimonio di esperienza comune.
Molti anni fa due amici si trovarono di fronte a un cartello che diceva «Chien interdit, même au laisse», vuoi che il cartello fosse deteriorato,vuoi la scarsa conoscenza della lingua, la fantasia fece leggere loro «Rien interdit» e il guinzaglio divenne voce del verbo lasciare: quindi tutto era possibile! Il rafforzativo del divieto si rovesciava nel suo contrario; in un colpo solo avevamo il
vietato vietare, vogliamo l’impossibile e la
fantasia al potere.
Voglia di 68? Preferirei di no dice qualcuno, ma la voglia di 68 può avercela chi come me aveva 16 anni e ha visto sgretolarsi un mondo che sembrava immutabile: “Avevo sedici anni nel sessantotto e questo mi ha salvato la vita. Nel senso che me l’ha cambiata" (2)
È vero che siamo ritornati a delle strutture rigide e oppressive nel campo della politica e del lavoro, ma in alcuni campi del pensiero forse qualcosa è servito. Fa sorridere il titolo del libro di Mario Capanna
Formidabili quegli anni, ma è vero, lo sono stati, per chi li ha vissuti. Non sono nostalgico, sono realista e voglio continuare a fare il possibile per avere l’impossibile. La pratica politica dell’arte non è certo solo nei contenuti, ma nei modi.
Ho attraversato il ‘77 e già le cose erano cambiate: si parlava ancora di fantasia e ironia ma il potenziale provocatorio e sovversivo di John Cage era tacciato di essere (testuali parole di un sedicente compagno, [a pagamento posso dire il suo nome…]) “
un ameriKano [americano con la kappa]”.
Il Teatro Lirico fu devastato dal pubblico, mentre Cage continuava imperterrito la sua litania, e lo faceva con grande leggerezza
www.johncage.it/1977-empty-words.html
Presentare l'arte in una dimensione democratica e quotidiana e, contemporaneamente, riflettere sul mondo dell’arte deve essere fatto con leggerezza. La scorsa estate MUSEOTEO+ e RISS(E) hanno organizzato un
Picnic alla casa dei fantasmi: «Il picnic è in giardino, all’ombra del tiglio e al cospetto di un maestoso abete, e lì si mangia e si beve, perché l’arte se non è una festa… (“La rivoluzione sarà una festa o non sarà” si diceva quando i curatori erano giovani…). Finito il picnic si smonta la mostra, che dura il tempo della inaugurazione».
Questo non impedisce di muoversi nella prospettiva di un’arte relazionale e di impegno civile, per sviluppare una riflessione sullo stato dell'arte oltre che del mondo presente, rispondere alla crescente semplificazione e banalizzazione proposta dalle strutture dominanti.
Il punto di partenza è l’esistenza di una complessità che si trova a un livello superiore rispetto all’individuo, che si manifesta nella forma della cultura e nello scambio simbolico. Ma un superiore livello di complessità è quello che lega l’uomo alla natura: livello che richiede una maggiore consapevolezza – o addirittura di saggezza - rispetto alle cose di tutti i giorni.
Devo trarre le conclusioni, forse; anche se mi piacciono i finali aperti. Mi frullano sempre per la mente la citazione di Orio da Burroughs “Niente è vero, tutto è permesso", (che oggi forse suona nel suo contrario…) e la sua affermazione “Il futuro prossimo dell'arte si giocherà sulla cesura tra arte sommersa (inaccettabile) ed arte emersa (accettabile) e sarà uno scenario completamente inedito”. Ma forse non è il futuro, ma il presente e, se diamo credito ad Hauser, anche il passato.
Seguo annoiato Beatrice Trussardi che legge il suo compitino alla presentazione della mostra La Grande Madre, quando la sento dire delle cose che mi pare di conoscere: “La Fondazione Nicola Trussardi, che da più di tredici anni è uscita dalla sua casa per entrare nelle case della Città, prosegue l’attività in questa direzione segnando l’avvio di nuove modalità e relazioni.
Il nostro obiettivo è portare l’arte nella quotidianità di tutti i cittadini perché possa funzionare come modello di coesistenza e di partecipazione utile a individuare nuovi futuri possibili. È questo, in fondo, ciò per cui lavoriamo con passione”. Benvenuta! Museo Teo non avrà mai Palazzo Reale o l’Ottagono della Galleria ma, ripensando ai luoghi che abbiamo frequentato (casa occupata, casa di Cristina, casa abbandonata, chiesa sconsacrata, centro sociale, trovarobe, ristorante vegetariano, ex-ospedale, cascina, cantina…) preferisco così. E ora andiamo a festeggiare i nostri venticinque anni a Macao.
1) AaVv, Re/Search Milano. Mappa di una città a pezzi, Agenzia X, 2015
2) AaVv, cit.
Giovanni Bai (Milano, 1952) è sociologo, artista e agitatore culturale. Nel 1990 ha fondato Museo Teo, museo senza sede e senza opere, istituzione atipica per la diffusione dell’arte contemporanea che promuove la riflessione sull’arte, la comunicazione, la società e la metropoli organizzando mostre e pubblicando la rivista Museo Teo Artfanzine.
Questo testo è parte del dibattito "Voglia di '68?" avviato da Ermanno Cristini sulle pagine di UnDo.Net, a cui stanno contribuendo artisti e curatori...
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